La Terra dei Mucchi di Pietre
di Maurizio Feo
14. Un nuovo destino.
L’indomani il risveglio dei componenti della
Compagnia fu faticoso e tardo, ma il villaggio sembrava già animato da una rinnovata
volontà: vi fervevano i preparativi di viaggio ed era grande l’eccitazione.
Hur aveva già raccolto il suo popolo di montanari ed
aveva chiaramente espresso e motivato i propri ordini, che erano quelli del
capo indiscusso e della somma guida religiosa. Aveva usato molte parole, Hur,
perché grande era il cambiamento di destini e grande - egli sapeva bene - il
sacrificio che esigeva.
Spiegò che tale sacrificio sarebbe stato premiato
dagli Dei, perché con esso si difendeva la loro terra da nemici che l’avrebbero
altrimenti oltraggiata. Ognuno si era convinto: se così parlava chi sempre li
aveva condotti secondo la Tradizione e la volontà degli Dei, allora così doveva
essere, e così tutti avrebbero fatto...
Presto, in capo a qualche ora, ogni cosa sarebbe
stata raccolta, assicurata sui carri e in viaggio. Sarebbero rimaste indietro
soltanto le pietre affumicate dei falò, ed i rimpianti - aggrappati con le loro
ostinate e lunghe radici alle capanne natie ed al passato...
Ma molto prima di allora la Compagnia avrebbe dovuto
essere già in viaggio, equipaggiata, armata e ben guidata, pronta ad affrontare
le insidie e le fatiche del percorso. Tutto era ormai pronto, ben prima che il
sole raggiungesse il punto più alto nel cielo.
Mandras decise di lasciare indietro i suoi cinque
messaggeri armati, che ben conoscevano il percorso e la destinazione indicata
da Lauchme sui Monti Neri. Inoltre, essi erano ben istruiti su come ottenere la
collaborazione dei fedeli delle rispettive città di provenienza.
Gli mise a capo Iolao.
Questo riduceva la compagnia a venti uomini
soltanto, ma Hanys fece prontamente sapere che egli stesso e trenta dei suoi
guerrieri li avrebbero scortati attraverso la montagna. I cinquantuno uomini
partirono prima che il sole cominciasse a scendere...
L’esile figura di Larthy era lì, tra i cespugli
brillanti del corbezzolo in fiore.
Ella guardava sfilare via quegli uomini e nel petto
aveva un tumulto strano e inusitato.
Cercava con affanno quel giovane della sera prima -
così diverso da tutti gli altri giovani - che non si abbandonava a futili giochi,
ma che così semplicemente e così direttamente sapeva parlare al cuore.
E poi finalmente lo vide ed intrecciò lo sguardo con
lui, che sentiva di non poter lasciare i ranghi ma che - lo si capiva - avrebbe
tanto voluto farlo. Norax guardò verso il Grande Sacerdote e poi nervosamente
intorno. Quindi tornò a guardare verso di lei, con uno sguardo adorante che
l’abbracciava tutta: dalle molle di bronzo che le spartivano i capelli in
ciocche, fino ai piedi, ancora scalzi perché ella era appena uscita dal
tempio. Larthy portò la mano al collo e con essa seguì il laccio di cuoio fino
a raggiungere il piccolo Bes di ambra e lo sollevò un po’ in alto tra due
dita, quasi a mostrarlo per ricordargli il pegno, mentre con l’altra mano
timidamente salutava... “E’ un dio buono del Grande Fiume da cui provengono i
miei antenati” - gli aveva sussurrato Norax nel donarglielo - “E’ un dono a me dal mio più caro
amico e te lo affido. E’ un custode fedele della casa, della musica, della
danza - per cui ti sarà benevolo. Protegge il sonno e riempie di benessere la
casa. Così ti troverò felice quando ritornerò da te, ovunque tu sia, da
qualunque distanza Mammethun ci avrà interposto”.
Norax sentiva di non voler più essere uno. Voleva
altrettanto ardentemente restare con Larthy e partire per assolvere la Missione.
Questi due desideri contrastanti gli davano una smania che egli non riusciva -
per quanto provasse - a nascondere.
Il suo Maestro - che fino ad allora non aveva dato
segno di avvedersi di alcunché - gli disse allora, con tono solenne: “Se Ennin
lo disporrà, tu la rivedrai ed ella sarà nel tuo tempio col benvolere degli
dei - tu Wa Na Ka e lei Po Ti Ni Ja - ed ella diverrà per te tutto ciò che ASU Lèkere é tuttora
per me”.
Poi aggiunse, con aria premurosa e maliziosa
insieme: “Ma non dovresti salutarla prima di partire?”.
Norax lo guardò con muta e grande riconoscenza e
quindi rispose raggiante al saluto di Larthy, portandosi la mano al petto, poi
al capo e infine indicando lei, che gli sorrise in risposta, i begli occhi
lucidi.
Ella segnò nell’aria gli ideogrammi di “uomo” e
“donna” e poi fece l’atto di stringerli stretti stretti insieme tra le mani...
Sul petto di Norax una piastra di rame con una
doppia ascia incisa brillò rossastra, restituendo intorno, esultante, i caldi
raggi del sole...
Il bosco che presero ad attraversare, ben presto
divenne un’impenetrabile ed immenso intrico di piante, ogni tanto solcato dai
viottoli tracciati dai grossi animali selvatici. Sarebbero stati più facili da
percorrere, ma purtroppo seguivano direzioni erratiche del tutto inutili per la
Compagnia, eccettuati brevi e benvenuti tratti. In alcuni punti essi
sfruttavano - procedendo in fila indiana - i sentieri tracciati dai cacciatori
di Hanys nelle loro battute abituali.
In questo modo - fortunatamente per loro - i tratti
veramente impenetrabili, che richiedevano un alto pedaggio in tempo e fatica,
erano alternati ad altri più agevoli, se non proprio riposanti. Le alte sagome
dei vari tipi di cerri, lecci, roveri, si mescolavano con le chiome dei rari
pioppi dai fusti più chiari e con le forme più snelle e minute dei lentischi
più vecchi. I ginepri avevano assunto man mano aghi più piccoli e chiome più
fitte, forse - pensò Norax - perché ricevevano meno acqua. Anche qui c’era
ovunque intorno il mirto, che diffondeva il proprio odore forte e grato al
passaggio ed ostentava già - tra il verde cupo delle foglie lucide - il viola
invitante dei suoi piccoli frutti golosi (più piccoli e saporiti, giudicò Norax,
dopo essersi servito).
Il mirto portava sempre alla mente l’idea di
Lèkere, e Norax si sorprese a pensare che cosa mai ella stesse facendo in quel
momento...
Proprio allora, una colomba bianca gli volteggiò
leggera intorno tre volte in un frullio d’ali, quindi si allontanò silenziosa
verso la luna già alta. Norax se ne sentì confortato.
Il percorso si andava facendo più ripido ed il
bosco, meno intricato, permetteva ogni tanto di vedere un cielo imbronciato e
malevolo, che sembrava pesare sulla Compagnia, accrescendo la fatica del
viaggio... Presto fu l’ora del pasto.
Hanys dette con riluttanza l’ordine di fermarsi in
un punto che sembrò voler scegliere con molta cura - anche se per la verità a
Norax non parve affatto né più comodo, né più riparato di altri. Non fu certo
un pasto allegro, con il cielo che faceva le peggiori minacce ed Hanys che con
evidente malumore faceva pesare a tutti l’esigua distanza percorsa fino a quel
momento, con in più la grande stanchezza che tutti ormai sentivano. Inoltre, non poté
essere un pasto molto vario, data l’assoluta proibizione di accendere fuochi:
la scelta fu soltanto tra “puls” e “maza” - cioè, o pappa di frumento rinvenuta
in acqua salata o gallette di farina d’orzo inumidite e insaporite con olio e
vino... Ceci, pistacchi e formaggio furono il piatto forte.
Hanys volle quindi tenere un breve consiglio, cui
presero parte Lauchme, Norax, Mandras, e alcuni luogotenenti scelti tra
guerrieri e cacciatori.
“Dobbiamo riposarci il più possibile adesso” - disse
Hanys - “Più in là ben presto nessuna delle mie guide potrà esserci utile ed
inoltre il cammino non sarà più sicuro. Non ci saranno garantiti né il riposo,
né il pasto, né il sonno. Queste saranno le uniche certezze in mezzo
all’ignoto. Il tempo si fa sempre più minaccioso, e anche questo non ci sarà
di aiuto. Se ora avete qualcosa da dire o da chiedere, fatelo: più tardi anche
le parole dovranno essere assai poche e soltanto la fatica sarà sicura ed abbondante”.
Mandras grugnì qualcosa di incomprensibile, con
l’aria di chi é pronto ad agire e non si aspetta comunque niente di meglio.
Naturalmente, non essendo per mare. Norax avrebbe voluto dire e chiedere
diverse cose, ma non sapeva bene da quale argomento cominciare, né voleva far
perdere tempo prezioso con domande che potevano sembrare sciocche o
intempestive. Il Grande Sacerdote ruppe quel silenzio imbarazzato e
lentamente disse con la sua calda voce serena e ferma: “Abbiamo una Missione
da compiere. In essa noi crediamo con una forza che ci permetterà di superare
gli ostacoli. Non conosciamo ancora per intero il prezzo - questo é vero - ma
sappiamo che la rinuncia sarebbe di
certo più gravosa di qualsiasi pedaggio gli dei ci vorranno imporre. E più colpevole”.
Ancora una volta, Lauchme aveva saputo restituire
alla cenere del fuoco la sua forma primitiva di albero intero e vivo, quale
essa aveva prima di bruciare. E questo mirabile risultato egli aveva ottenuto
tanto con la forza delle sue parole dirette e suadenti, quanto con
l’espressione intensa del volto, i lampi degli occhi, la compostezza e la
dignità profonde che emanavano dalla sua figura intera. Ed infatti, tutti furono
rassicurati nella loro convinzione; pur se non si sentirono certo più allegri,
sentirono più forte il richiamo al dovere da assolvere.
Ripresero dunque ad inerpicarsi per la montagna
attraverso il bosco, con la consapevole lentezza di chi viaggerà finché la luce
permetterà di indirizzare i passi. Le guide di Hanys presto presero a procedere
caute, ognuna incaricata della sorveglianza di un arco di orizzonte, in modo da
coprire insieme tutte le direzioni. Alcune scrutavano lontano, altre - le più
esterne - frugavano con occhi attenti e addestrati il fitto della vicina
vegetazione.
Il Sacerdote - preoccupato, più che incuriosito -
chiese il motivo di tanta cautela e la risposta che ottenne da Hanys non fece
che confermare i suoi timori: “Vi é la gente delle grotte. Poco più in là.
Aggrediscono all’improvviso. Poi scompaiono. Sempre senza tracce. Escono dalla
montagna. Nessuno riesce a seguirne i passi. Nemmeno i migliori cacciatori.
Dopo quella cresta lassù - vedi? - il pericolo sarà continuo”.
Hanys parlava con frasi brevi, adesso, con una
cadenza dettata dai suoi passi. Per conservare fiato prezioso. Dal canto suo,
il Sacerdote era ben contento di dover soltanto ascoltare ed annuire, mentre le
parole dell’altro accompagnavano il ritmo regolare della marcia comune.
“In passato abbiamo sempre aumentato il numero dei
nostri cacciatori, ad ogni battuta, su queste terre” - proseguì Hanys - “Ad
ogni attacco essi erano comunque sempre più numerosi di noi”.
Il Sacerdote quasi pensò a voce alta, profittando
di una pausa dell’altro: “Perché li chiami gente delle grotte, se non hai mai
visto dove vivono?”.
Hanys gli rispose: “Perché vestono solo di
pelli. Non sanno tessere. Usano accette
e clave di pietra bianca. Scheggiano la pietra nera per farne coltelli, punte
di freccia e di lancia. I loro scudi sono di pelli e di legno. Sono abitanti
delle grotte, ma non vivono presso il mare, bensì nel cuore della montagna”.
Norax, che di questo colloquio non perdeva neppure una parola, pensò che questo
discorso era, da una parte, assai convincente per spiegare l’appartenenza al
popolo delle grotte dei loro potenziali prossimi nemici. Ma considerò che nel
contempo era inquietante e assai poco convincente nel descrivere la strana capacità
di scomparire - senza lasciare traccia alcuna - nel cuore della montagna, ciò
di cui invece Hanys mostrava di essere più che sicuro.
Sia il Sacerdote, sia Norax, suo allievo, presero a
studiare criticamente Hanys, quasi si fossero accordati in precedenza. Questi
si muoveva come un gatto: deciso, silenzioso, agile, esperto. Sceglieva il
percorso più agevole e più sicuro, senza esitazioni, né errori. In precedenza -
adesso era chiaro - aveva scelto per la sosta, una zona ove la Compagnia fosse
assolutamente invisibile dal territorio del nemico. Certamente, Hanys sapeva
riconoscere l’ingannevole mantello della selvaggina camuffata tra le rocce ed
il fogliame, ne conosceva le tracce, l’odore, le abitudini, le debolezze, la
pericolosità e le esigenze. Ma nel contempo era un guerriero della montagna e
sapeva distinguere i rumori naturali ed animali dal diverso fruscio causato da
un uomo che si muova furtivo e nascosto.
Malgrado ciò, Hanys ammetteva che i suoi cacciatori
e lui stesso erano stati più volte sorpresi dagli uomini delle grotte.
Raccontava che questi combattevano con furore, di
sorpresa e in maggior numero, in modo da bilanciare l’inferiorità delle proprie
armi. In questo modo - ammise Hanys - avevano ottenuto che le incursioni nel
loro territorio fossero rare e motivate da periodi di grave scarsità di
selvaggina.
Il Sacerdote prese nota del fatto che non parlava
con acredine dei nemici ed anzi riconosceva loro un certo diritto alla difesa
del proprio territorio.
Questo atteggiamento di sostanziale lealtà, ben si
accordava con i piani di Lauchme ed egli ne fu soddisfatto, tra sé...
Ad un certo punto Hanys li ammonì tutti nuovamente,
sottovoce: “Da qui in poi, se li vedremo, sarà già un attimo troppo tardi:
teniamo quindi sempre pronta un’arma. Tendete le corde degli archi. Non
parliamo, se non per dare un allarme. Quelli che hanno la vista migliore si
dispongano all’interno e sorveglino lontano. Chi ha buon udito stia all’esterno
e guardi subito intorno, con la freccia incoccata”.
Era un messaggio di massima allerta.
Il gruppo procedeva ormai il più silenziosamente
possibile, guardingo e teso, più lentamente ancora di prima, sotto una pioggia
leggera e fitta, che tormentava gli uomini e acuiva il volubile morso del vento
sulla loro pelle... Hanys sceglieva ancora il percorso, questa volta su zone
che permettessero sempre un’alternativa di fuga, evitando le gole troppo
strette, come i sentieri troppo vicini a precipizi e tutti i terreni troppo
rischiosi.
Quando non restava alcuna possibilità di scelta,
faceva dividere il gruppo in squadre di dieci uomini. Una sola squadra per
volta si muoveva a turno, sotto il controllo delle altre. In questo modo
sperava di non esporre mai tutti gli uomini insieme. La pioggia si fece più
forte man mano e prese a scendere con improvvisi scrosci violenti, alternati a
momenti in cui - pur restando fitta e grossa - permetteva almeno di vedere
qualcosa intorno. La terra, che fino ad allora aveva avidamente assorbito la
pioggia, adesso cominciava a mostrare di essersi dissetata a sufficienza. Fango
ed acqua in alcuni punti ostacolavano già l’avanzare di uomini e animali.
L’ordine a gesti di Hanys, che non giunse inaspettato, fu di non fermarsi
neanche allora. Per quanto fosse sgradito a tutti proseguire con quel tempo, a
tutti era parimenti chiaro che in quelle condizioni nessun orecchio avrebbe
potuto udirli e - con un po’ di fortuna - nessun occhio li avrebbe scorti. Gli
uomini ciononostante scrutavano sospettosi gli anfratti visibili nei costoni,
le profonde fenditure delle alte creste di roccia, ripetendo tra sé che certamente ben più nascosta e segreta
era l’entrata ai remoti quartieri del popolo delle grotte.
Fangosi ruscelli neoformati ormai cercavano ognuno
la propria strada a valle, quasi in tutte le direzioni, alimentati dalla
pioggia incessante. Il vento si
era fatto più continuo e più forte, mentre la pur pallida luce del sole
cominciava a venire meno. Cercare l’eventuale nemico in agguato diventava
sempre più penoso.
Gli uomini erano stanchi. Il rischio aumentava in
proporzione.
Hanys raccolse un ciuffo di erbetta grigiastra, con
piccole foglie simmetriche e piccoli fiori viola, ormai appassiti, su tutte le
cime. Quindi lo strofinò tra le mani e inspirò forte, chiudendo gli occhi e
rovesciando il capo all’indietro. Anche altri dei suoi uomini ripetevano gli
stessi, curiosi gesti. Norax, individuato il tipo di erba, che cresceva in
fitti cuscini, volle provare anch’egli. Inspirò profondamente l’erba stropicciata
ed un aroma acre e violento lo costrinse a chiudere gli occhi.
Per un attimo gli bruciò forte nel petto. Poco dopo
ne scoprì l’effetto ricercato dagli uomini di Hanys: prese a respirare più
facilmente, con un respiro più calmo e profondo, non più ansimando di fatica.
Il Sacerdote, che lo aveva osservato divertito, gli
sussurrò, sorridendo: “Simile al timo... molto più forte... non muore ogni
anno”: è l'erba di Papore.
Il buio stava ormai guadagnando tutto l’arco del cielo,
che restava un po’ più chiaro alle loro spalle, soltanto illuminando di residua
luce appena rosata il pendio di fronte a loro. Hanys decise di non superare la
cresta in quelle condizioni sfavorevoli di luce, perché nel farlo si sarebbero
stagliati contro il tramonto in modo troppo evidente, esponendosi
eccessivamente, malgrado la pioggia. Perciò si portarono più in alto possibile,
con proibizione di sporgersi oltre il margine, e si cercarono ognuno un posto
- il più asciutto possibile - ove dormire qualche ora. Qualcuno si sistemò
sotto una roccia sporgente, qualcuno sulla biforcazione, oppure nel cavo, di un
grosso albero. Gli altri stesero le coperte sopra di sé per ripararsi.
Per tutti fu una miserevole notte...