martedì 7 gennaio 2014

CAPITOLO XVIII


La Terra dei Mucchi di Pietre, cap. XVIII
di Maurizio Feo

18. Un racconto antico.


Al villaggio l’accolsero con sorpresa, chiedendogli dove mai fosse scomparso ed offrendogli vino, puls, ed i pezzi più squisiti dell’arrosto di capra.
Soltanto Lauchme si ac­corse dello smarrimento di Norax e scambiò un’occhiata significativa con Bakis, che la interpretò correttamente.
Lo vollero seduto accanto a loro.
Bakis disse - parlando for­malmente a Lauchme, - ma guardando intensamente negli occhi di Norax: ‘Hai ragione, o fratello ritrovato, Grande Sacerdote di Tal-Ur; tu - che sei tra i pochi rimasti indie­tro del popolo felice dei Rasenna - e che porti la luce in questa nostra isola dei mucchi di pietre, come essi l’hanno portata nei monti di metallo di Ereb. Ti devo dare ragione ancora una volta: in questo ragazzo Shardana si custodisce il sangue che sa ed ha memoria del nostro comune pas­sato. Ora gli leggo negli occhi il terrore di chi ha visto il volto di Apsu nella Voragine del Golgo ed ha sentito den­tro di sé rinnovarsi l’orrore degli antichi riti cruenti, la morte dei vecchi, il riso amaro e folle del figlio che uccide il padre inabile, dopo averlo portato sulle proprie spalle curve ed estenuate, finché ha potuto. Leggo la confusione e la paura di chi non comprende più quel passato perché, grazie ad Ennin, le messi della terra ormai da ben prima del nostro inizio ci permettono di abitare nelle stesse case senza più migrare, cercando i pascoli. E ci permettono di nutrire anche gli an­ziani. I giovani non sanno neanche più dell’esistenza di quei riti crudeli e funesti e non vi é ormai più vecchio che ne abbia anche soltanto sentito parlare in gioventù, da chi vi sia stato costretto in vita”.
Queste notizie erano in realtà tutte rivolte a Norax, per lenire lo stato d’animo e la sofferenza, l’origine della quale egli cominciava lentamente almeno a comprendere - in uno strano oscuro brivido...
“Hai ragione, Grande Lauchme” - proseguì Bakis - “in questo ragazzo é stata infusa e trasmessa la memoria preziosa della storia e del vero cuore della nostra gente. Ed é per questo che egli così facilmente soffre per ciò che in passato tanto ha ferito ed afflitto il nostro popolo. Io stesso ancora piango, quando rileggo le parole di Avle Feluske, che di tre vite ha preceduto Efix, mio padre. Le ricordo a memoria”. E alzando la mano destra, come pre­gando, enunciò:


“L’inverno muore rapidamente. Le bestie non trovano più pascolo. La mia gente mi chiede di dare l’ordine di partire, ma io vedo mio padre bianco nei capelli e più magro nella sua vecchia mastruka, che sta ormai soltanto seduto e muove qualche passo malfermo, con occhi lucidi e vuoti. Mangio poco io, ma non ho abbastanza da dividere per la fami­glia. Ho già da tempo messo nel pane la farina di ghiande e di castagne, poi l’argilla, ma non basta ancora. Dopo tre giorni, decido di portare mio padre sul Golgo, secondo l’usanza. Lo cari­co sulle spalle e me ne vado senza salutare, senza parlare. Ma tutti sanno. Mi vedono partire, ma non mi fermano e non mi salutano. La mia gente si volta dall’altra parte ed ascolta allonta­narsi i miei campanelli. Il mio passo é pesante e lento, an­che se il mio vecchio e scarno padre pesa ormai ben poco. Il mio occhio guarda in basso e cerca di non posarsi sulla mia mastruka rivolta al contrario, secondo il rito, e sulla sacca piena di vino non tagliato, che gonfia e complice rimbalza sul mio petto. Mi appoggio su di un forte basto­ne, ma so già come dovrò usarlo e so che tornerò senza, dalla voragine. So che dovrò urlare e ridere, dopo aver bevuto il vino. Tutto so - e non vorrei. Il sudore mi brucia negli occhi e le lacrime non lo lavano via. Il cuore mi scoppia nel petto, la vista mi si annebbia: devo fermarmi a metà strada e posare il mio vecchio. Mentre bevo ansi­mando e tremando, per la prima volta egli mi parla e di­ce:  ‘Anch’io mi sono fermato qui, su questa pietra stessa - con mio padre - quando é toccato a me’. Poi tace. Non tocca a lui - così ha inteso dire - tocca a me! Io penso che non m’importerà di morire, quando sarò vecchio e stanco. Quando verrà il mio turno. Ma allora tutto questo strazio andrà, forse, a mio figlio?  Ebbene, io non voglio che mio figlio provi mai quello che io sto soffrendo adesso. Allora ri­prendo mio padre su di me e lo riporto indietro a valle: do alla mia gente l’ordine di partire per la transumanza. E se é vero che chi ha figli non può morire di troppo cibo nel crescerli, io dico che chiunque deve essere libero di morire, vecchio, nel proprio letto, con intorno l’amore dei figli digiuni. Così ho cambiato la legge quel giorno, e an­cora oggi non mi pento...”.
Bakis smise di recitare con aria assente il racconto rivelatore di Avle e nuovamente guardò intento negli occhi di Norax, questa volta parlandogli di­rettamente: “Ecco perché tu sei sconvolto - giovane sacerdote - é perché il tuo cuore dotato vede oltre i tuoi occhi e prima del tuo stesso inizio, più in là. Ecco perché - io credo e dico - tu sarai la più grande guida che Ennin abbia mandato mai sulla nostra isola, con l’aiuto del Ga­lerito Lygmon, l’ultimo dei Rasenna rimasto indietro, che noi chiamiamo Lauchme, Maestro del massimo nurake di Tal-Ur, Custode del Grande Cerchio Magico che dà luce e guarigione. Memoria di te - io ti predico - entrerà nel si­gnificato del nome del Padre del nostro popolo, fonden­dosi con quella degli altri eroi. Ma ora - fratelli - veniamo al dovere presente, che ci vede purtroppo molto, molto impegnati”.
Così disse Bakis - invitando anche gli astanti - e si levò in piedi: era alto e magro, con gli occhi sottili e distanti sor­montati da lunghe e forti sopracciglia.
Una piccola barba a punta e sottili baffi gli circondavano appena le labbra. 
Bakis - almeno dal suo aspetto - poteva realmente essere il fratello maggiore di Lauchme...
Scesero dunque verso il mare, lungo un viottolo scosceso ed impervio. Le piante intorno diventavano - con l’andare - più rade e più riarse, man mano che si scendeva. Il loro aspetto si faceva più contorto e di fatto apparivano tutte piegate nello stesso verso, come fossero volte tutte a fuggire via dall’instancabile respiro salmastro del mare. Nel contempo, il suolo si faceva più friabile e si sfarinava più spesso in sabbia colorata di terra sotto i loro piedi. In più punti le radici vedevano il sole. Qua e là si ergevano pinnacoli di roccia scolpiti dagli estri più bizzarri del vento e dell’acqua, a comporre le forme più strane. Norax giurò ad un certo punto di averne riconosciuto uno a forma di enorme uccello, accostato ad un altro che - ne era certo - aveva una perfetta forma di uovo, per quanto smisurato. Ma non ebbe il tempo di riderne con altri, perché subito dopo gli tolse quasi il respiro la vista improvvisa del mare, che si apriva davanti a lui, immenso, fino ad incontrare il cielo indifferente, che vi si rifletteva. Era calmo, e li salutò con una lieve brezza, fresca e delicata.
La discesa fu ancora ripida e difficile: una facile distrazione avrebbe probabilmente significato una gran brutta caduta, nel migliore dei casi...
Si radunarono finalmente sulla scogliera sottostante all’altopiano, per studiare da vicino i resti di una nave lignea che vi si era incastrata, spinta dalle correnti. Era stata assicurata con molte corde affinché i capricci del mare non la spazzassero via più in là. Gli esperti marinai di Mandras presero subito ad esaminarla attentamente, immergendosi nell’acqua se necessario, o saltando abilmente qua e là sugli scogli. Hanys, Lauchme, Norax e Mandras stesso furono guidati da Bakis fino ad una sottile striscia di sabbia posta alla foce di un ruscello, ingombra di alti oleandri ancora in fiore e di ciuffi di palma nana.
Sulla spiaggia erano stati radunati gli oggetti che gli uomini di Bakis avevano potuto asportare dalla nave in precedenza, ponendoli in bell’ordine uno affianco all’altro. Bakis spie­gò loro, asciutto: “E’ arrivata così, già quasi in pezzi, ma” - soggiunse, sottolineando le parole con chiari gesti - “Non c’era stata tempesta”. Del mucchio di oggetti facevano parte un elmo identico a quello descritto nel papiro di Lauchme. Norax lo guardò a lungo, affascinato e oscura­mente intimorito: era leggero, robusto, fatto realmente di molti pezzi saldati tra loro, alcuni mobili a mezzo di pic­coli ganci di metallo e forniti di alcuni lacci di cuoio per assicurarli tra loro formando un soggolo. Poi vi erano scudi ed armi di foggia strana, che molto impensierirono Hanys per le loro evidenti funzionalità e robustezza. Lauchme stava esaminando una grossa lampada di coccio, larga e piatta, non dissimile da quelle usuali, eccetto che per un dettaglio: il coperchio posto al centro non aveva un pomello bensì era munito di una maniglia ad anello. At­traverso l’anello passava una stringa di cuoio, che spiegò Lauchme - assicurava la chiusura e la tenuta del coperchio anche con i movimenti della nave. Lauchme volle aprire la lampada, per la curiosità degli altri che erano convinti di trovarla vuotata dell’olio: e invece vi trovò una buona quantità di un grasso animale cremoso, e disse: “E’ certamente più adatto a reggere il mare, viene da un paese in cui più scarse crescono le piante che danno l’olio”.
“Qart-Hadasht!”- disse Mandras, che stava esaminan­do un arco dall’aspetto maligno, recante sul legno stra­ne scritte, sicuramente malevole.
“Si” - ammise tranquillo Bakis - “viene da Cartagine, la città nuova, e l’artigiano che lo ha costruito lo ha chiamato appunto: “dispensatore di fato per i nemici di Baal”. Hanys confrontò una punta di lancia con la spada ricevuta dal Gran Sacerdote in regalo e si avvide che il metallo era il medesimo. Lo comunicò agli altri e, nel farlo, si accorse che sul manico era incisa la frase - che Mandras tradusse : “Trova il tuo Rasenna”. Lauchme non trascurò neppure lo scarso sartiame recuperato, che era stato radunato più in là, come cosa priva di qualsiasi interesse. Notò che - malgrado il tempo trascorso in acqua - le funi erano in perfetto stato: erano imputrescibili. Fece notare agli altri: “Sono tutte fatte di sparto, più prezioso e più resistente all’acqua della canapa. E lo sparto è raro quasi ovunque, ma cresce abbondante nella piana intorno a Cartagine, che proprio per questo è detta anche Spartaria”. Avevano esaminato già queste ed altre cose, quando tor­narono i marinai di Mandras, con il loro magro, ma impor­tante raccolto: alcuni pezzi di metallo, in gran parte Car­taginesi, in parte sconosciuti; un libro di lino, da cui l’ac­qua del mare aveva rimosso quasi completamente gli inchiostri. Ma ciò che più rivestiva interesse non erano gli oggetti, bensì le no­tizie che i marinai riportavano dal loro sopralluogo. In­nanzi tutto, una delle ancore era ancora in sede sulla nave: la grossa pietra bucata era ancora lì, sul relitto, la lunga robusta corda ancora arrotolata in ordine, malgrado il di­sastro. Ciò significava con certezza che la nave stava na­vigando, quando era avvenuto qualcosa che ne aveva cau­sato il naufragio. La nave era indiscutibilmente una nave da guerra: stretta e lunga, con poco spazio a bordo, robusta e ancora difesa da qualche scudo sulla fiancata.
Era stata speronata con un rostro tirrenico di bronzo, che aveva impresso il suo profondo marchio - e lasciato alcuni lucidi frammenti - sul compatto fasciame della nave al di sotto della linea dell’acqua. Così forte era stato il colpo, che perfino il ferma rostro aveva lasciato - più in alto - il suo stampo.
Quindi la nave era stata assalita ed incendiata mentre affondava. Anche di questo i marinai elencarono numerose prove: i graffi dei ramponi sulle murate, le vele incenerite, l’albero annerito. I marinai di Mandras furono molto incuriositi da come, malgrado tutto, il fasciame del relitto fosse rimasto mirabilmente insieme, invece di disperdersi completamente tra i flutti. Vollero esaminarlo e scoprirono così che le doghe erano - con una tecnica familiare anche ad essi - mantenute allineate dai tenoni, cioè sottili lingue di legno interamente alloggiate nei ri­spet­tivi solchi di assi contigue. Ma ciò che impartiva quella sorprendente compat­tezza d’insieme erano robusti pioli di legno, che - alternandosi tra le doghe vicine - le cucivano in un unico insieme robusto, molto meglio di quanto non permettesse la tecnica ad essi più nota: una semplice corda passante attraverso un foro comune a tutte le assi.
Ma la prova più sicura che quella fosse una nave cartaginese venne dall’osservazione che su tutte le singole assi di legno era incisa una lettera dell’alfabeto fenicio - alef, bet e così via - per facilitare il compito sia ai falegnami, ciascuno dei quali costruiva i singoli pezzi tutti uguali, sia ai carpentieri, che li avrebbero poi assemblati tutti nell’ordine giusto. 
Si esaminò tutto a lungo.
Solo quando si fu certi di non aver trascurato alcunché si decise di far ritorno a Serapis e di far portare con sé tutto il materiale possibile, per mostrarlo a quanta più gente possibile. Perché tutti dovevano convincersi del grande pericolo, della sua imminenza e soprattutto della sua provenienza cartaginese.
Solo così avrebbero dato tutti il proprio contributo.
Mentre stavano per ab­bandonare la spiaggia e riaffrontare il ripido pendio, risuonò un urlo che li fece volgere verso il mare, come un sol uomo. Uno degli uomini di Hanys, che aveva prestato aiuto nei lavori più pesanti intorno alla nave e che si era attardato tra gli scogli in mezzo all’acqua, stava urlando di terrore, impietrito dalla paura. Nel frattempo indicava agli altri un punto nell’acqua, o più probabilmente qualche cosa sott’acqua, che evidentemente andava muovendosi molto rapidamente. Quando fu più vicino e poté finalmente spiegarsi, disse - ancora con l’emozione in gola - di aver visto un enorme pesce bianco e nero uscire dall’acqua e posarsi addirittura su di uno scoglio, sollevare la strana testa da topo verso di lui, guardandolo con occhi umani ed agitando sbuffando i lunghi baffi, per poi subito scomparire nell’acqua. Gli uomini di Bakis - dapprima allarmati - a questa descrizione risero della sua paura e lo rassicurarono con grandi pacche sulle spalle. Gli spiegarono che egli aveva visto per la prima volta ciò che essi conoscevano bene: una delle ancelle del Grande Dio Serpente. Si trattava di miti creature schive e benevole, tutto l’opposto della viscida e mortale Solifuga che striscia per terra, la notte soltanto, e fugge il sole benefico - letale soltanto per lei. Queste erano invece creature non pericolose, sacre a Sarapis, che di giorno muggivano come buoi e di notte sapevano incantare i marinai con una melodiosa bellissima voce. Erano grandi come buoi, per cui la loro mole poteva spaventare, ma erano creature allegre e gentili, che passavano il tempo giocando  nell’acqua. Abitavano nelle misteriose grotte subacquee che comunicavano tutte con la grande grotta del Serpente, da cui nasce la voragine del Golgo, la Nurra, creata perché Egli possa sempre guardare il cielo. L’uomo di Hanys non parve molto convinto né rincuorato da tutte quelle detta­gliate spiegazioni (cui più tardi Bakis accennò definendole sciocche superstizioni) ed in più non gli era affatto piaciuto il riferimento alla Solifuga. Per cui fu ben contento - e non fu il solo - di allontanarsi da tutta quell’acqua così stranamente frequentata.
La sera scese, insieme alla pioggia, che il giorno aveva lungamente annunciato. Si ra­dunarono nella capanna dei sedili, dove sempre si teneva il consiglio degli anziani. Bakis parlò per primo, come gli spettava, e cominciò: “Io vi dico che una guerra é in corso, da almeno otto lune, per mare. Forse anche per terra, per quanto ne sappiamo. Ne abbiamo visto le tracce qui. Altri paesi, che si trovano sulla costa, mi hanno mandato a dire di essere in allarme. Uno dei due eserciti in guerra proviene sicuramente da Cartagine, che sembra combattere contro le veloci navi dei Rasenna, nel loro mare. Altri popoli che non conosciamo sono coinvolti: alcuni avvistamenti lo testimoniano. D’altronde, anche noi siamo già coinvolti, che lo vogliamo o no: abbiamo già perso uomini validi, buone navi veloci con il loro carico e - forse - alcuni approdi sicuri in altri lidi. Siamo qui per decidere insieme che cosa fare. Ma io vi dico: il tempo é poco, perché siamo impreparati, in una guerra già iniziata”.
Mandras volle la parola, e disse: “Questa nave era sicuramente da guerra: sottile, bassa, lunga, veloce, con molti remi, tenuta bene la chiglia robusta. E’ stata affondata in un’azione di guerra regolare. Il relitto é stato trasportato da sud, perché tuttora prevalgono le correnti marine della stagione calda. Io credo che sia stata distrutta al largo di KarKar - la città del Grande Golfo - e cioè all’ingresso del mare dei Twrsheni o Turshna, che chiamano se stessi Rasenna, e che popolano Ereb. La nave era Cartaginese. Noi abbiamo commerci con ambedue i popoli. In più, con i Twrshna ci lega l’affetto e un vincolo di sangue, con i Cartaginesi un’alleanza commerciale. Dobbiamo scegliere tra i due, non è certo facile. Ma la scelta, se non sarà fatta, si imporrà da se stessa, o meglio, ci sarà imposta crudelmente, perché queste sono le regole della guerra”.
Bakis riprese: “La sorte di questa nave cartaginese sarà egualmente seguita dalle altre - se queste non avranno i porti a cui approdare per fare riposare gli uomini, per le riparazioni necessarie, per rifornirsi di cibo ed acqua. Sono certo che questa esigenza vitale é già stata sentita da qualche marinaio e riferita là, dove si decide”.
“Questo vuol dire” - iniziò lento Lauchme - “che i Cartaginesi romperanno il patto e cercheranno gli approdi sulla nostra terra o addirittura tenteranno di prendere le nostre città sul mare. Da ciò deriva che la guerra é inevitabile, sia che noi si scelga un alleato, sia che non si operi alcuna scelta di parte. Questa situazione potrebbe rispondere ad alcune delle domande che io da tempo mi pongo: ma perché - io chiedo - riempire Othoca di spie, se Kar sarebbe più vicina e quindi più utile per le loro mire?”.
“E’ probabile che i Cartaginesi” - rispose Bakis - “abbiano previsto una nostra più naturale presa di posizione al fianco dei Rasenna, malgrado la nostra alleanza commerciale e militare”.
Mandras volle aggiungere: “E’ anche possibile che vogliano comunque colpire per primi ed in più punti, per avere la certezza di conquista degli approdi sulla nostra terra. E’ così che essi combattono, sia per terra sia per mare. Sarebbe ammirevole il loro genio, se non fosse un genio mortale”.
Hanys prese la parola e dichiarò - in tono quasi risentito: “Il mio popolo ha già scelto. Ha deciso - dietro richiesta e consiglio di Lauchme - di lasciare il proprio villaggio per difendere una delle città sul mare, Solki. E questo, ormai, io credo stia già facendo. Ma credo inoltre che troppe altre città restino ancora indifese ed ignare. Io vi chiedo: come si potrà difenderle tutte?”.
Tutti si guardarono un poco contraddetti.
Quindi Mandras prese la parola - in quanto il più esperto in quel campo - per esporre autorevolmente la situazione.
Kur e Tarr erano le città più preparate, disse, meglio armate e ben munite di flotta. Othoca era sufficientemente vicina ad esse da potersi quindi ritenere protetta. La splendida e nuova Nabu era un poco più lontana, ma capace di resistere almeno fino all’arrivo di validi rinforzi. Solki adesso era ben difesa dal popolo di Hanys - secondo quanto stabilito da Lauchme - e tutta quella parte di costa era sicura. Kia e Nure erano molto esposte ed in realtà si dovevano potenziare le loro difese aumentandone il numero di vedette e di armati.
KarKar rappresentava probabilmente il boccone più ghiotto e più facile: era il porto migliore e più grande, con una vasta e fertile  pianura retrostante. Ma delle città del Golfo desiderava prendersi cura Mandras di persona. Restava la città di Ampurias - la più a nord - troppo lontana e circondata in ogni stagione da troppe infide correnti.
Forse lo stesso valeva per Orwa, anche se essa era così vicina all’altra costa, che meritava sicuramente una particolare attenzione.
Lauchme intervenne per chiedere a Bakis notizie sul vecchio porto di Orwa, che era stata l’ultima nostalgica tappa dei Rasenna, da cui erano partiti per non più ritornare. Subito Bakis, ben informato, rispose: “E’ quello, ancora, l’approdo più vicino ad Ereb, dal quale più agevole é la traversata del mare, che dura soltanto un giorno ed una notte...
Ma non sarà indifeso: in seguito al moltiplicarsi degli allarmanti segni, si sta già costruendo una grande fortezza al Capo delle Acque, che sovrasta Orwa. La fortezza sarà pronta e difesa, prima del tempo del bisogno. Da essa si vede il mare in più punti, tra le alture del posto e si domina la pianura sottostante e l’approdo”.
Soltanto allora, quando il dibattito sembrava volgere al suo termine, Norax volle chiedere: “E se i nemici non sbarcassero in una città, in un porto, ma studiassero di cercare l’approdo in un luogo selvaggio e abbandonato?”.
Anche se questa ipotesi fu valutata la meno probabile, perché ad un esercito di invasione servono le strade per muoversi e le strade partono dalle città, si convenne che era giusto provvedere a disporre delle vedette su tutti i posti alti. E ancora, lungamente, si dovette discutere per stabilire al meglio le date, il necessario numero degli uomini, i sistemi di comunicazione più rapidi e meno evidenti per il nemico, le competenze di ognuno.
Mandras fece il punto della situazione, disse: “Il momento è grave, l’esito finale è terribilmente incerto. Qart-Hadasht sta avanzando ovunque le sue avide mani. Ha fondato Ebuso, nelle isole che chiama Pitiuse. Presto cadrà anche la vicina isola di Nura. Per noi non è più sicura quella parte di mare che volge al tramonto. Ma i cartaginesi vogliono circondarci. So dai miei informatori che Qart-Hadasht ha offerto la sua alleanza ai nostri fratelli di Ereb, quelli di Kisra, l’antica Agylla, sull’altra sponda del mare. Lo ha fatto - dichiara - per combattere meglio insieme contro i Focei e contro gli Eubei, che sono nemici comuni e in fondo anche nostri. Ma il suo scopo primo e non dichiarato è quello di isolarci ancora di più, in modo che la terra del Sole cada più facilmente in sue mani, al primo colpo. Al momento, quindi, i nostri migliori alleati sono distratti e confusi. Purtroppo, possiamo contare molto poco anche sui potenti e ricchi alleati di Sibari, perché sono troppo lontani. I pochi uomini che sono rimasti in Kyrnos, l’isola gemella, hanno già il loro bel daffare a tenere lontani i pirati Focei dalle loro coste: non è facile raggiungerli nell’interno, dove si sono ritirati. Infine, la nostra antica patria, Sardeis in Asia, è quasi dimentica di noi e credo che oggi più di noi essa abbia bisogno di aiuto, nella lotta contro i Persiani. E’ un quadro desolante, lo so. Ma tutto questo è noto solo a noi e a nessun altro dei nostri. E’ importante quindi che resti un nostro segreto, per non portare scoramento tra le nostre file. Perché se riusciremo ad agire prontamente e con decisione, io credo ancora che potremo vincere”.
Infine, proprio quando era stato faticosamente raggiunto un accordo definitivo e completo - e tutti ormai pensavano al meritato riposo - Bakis assunse un’aria grave per dire: “Adesso credo sia ormai tempo per noi tutti di fare una doverosa visita al naufrago, proveniente dalla nave che avete visitato.”
La sua frase inattesa, lasciò tutti a metà fra incredulità e curiosità, ma non restò altro da fare che seguire Bakis: egli li condusse fino ad una delle case del muro, intorno al Nurake. In fondo alla fila di capanne ve n’era una più grande e più robusta, con più stanze, e davanti alla quale videro due guardie armate. Entrandovi, furono accolti da altri due uomini ed una donna, che li guidarono infine ad un pagliericcio, su cui giaceva immobile un ferito. Norax fu l’ultimo a vederlo e certo ne fu il più impressionato: quei riccioli unti, quegli occhi obliqui e quella pelle scura, quel profilo levantino, tutti gli fecero sovrappensiero portare la mano al petto, nel ricordare ciò che non avrebbe voluto ricordare, ma che comunque non poteva più cancellare dalla propria mente. “Cartaginese” - disse lentamente Mandras, col tono di schifo di chi trova un verme nel frutto che sta mangiando, guardandolo bene, valutandone lo stato. Hanys lo guardò incuriosito e - insieme - deluso: finalmente vedeva questo grande e temuto nemico di cui tanto parlare si era fatto; non gli sembrava poi così pericoloso. Lauchme portò prudentemente la mano al petto, la chiuse consapevolmente sul manico del coltello sacro prima di chinarsi sul ferito, affianco a Mandras. Questi lo stava bruscamente interrogando in una lingua strana, che l’altro non mostrò di comprendere affatto.

“Da quanti giorni digiuna?” - chiese Lauchme appena ebbe annusato l’alito del prigioniero.
“Da cinque giorni almeno” - gli rispose Bakis, con un mezzo sorriso di intesa.
“E non ha parlato?” - fu la seconda domanda.
“Di nulla, mai” - fece asciutto, Bakis.
“Gli hai detto che morirà, se non riprenderà presto a mangiare?”.
“No” - rispose Bakis, ma poi volle spiegare a sua volta qualcosa di più: “Due giorni dopo che é stata avvistata la nave affondata, un pescatore dello stagno é scomparso. Non era via in barca: era certamente a terra e non ha fatto ritorno a casa. Il giorno dopo, alcuni pescatori hanno sorpreso costui sopra un panciuto Quffah, mentre cercava di uscire nel mare aperto. Lo hanno preso, ma non senza fatica e non prima che egli ferisse un altro uomo; poi l’hanno portato qui”.
Il viso di Bakis si era fatto di pietra, con occhi duri e taglienti e la sua voce vibrava, risonando tra le strette mura del piccolo ambiente illuminato da una luce fioca, che dava al suo volto un’aria crudele.
“Noi oggi curiamo le ferite che gli abbiamo procurato nel catturarlo. Se egli non chiederà del cibo, presto morirà. Ma se prima o poi dovesse chiederlo, non ne avrà egualmente, e parimenti morirà”.
Mandras si allontanò sprezzante dal ferito, disgustato perché questi non gli rispondeva, fingendo di non capirlo.
Lauchme invece si chinò di nuovo con ogni prudenza e delicatamente voltò le mani del ferito in modo da vederne il palmo pieno di calli e di graffi. Ne studiò le unghie corte e spezzate. Guardò la sua pelle bruciata dal sole e si soffermò sulle piante dei piedi, con attenzione. Poi gli disse qualche parola, pacatamente. Il ferito lo guardò, allora con occhi stanchi e spenti e gli rispose con parole sussurrate, affaticate, di cui l’ultima era un “Tanit” appena espirato. Quindi Lauchme gli disse ancora qualcosa - questa volta parlando più a lungo e lentamente e - di tutto quello che Norax riuscì ad udire comprensibilmente - egli poté distinguere soltanto la parola “Rasenna” pronunciata chiara e null’altro. Il ferito gemette qualche cosa in risposta, poi chiuse gli occhi si riposò un poco, quindi sussurrò ancora qualche altra parola rassegnata, con fatica. Lauchme solo allora si sollevò, scambiò uno sguardo di intesa con Bakis e quindi tutti insieme uscirono da quella tetra cella di condannato a morte.



Nota sulla Verosimiglianza.
Mi preme precisare che la destinazione del Nuraghe è tutt'oggi controversa: funzione militare, templare, abitativa, tombale, deposito per derrate, edificio multifunzionale e vero fulcro delle attività della comunità. Allora, davo risalto alla funzione templare: in questa storia, può trattarsi solamente di rispetto per un simbolo del passato, dato che i nuraghi dovevano ormai essere in gran parte abbandonati e crollati.
L'origine dalla città di Sardis: alcuni ci credono ancora oggi (per un assonanza che in realtà non esisteva: la pronuncia era 'Sfardi' e poi 'Spardi', quindi l'assonanza è maggiore - semmai - con la città di Sparta), ma ogni relazione va respinta, su basi scientifiche.