Terra dei Mucchi di Pietre, cap V
5. Due nuovi amici.
Molte novità inattese si erano succedute in così
poco tempo, eppure lui era lo stesso ragazzo di poco prima - o no? - e gli avvenimenti sembravano un tumultuoso sogno,
incombente e minaccioso, ma senza corpo: l’investitura solenne del Gran Sacerdote,
il bacio ad un tempo leggero ed intenso, colmo di tenerezza, della Bithia e
l’urgenza dell’ambasciata segreta al Grande Mandras.
Che cosa, di
tanto inquietante, stava mai succedendo? Dove? Ma egli si scosse, vista - al momento, almeno -
l’impossibilità di rispondere a quelle domande, e corse giù per i primi passi
come per farsi perdonare l’avere indugiato in un sogno ad occhi aperti dopo
l’inaspettato bacio di Lèkere. Il coltello sacrificale rimbalzava leggero sul
suo petto, quasi rassicurandolo con la sua nuova presenza, ma nel contempo richiamandolo
all’incerta realtà. E al dovere.
Quasi subito, con un certo disagio, Norax avvertì
intorno a sé la presenza viva del bosco,
che nel declivio tornava ad infittirsi di piante alte - e fu grato di avere
chiare indicazioni ed una via da seguire. Infatti in molti tratti ebbe
l’impressione che il bosco fosse animato da una volontà propria e che fosse sul
punto di riprendersi il viottolo per sé e cancellarlo del tutto, con le sue
propaggini verdi.
Forse, anche il senso oscuro del pericolo - che poco
prima aveva letto sui volti preoccupati del Maestro e della Bithia - si agitava
nei suoi pensieri e gli opprimeva il petto. Ma Norax sapeva come vincere queste
suggestioni e non farsi sopraffare dall’antica e sottile magia del bosco. Egli
prese a guardare le piante e a riconoscerle una per una, ripetendone tra sé i
pregi e le caratteristiche, secondo quanto aveva pazientemente appreso in
precedenti, lunghe e noiose lezioni... Guardandosi intorno riconobbe subito
qualche pero corvino, dalle chiome accese di fiori bianchi stellati. Norax
sapeva che i loro frutti non erano di sapore grato, tanto che gli uomini ne
mangiavano solo se costretti da un periodo di carestia. Ciononostante erano
alberi utili - come molti sapevano - perché l’infuso della corteccia colorava
la lana di un bel verde dorato, mentre quello del legno dava un verde muschio
intenso bellissimo. Ma vi era anche
dell’altro, (e qui gli sembrò quasi di udire il sussurro iniziatico del suo
Maestro) che pochi sapevano: quando le vertigini fanno battere troppo forte il
sangue nelle tempie e la vista si annebbia, un decotto delle foglie più tenere
della pianta rapidamente restituiva il benessere... Con legno di pero, inoltre,
erano intagliate le maschere degli iniziati alla rituale processione segreta in
onore di Baki,
dio del vino della terra e dell’acqua del cielo. Perché il pero era sacro alla
Dea degli Inferi, madre austera di Baki...
Qualche ornello saliva esile qua e là verso la luce.
Norax cercò di memorizzarne la posizione in modo da potervi tornare in seguito,
con recipienti adatti a raccoglierne la dolce e sciropposa manna, dopo aver
inciso le cortecce. Intorno stavano dei giovani alaterni, le foglie ovali e
coriacee, le bacche rosso-bruno, i tronchi diritti di legno compatto e duro.
Norax li guardò con rispetto, perché di quel legno era spesso fatto il Labrys del comando. Tanto che la
Vera Gente usava talvolta per l’alaterno, come per il nobile alloro, amico del
cielo, il nome sacro di Labru... Passò
poi tra un folto gruppo di alti alberi di bosso, che riconobbe, ma sui quali
null’altro gli venne in mente, oltre al fatto che qualche zufolo e qualche
posata al villaggio erano ricavati da quel legno.
Quando vide le chiome degli ontani neri, subito
seppe di essere prossimo all’acqua, pur senza vederla. Nero era il nome e parimenti
nero il colore che la sua corteccia impartiva alla lana. Forti erano i remi e
resistenti all’acqua...
E così, discorrendo amabilmente con il bosco, quasi
come avrebbe fatto con un vecchio amico che conosceva a fondo, Norax procedette
sicuro e deciso, più rapidamente e senza spiacevoli sorprese, né distrazioni...
Presto giunse dunque al rigagnolo annunciatogli.
Dopo un’annata che era stata molto piovosa, anche
alla fine dell’estate il guado era molto largo - nel tratto centrale, corrispondente
al sentiero - ma poco profondo. Verso la parte sinistra si infilava con qualche
salto in una forra buia e inospitale, mentre verso la parte destra si distendeva
in una radura apparentemente accogliente - molto profondo, sì, ma tanto stretto
da poterlo saltare facilmente a piè pari, senza bagnarsi. Da questo lato, però,
su ciascuna riva cresceva rigogliosa un’erba folta e verdissima, invitante e vivace, che molto contrastava con gli
sparuti e stenti cespugli più discosti. Fu a questo punto che Norax ricordò le
tanto accorate raccomandazioni di Lèkere ed evitò pertanto di misurarsi nella
solo apparentemente facile sfida, col tentare il salto. Ciononostante, volle
egualmente prendere una grossa pietra e la buttò ben all’interno del tratto coperto
di erba verdissima, non resistendo alla tentazione di saggiarne il terreno...
La pietra cadde con un tonfo sordo e quasi
rimbalzò, mentre tutto lo spiazzo d’erba
prese ad animarsi d’improvviso di movimenti ondulatori senza fine e di strani
soffi e risucchi. Quindi la grossa pietra scomparve di colpo, con un ghiotto
rumore sordo - quasi fosse la deglutizione di una grossa bestia - e mentre
l’infida e verdissima distesa sembrava voler continuare per sempre quella
repellente e rumorosa danza fatta di sussulti, di soffi e gorgoglii, nello
stesso tempo un odore nauseabondo si liberava dalla putrefazione nascostavi
sotto.
Norax rabbrividì, rifiutandosi di pensare a ciò che
sarebbe potuto succedere a lui ed alla sua mastruka, se incautamente poc’anzi
vi avesse messo piede.
Nel punto in cui la pietra era sprofondata
attraverso lo strato di erba, si era formata una chiazza - a forma di impronta
di piede destro - nella quale si scorgeva un’acqua rossa, densa e fangosa... In
essa Norax vide agitarsi disturbata un’anguilla, che sembrò fissarlo brevemente
con il suo occhio spalancato e attento, per poi abbandonare quell’impronta
isolata nel piccolo mare d’erba - uscendone in corrispondenza del quinto dito -
e quindi scomparire del tutto.
Subito, Norax si interrogò su quello strano e
sconcertante episodio: era forse un prodigio mandato dagli Dei? Recitò compiutamente tra sé i caratteri che un
prodigio doveva avere per essere tale - secondo gli insegnamenti dei libri
rituali del Maestro...
Mostri non naturali, oppure innaturali capacità
in bestie, piante e persone venivano talvolta suscitati dagli Dei per comunicare
all’uomo il volere o il consiglio divini...
Ma Norax dovette ammettere che non vi era alcunché di mostruoso o di innaturale
in un serpente d’acqua che sguazza nel proprio elemento.
Né appariva strano che una pesante pietra affondasse
nell’acqua, seppure nascosta da erba palustre: no - concluse Norax - non poteva
trattarsi di un prodigio...
Forse, però, si trattava di un semplice presagio. E cioè, pur sempre di una rivelazione, in cui,
però, la divinità non si prendeva il disturbo di apparire in persona - né
direttamente né indirettamente - pur degnandosi di regalare uno scorcio del futuro,
espresso attraverso simboli e metafore. In questo caso, il presagio poteva
essere ipotizzato dal fatto che l’acqua aveva inizialmente assunto l’aspetto di
un prato, prima di rivelarsi quale realmente era! E se di presagio si trattava,
esso andava allora attentamente osservato (ciò che Norax credeva di aver fatto), poi correttamente interpretato.
Infine, a seconda che la previsione fosse nefasta, oppure fasta, il presagio
richiedeva un rito di scongiuro o di ringraziamento.
Norax ricordava bene che molto più spesso, anzichè
no, i presagi sono forieri di disgrazie e sciagure...
La forma di un’impronta di piede destro - egli era
tra i pochissimi a saperlo - era proprio quella della Terra del Sole... La voracità
con cui la pietra era stata ingoiata dalla terra lasciava intuire un messaggio
di morte, rafforzato dal rivelarsi quella terra apparente per vera acqua
nascosta... Il colore rosso del fango agitato dall’acqua smossa faceva pensare
a sangue sparso ovunque sulla terra del Sole...
Una strage... Una guerra, forse?
Ed infine il serpente - un simbolo di forza guaritrice e di salvezza - che, turbato,
abbandona la terra del Sole... dalla costa del sole nascente...
Ma che cosa poteva mai significare tutto ciò?
Anzi, era poi davvero corretta questa sua interpretazione? O non era piuttosto
soltanto fantasticare senza senso?
Alla fine, Norax fu certo di aver soltanto perso
tempo, scambiando un episodio del tutto normale ed insignificante - che per di
più egli stesso aveva provocato - per un presagio divino. Inoltre lo aveva
sicuramente male interpretato - concluse - sbrigliando la propria fanciullesca
fantasia, invece di impiegare quel rituale rigore di cui il suo Maestro
possedeva il segreto. Quindi qualsiasi rito, di ringraziamento o di espiazione,
sarebbe stato del tutto fuori luogo ed empio.
Abbandonò quindi queste considerazioni, divenute
ormai oziose ed irriverenti. Si inoltrò quindi ben volentieri nella parte centrale
del guado, quella raccomandata da Lekere. Si bilanciò con attenzione,
camminando lento sulle grosse pietre bianche, ben visibili attraverso l’acqua
limpida e fredda. Sulla pietra più grossa, sita proprio nel mezzo, vide incisa
una rassicurante doppia ascia, appena velata qua e là da minuscoli grani di sabbia,
ammiccanti come pagliuzze dorate rilucenti. Riluttante, badando a non bagnare
la preziosa mastruka, fu nell’acqua ghiaccia fino alla vita e più presto che
poté traversandola ne uscì, con l’impressione che il gelo tenace lo seguisse
poi perfino fuori dell’acqua stessa e gli restasse addosso intorno ai fianchi e
aggrappato ai polpacci intorpiditi. Continuò quindi a camminare di buona lena,
sia per allontanarsi - con sollievo - da quello strano luogo traditore, sia per
liberarsi dal formicolio alle gambe, dispiaciuto ad un tempo del graduale venir
meno della luce del sole. Vide - lontano, sulla sinistra - numerosi fuochi già
accesi e tra essi indovinò luci più fioche e tremule, probabilmente di lampade,
che egli sapeva piatte e larghe, piene di olio di lentisco. La strada però si
allontanava ancor più da quelle immagini estranee e familiari insieme, correndo
sicura verso il mare per un tratto lungo e diritto. Alte siepi di biancospino
accompagnavano fedelmente la strada - pervasa da un profumo discreto - qua e là
ancora portando sui rami più bassi le tracce lanose dell’ultimo passaggio di un
gregge...
Era ormai notte, ma una luna piena la illuminava di
una luce azzurrina che nascondeva i colori del giorno per rivelare tra pur
nitide ombre uno strano scenario. Il silenzio acuiva il senso di immobilità
del tempo e delle cose, dando a Norax l’impressione che egli fosse l’unico
essere rimasto a muoversi irriguardosamente sopra un terreno consacrato. Si
sforzava di rendere il proprio passo più leggero e silenzioso. La strada si
apriva - e si perdeva - in uno spazio pianeggiante ingombro di enormi macigni
levigati, dalla forma bizzarra e di colore bianco.
La luce argentea della luna li staccava ancor più
dalla terra, per stagliarli contro il cielo scuro, promuovendo in essi ora una
fattezza umana, ora una forma bestiale o sottolineando qualche aspetto
indistinto che incuteva timore e ammirazione insieme. Alcune pietre sembravano
scolpite da mano di gigante, altre parevano avere vita e perfino poter muovere
bocche distorte ed occhi espressivi pieni di silenziosa angoscia. Alcune erano
trapassate da parte a parte da enormi buchi o fessure, o squarciate da solchi
profondi. Se avesse cantato la civetta, Norax avrebbe sicuramente tremato. Al
centro di questa tormentata zona torreggiava una grande pietra stretta e alta,
che portava in cima il simbolo maschile, e che ne aveva un’intera corte di
altre, simili e più piccole, intorno: tra queste ultime dormiva, riparato,
morbido e silenzioso, muto, un gregge.
"Dormi anche tu” - lo raggiunse di sorpresa la voce
del pastore, che era lì accanto, ma ben
nascosto, come si conviene ad ogni buon guardiano delle proprie bestie.
“Riposa per qualche ora, e domani sarà certo più spedito il tuo passo leggero e
certamente sarà più attento il tuo occhio, cosicché potrai scorgere l’innocuo
pastore prima di dover sussultare al suono inaspettato della sua voce. Riposa:
nulla può accaderci qui, nell’area sacra all’eroe di cui io pure porto, con un
certo vanto, il nome”.
E Norax, che nel frattempo si era ripreso dalla
sorpresa, di rimando: “Accetto volentieri il tuo cortese e benevolo invito, pastore,
ma ignoro - lo confesso - il nome di entrambi e l’epopea dell’eroe. Da parte
mia, mi chiamo Norax, e sono sulla strada di Othoca”.
E il pastore quindi cominciò, con un’aria di allegro
rimprovero: “O Norax, avrai certo sentito cantare di Ioste e dei suoi tempi,
quando il popolo del mare era appena ai suoi primi sbarchi sulla nostra terra,
e la Vera Gente lo considerava con sospetto e inimicizia. Vi fu subito poco e
insoddisfacente commercio, poi sembrò che il popolo del mare volesse prendere
per sé e per l’approdo una quota troppo grande di terra, per cui vi furono
dapprima alcuni scontri. Furono scaramucce e piccole ritorsioni per lo più, ma
non quella di Ioste.
“Come mi vedi, scrivimi” egli diceva
spesso, e aveva una sola faccia e una sola parola. Anzi, egli sosteneva che “la
fune è per la bestia ciò che la
parola è per l’uomo”. Tutti lo amavano e lo
ammiravano: lo chiamavano il Padre della nostra gente. Ogni cosa che lo abbia
in qualche modo riguardato é stata più forte, più grande, più bella e quasi
sovrumana. Egli non poteva sottostare ad ingiustizie, anche perché - amava
dire, ridendo - a chinarsi troppo si mette troppo in mostra il sedere. Ioste
aveva più uomini fedeli con sé di quante pecore non abbia mai avuto io in vita.
E tutti per salvare lui e questa terra felice avrebbero prontamente scambiato
la propria giovane vita”.
La voce del pastore si fece seria e triste, a questo
punto, per introdurre la conclusione della storia: “A quasi tutti la Madre
Terra Ennin chiese di fare quel baratto proprio in questo luogo. Fu un
terribile giorno - così dice la canzone - ma il popolo del mare riconobbe in
seguito a ciò di non avere diritti fino a qui e finalmente strinse un patto fraterno
con la Vera Gente, che in fondo proprio dalle stesse terre lontane era giunta
qui con tanto grande anticipo e con l’olivo sacro. E da allora vivono così,
come due fratelli ritrovati. In pegno si scambiarono da una parte il cavallo -
nuovo regalo dell’oriente - che i popoli naviganti chiamavano ‘Tamna’ - e dall’altra i frutti
della terra, coltivati in superficie o scavati dal profondo. Per ricordare quel
giorno, in cui così alto fu stabilito il prezzo della saggezza, fu rizzata e
infitta nel terreno questa pietra, che incute ancora rispetto sul viandante,
come tu stesso avrai provato... Ma ora su: dormiamo un poco; domani, di
buon’ora, prima si mangia e poi si parte”.
Norax cadde nel sonno appunto come un sasso tra
quegli altri sassi. Dormì profondamente, di un sonno tranquillo. Tanto che gli
sembrò di essersi appena addormentato, quando il pastore già lo scuoteva
gentilmente per svegliarlo e ripartire.
Difatti, solo poche ore erano trascorse in un sonno
sereno e completo, seppur breve, ed il cielo era ancora scuro. Fecero un
frugale spuntino da pastori con formaggio cremoso che era già stato tenuto al
sole. In breve furono nuovamente sulla strada, allegri e svelti, mentre il sole
sorgente accendeva la parte del paesaggio verso cui essi procedevano un po’
cantando spensierati, molto belando e scampanando. Presto ebbero fatto molta
strada ed infine dovettero separarsi, ciascuno verso la propria meta: si scambiarono pertanto auguri di serenità e salute e la promessa
reciproca di rivedersi un giorno...
Non aveva lasciato che da poco i nuovi pascoli
ed il nuovo amico, quando Norax vide immettersi davanti a sé sulla strada un pesante
carro dalle ruote piene.
Si domandò a questo punto se Lèkere avesse mai
saputo davvero di questo futuro incontro, o se soltanto avesse tirato a indovinare,
con successo. Di fatto però il carro era lì, ed il massiccio guidatore - il
viso solcato da profonde rughe, cotto dal sole e dalla polvere - incuriosito
dalla strana espressione di quel giovane si trovò a dire: “Figlio, se vai verso
Othoca e conosci la strada, allora salta su e aiutami ad orizzontarmi, ché io
ci vado così di rado...”.
Tutto sembrava per il meglio, quindi. Norax si
sorprese a chiedergli soprappensiero: “Hai mai visto orsi, qui?” Rise forte il
contadino, con una risata che risuonò come un ruggito e poi rispose: “Per la
luna, mai, figlio! E neanche nel bosco presso Mago Twrshna, dove sarò passato
almeno una volta per ogni pelo della mia tanto decantata barba!”. E gli occhi
gli sorridevano come quelli di un bimbo.
Poi lo guardò intensamente e disse, più serio: “Non
avere strane paure - figlio - se ti manterrai sulla strada giusta, alla fine
del viaggio la bilancia della fortuna sarà pari, anche nel caso che, andando,
ti fosse stata molto in debito, in verità”.
Norax educatamente non azzardò il mettere in parola
i propri pensieri: come potesse cioè un rubizzo contadino - insicuro per
propria ammissione sulla via da prendere - esprimere le sue certezze con un
paragone che di strade appunto si serviva.
Ma più tardi Norax ebbe modo di notare tra sé che
forse si era ingannato. Si era infatti lasciato coinvolgere, tra un discorso
appassionato sulla coltura della vite ed un altro sul flagello di Margiana, che con le sue volpi
saccheggiava àrule e pollai. Ciononostante non gli era
sfuggito il fatto che mai una volta il contadino gli aveva chiesto indicazioni
per scegliere tra i numerosi bivi. Eppure, egli aveva sempre indovinato anche
il percorso migliore per evitare sassi e buche. Forse - concluse tra sé Norax
- aveva solo voglia di un compagno di viaggio cui parlare, perché la strada la conosceva benissimo.
“Ma ecco laggiù
Othoca” - stava dicendo il contadino, indicando tutt’altra direzione da quella
verso cui Norax avrebbe cercato la città. “Come é cambiata” - proseguì il contadino
con un sospiro, quasi parlando a sé stesso - “dicono che in questi ultimi tempi
siano giunti molti viaggiatori e commercianti da terre lontane, che in realtà
non commerciano e quando giungono ad Othoca smettono di viaggiare. Poi,
d’improvviso, prima o poi un giorno scompaiono, forse ripartono, senza un perché...”.
Norax pensò tra se che quel contadino avrebbe fatto
bene a restarsene tra le sue campagne, perché certo nessuno ad Othoca avrebbe
avuto il tempo né la voglia di ascoltare quei discorsi strampalati e senza
senso. Lui stesso, non fosse stato per il prezioso passaggio offertogli - non
avrebbe mai più pagato un prezzo tale di sua scelta. Ma ciononostante, quando fu
giunto il momento di accomiatarsi, scendendo dal carro, molto garbatamente
Norax lo salutò e lo ringraziò per la sua squisita cortesia. Gli augurò che, in
futuro, Margiana gli si dimostrasse più avara con le sue volpi dispettose e che
invece la Madre Terra fosse tanto più generosa e feconda per le vigne, per il
grano e per il benessere della sua sempre più numerosa famiglia. E che quindi
andasse in pace con i suoi migliori auspici.
Il contadino parve molto soddisfatto di questi suoi
garbati auguri e nel salutarlo calorosamente, con robuste pacche sulle spalle,
gli volle donare una fiasca di vino annacquato e del pansecco dicendo: “Buona
fortuna, figlio: se é vero che il grano si miete per la testa e non per il
gambo, hai fatto bene a parlar poco di te e a nascondere il coltello sacro
sotto le vesti, di fronte a chi non sai se ti è amico. Ma - bada - le persone
che non devono sapere non sono sulle strade e non ti guardan dritto; esse sono
sulle porte e nelle taverne di Othoca infida e sono finti commercianti e vere
spie. E il loro sguardo è obliquo. Così ti dico e so, per certo. Ennin ti sia propizia: va’ in buona sorte e
ricorda sempre che una bocca chiusa non si riempie mai di mosche...”. Quindi
partì, lasciandolo in vista di Othoca, senza più voltarsi.
E mentre Norax perplesso lo guardava allontanarsi,
una colomba bianca dagli alti alberi frondosi scese volteggiando a posarsi tra
le corna del bue che sbuffando trascinava via il carro cigolante.
Nel vivo ricomporsi di quel simbolo sacro Norax
seppe con certezza che almeno fino a quel momento non era mai stato veramente
solo...
Sperimentò una sensazione fino ad allora ignota a
lui: un brivido, misto di piacere e di sconforto, al pensiero che il proprio
destino, a lui stesso ancora ignoto, potesse già essere compiutamente scritto
sui preziosi rotoli di Ennin con l’inchiostro ineffabile del Fato.