La Terra dei Mucchi di Pietre, cap. XVIII
di Maurizio Feo
18. Un racconto antico.
Al villaggio l’accolsero con sorpresa, chiedendogli
dove mai fosse scomparso ed offrendogli vino, puls, ed i pezzi più squisiti
dell’arrosto di capra.
Soltanto Lauchme si accorse dello smarrimento di
Norax e scambiò un’occhiata significativa con Bakis, che la interpretò
correttamente.
Lo vollero seduto accanto a loro.
Bakis disse - parlando formalmente a Lauchme, - ma
guardando intensamente negli occhi di Norax: ‘Hai ragione, o fratello
ritrovato, Grande Sacerdote di Tal-Ur; tu - che sei tra i pochi rimasti
indietro del popolo felice dei
Rasenna - e che porti la luce in questa
nostra isola dei mucchi di pietre, come essi l’hanno portata nei monti di metallo
di Ereb. Ti devo dare ragione ancora una volta: in questo ragazzo Shardana si
custodisce il sangue che sa ed ha
memoria del nostro comune passato. Ora gli leggo negli occhi il terrore di chi
ha visto il volto di Apsu nella Voragine del Golgo
ed ha sentito dentro di sé rinnovarsi l’orrore degli antichi riti cruenti, la
morte dei vecchi, il riso amaro e folle del figlio che uccide il padre inabile,
dopo averlo portato sulle proprie spalle curve ed estenuate, finché ha potuto.
Leggo la confusione e la paura di chi non comprende più quel passato perché,
grazie ad Ennin, le messi della terra ormai da ben prima del nostro inizio ci
permettono di abitare nelle stesse case senza più migrare, cercando i pascoli.
E ci permettono di nutrire anche gli anziani. I giovani non sanno neanche più
dell’esistenza di quei riti crudeli e funesti e non vi é ormai più vecchio che
ne abbia anche soltanto sentito parlare in gioventù, da chi vi sia stato
costretto in vita”.
Queste notizie erano in realtà tutte rivolte a
Norax, per lenire lo stato d’animo e la sofferenza, l’origine della quale egli
cominciava lentamente almeno a comprendere - in uno strano oscuro brivido...
“Hai ragione, Grande Lauchme” - proseguì Bakis - “in
questo ragazzo é stata infusa e trasmessa la memoria preziosa della storia e
del vero cuore della nostra gente. Ed é per questo che egli così facilmente soffre
per ciò che in passato tanto ha ferito ed afflitto il nostro popolo. Io stesso
ancora piango, quando rileggo le parole di Avle Feluske, che di tre vite ha
preceduto Efix,
mio padre. Le ricordo a memoria”. E alzando la mano destra, come pregando,
enunciò:
“L’inverno muore rapidamente. Le bestie non
trovano più pascolo. La mia gente mi chiede di dare l’ordine di partire, ma io
vedo mio padre bianco nei capelli e più magro nella sua vecchia mastruka, che
sta ormai soltanto seduto e muove qualche passo malfermo, con occhi lucidi e
vuoti. Mangio poco io, ma non ho abbastanza da dividere per la famiglia. Ho
già da tempo messo nel pane la farina di ghiande e di castagne, poi l’argilla,
ma non basta ancora. Dopo tre giorni, decido di portare mio padre sul Golgo,
secondo l’usanza. Lo carico sulle spalle e me ne vado senza salutare, senza
parlare. Ma tutti sanno. Mi vedono partire, ma non mi fermano e non mi
salutano. La mia gente si volta dall’altra parte ed ascolta allontanarsi i
miei campanelli. Il mio passo é pesante e lento, anche se il mio vecchio e
scarno padre pesa ormai ben poco. Il mio occhio guarda in basso e cerca di non
posarsi sulla mia mastruka rivolta al contrario, secondo il rito, e sulla sacca
piena di vino non tagliato, che gonfia e complice rimbalza sul mio petto. Mi
appoggio su di un forte bastone, ma so già come dovrò usarlo e so che tornerò
senza, dalla voragine. So che dovrò urlare e ridere, dopo aver bevuto il vino.
Tutto so - e non vorrei. Il sudore mi brucia negli occhi e le lacrime non lo
lavano via. Il cuore mi scoppia nel petto, la vista mi si annebbia: devo
fermarmi a metà strada e posare il mio vecchio. Mentre bevo ansimando e
tremando, per la prima volta egli mi parla e dice: ‘Anch’io mi sono fermato qui, su questa pietra stessa - con
mio padre - quando é toccato a me’. Poi tace. Non tocca a lui - così ha inteso
dire - tocca a me! Io penso che non m’importerà di morire, quando sarò vecchio
e stanco. Quando verrà il mio turno. Ma allora tutto questo strazio andrà,
forse, a mio figlio? Ebbene, io
non voglio che mio figlio provi mai quello che io sto soffrendo adesso. Allora
riprendo mio padre su di me e lo riporto indietro a valle: do alla mia gente
l’ordine di partire per la transumanza. E se é vero che chi ha figli non può
morire di troppo cibo nel crescerli, io dico che chiunque deve essere libero di
morire, vecchio, nel proprio letto, con intorno l’amore dei figli digiuni. Così
ho cambiato la legge quel giorno, e ancora oggi non mi pento...”.
Bakis smise di recitare con aria assente il racconto
rivelatore di Avle e nuovamente guardò intento negli occhi di Norax, questa
volta parlandogli direttamente: “Ecco perché tu sei sconvolto - giovane
sacerdote - é perché il tuo cuore dotato vede oltre i tuoi occhi e prima del
tuo stesso inizio, più in là. Ecco perché - io credo e dico - tu sarai la più
grande guida che Ennin abbia mandato mai sulla nostra isola, con l’aiuto del Galerito
Lygmon, l’ultimo dei Rasenna rimasto indietro, che noi chiamiamo Lauchme,
Maestro del massimo nurake di Tal-Ur, Custode del Grande Cerchio Magico che dà
luce e guarigione. Memoria di te - io ti predico - entrerà nel significato del
nome del Padre del nostro popolo, fondendosi con quella degli altri eroi. Ma
ora - fratelli - veniamo al dovere presente, che ci vede purtroppo molto, molto
impegnati”.
Così disse Bakis - invitando anche gli astanti - e
si levò in piedi: era alto e magro, con gli occhi sottili e distanti sormontati
da lunghe e forti sopracciglia.
Una piccola barba a punta e sottili baffi gli
circondavano appena le labbra.
Scesero dunque verso il mare, lungo un viottolo
scosceso ed impervio. Le piante intorno diventavano - con l’andare - più rade e
più riarse, man mano che si scendeva. Il loro aspetto si faceva più contorto e
di fatto apparivano tutte piegate nello stesso verso, come fossero volte tutte
a fuggire via dall’instancabile respiro salmastro del mare. Nel contempo, il
suolo si faceva più friabile e si sfarinava più spesso in sabbia colorata di
terra sotto i loro piedi. In più punti le radici vedevano il sole. Qua e là si
ergevano pinnacoli di roccia scolpiti dagli estri più bizzarri del vento e
dell’acqua, a comporre le forme più strane. Norax giurò ad un certo punto di
averne riconosciuto uno a forma di enorme uccello, accostato ad un altro che -
ne era certo - aveva una perfetta forma di uovo, per quanto smisurato. Ma non
ebbe il tempo di riderne con altri, perché subito dopo gli tolse quasi il
respiro la vista improvvisa del mare, che si apriva davanti a lui, immenso,
fino ad incontrare il cielo indifferente, che vi si rifletteva. Era calmo, e li
salutò con una lieve brezza, fresca e delicata.
La discesa fu ancora ripida e difficile: una facile
distrazione avrebbe probabilmente significato una gran brutta caduta, nel
migliore dei casi...
Si radunarono finalmente sulla scogliera sottostante
all’altopiano, per studiare da vicino i resti di una nave lignea che vi si era
incastrata, spinta dalle correnti. Era stata assicurata con molte corde
affinché i capricci del mare non la spazzassero via più in là. Gli esperti
marinai di Mandras presero subito ad esaminarla attentamente, immergendosi
nell’acqua se necessario, o saltando abilmente qua e là sugli scogli. Hanys,
Lauchme, Norax e Mandras stesso furono guidati da Bakis fino ad una sottile
striscia di sabbia posta alla foce di un ruscello, ingombra di alti oleandri
ancora in fiore e di ciuffi di palma nana.
Sulla spiaggia erano stati radunati gli oggetti che
gli uomini di Bakis avevano potuto asportare dalla nave in precedenza, ponendoli
in bell’ordine uno affianco all’altro. Bakis spiegò loro, asciutto: “E’
arrivata così, già quasi in pezzi, ma” - soggiunse, sottolineando le parole con
chiari gesti - “Non c’era stata tempesta”. Del mucchio di oggetti facevano
parte un elmo identico a quello
descritto nel papiro di Lauchme. Norax lo guardò a lungo, affascinato e oscuramente
intimorito: era leggero, robusto, fatto realmente di molti pezzi saldati tra
loro, alcuni mobili a mezzo di piccoli ganci di metallo e forniti di alcuni
lacci di cuoio per assicurarli tra loro formando un soggolo. Poi vi erano scudi
ed armi di foggia strana, che molto impensierirono Hanys per le loro evidenti
funzionalità e robustezza. Lauchme stava esaminando una grossa lampada di
coccio, larga e piatta, non dissimile da quelle usuali, eccetto che per un
dettaglio: il coperchio posto al centro non aveva un pomello bensì era munito
di una maniglia ad anello. Attraverso l’anello passava una stringa di cuoio,
che spiegò Lauchme - assicurava la chiusura e la tenuta del coperchio anche con
i movimenti della nave. Lauchme volle aprire la lampada, per la curiosità degli
altri che erano convinti di trovarla vuotata dell’olio: e invece vi trovò una
buona quantità di un grasso animale cremoso, e disse: “E’ certamente più adatto
a reggere il mare, viene da un paese in cui più scarse crescono le piante che
danno l’olio”.
“Qart-Hadasht!”- disse Mandras, che stava esaminando
un arco dall’aspetto maligno, recante sul legno strane scritte, sicuramente
malevole.
“Si” - ammise tranquillo Bakis - “viene da
Cartagine, la città nuova, e l’artigiano
che lo ha costruito lo ha chiamato appunto: “dispensatore di fato per i nemici
di Baal”.
Hanys confrontò una punta di lancia con la spada ricevuta dal Gran Sacerdote in
regalo e si avvide che il metallo era il medesimo. Lo comunicò agli altri e,
nel farlo, si accorse che sul manico era incisa la frase - che Mandras tradusse
: “Trova il tuo Rasenna”. Lauchme non trascurò neppure lo scarso sartiame
recuperato, che era stato radunato più in là, come cosa priva di qualsiasi
interesse. Notò che - malgrado il tempo trascorso in acqua - le funi erano in
perfetto stato: erano imputrescibili. Fece notare agli altri: “Sono tutte fatte
di sparto, più prezioso e più resistente
all’acqua della canapa. E lo sparto è raro quasi ovunque, ma cresce abbondante
nella piana intorno a Cartagine, che proprio per questo è detta anche
Spartaria”. Avevano esaminato già queste ed
altre cose, quando tornarono i marinai di Mandras, con il loro magro, ma importante
raccolto: alcuni pezzi di metallo, in gran parte Cartaginesi, in parte
sconosciuti; un libro di lino, da cui l’acqua del mare aveva rimosso quasi
completamente gli inchiostri. Ma ciò che più rivestiva interesse non erano gli
oggetti, bensì le notizie che i marinai riportavano dal loro sopralluogo. Innanzi
tutto, una delle ancore era ancora in sede sulla nave: la grossa pietra bucata
era ancora lì, sul relitto, la lunga robusta corda ancora arrotolata in ordine,
malgrado il disastro. Ciò significava con certezza che la nave stava navigando,
quando era avvenuto qualcosa che ne aveva causato il naufragio. La nave era
indiscutibilmente una nave da guerra: stretta e lunga, con poco spazio a bordo,
robusta e ancora difesa da qualche scudo sulla fiancata.
Era stata speronata con un rostro tirrenico di
bronzo, che aveva impresso il suo profondo marchio - e lasciato alcuni lucidi
frammenti - sul compatto fasciame della nave al di sotto della linea
dell’acqua. Così forte era stato il colpo, che perfino il ferma rostro aveva
lasciato - più in alto - il suo stampo.
Quindi la nave era stata assalita ed incendiata
mentre affondava. Anche di questo i marinai elencarono numerose prove: i graffi
dei ramponi sulle murate, le vele incenerite, l’albero annerito. I marinai di
Mandras furono molto incuriositi da come, malgrado tutto, il fasciame del
relitto fosse rimasto mirabilmente insieme, invece di disperdersi completamente
tra i flutti. Vollero esaminarlo e scoprirono così che le doghe erano - con una
tecnica familiare anche ad essi - mantenute allineate dai tenoni, cioè sottili
lingue di legno interamente alloggiate nei rispettivi solchi di assi contigue.
Ma ciò che impartiva quella sorprendente compattezza d’insieme erano robusti
pioli di legno, che - alternandosi tra le doghe vicine - le cucivano in un unico
insieme robusto, molto meglio di quanto non permettesse la tecnica ad essi più
nota: una semplice corda passante attraverso un foro comune a tutte le assi.
Ma la prova più sicura che quella fosse una nave
cartaginese venne dall’osservazione che su tutte le singole assi di legno era
incisa una lettera dell’alfabeto fenicio - alef, bet e così via - per
facilitare il compito sia ai falegnami, ciascuno dei quali costruiva i singoli
pezzi tutti uguali, sia ai carpentieri, che li avrebbero poi assemblati tutti
nell’ordine giusto.
Solo quando si fu certi di non aver trascurato
alcunché si decise di far ritorno a Serapis e di far portare con sé tutto il
materiale possibile, per mostrarlo a quanta più gente possibile. Perché tutti
dovevano convincersi del grande pericolo, della sua imminenza e soprattutto
della sua provenienza cartaginese.
Solo così avrebbero dato tutti il proprio
contributo.
Mentre stavano per abbandonare la spiaggia e
riaffrontare il ripido pendio, risuonò un urlo che li fece volgere verso il
mare, come un sol uomo. Uno degli uomini di Hanys, che aveva prestato aiuto nei
lavori più pesanti intorno alla nave e che si era attardato tra gli scogli in
mezzo all’acqua, stava urlando di terrore, impietrito dalla paura. Nel
frattempo indicava agli altri un punto nell’acqua, o più probabilmente qualche
cosa sott’acqua, che evidentemente andava muovendosi molto rapidamente. Quando
fu più vicino e poté finalmente spiegarsi, disse - ancora con l’emozione in
gola - di aver visto un enorme pesce bianco e nero uscire dall’acqua e posarsi
addirittura su di uno scoglio, sollevare la strana testa da topo verso di lui,
guardandolo con occhi umani ed agitando sbuffando i lunghi baffi, per poi
subito scomparire nell’acqua. Gli uomini di Bakis - dapprima allarmati - a
questa descrizione risero della sua paura e lo rassicurarono con grandi pacche
sulle spalle. Gli spiegarono che egli aveva visto per la prima volta ciò che
essi conoscevano bene: una delle ancelle del Grande Dio Serpente. Si trattava
di miti creature schive e benevole, tutto l’opposto della viscida e mortale Solifuga che striscia per terra, la notte soltanto, e fugge il sole
benefico - letale soltanto per lei. Queste erano invece creature non
pericolose, sacre a Sarapis, che di giorno muggivano come buoi e di notte
sapevano incantare i marinai con una melodiosa bellissima voce. Erano grandi
come buoi, per cui la loro mole poteva spaventare, ma erano creature allegre e
gentili, che passavano il tempo giocando
nell’acqua. Abitavano nelle misteriose grotte subacquee che comunicavano
tutte con la grande grotta del Serpente, da cui nasce la voragine del Golgo, la
Nurra, creata perché Egli possa sempre guardare il cielo. L’uomo di Hanys non
parve molto convinto né rincuorato da tutte quelle dettagliate spiegazioni
(cui più tardi Bakis accennò definendole sciocche superstizioni) ed in più non
gli era affatto piaciuto il riferimento alla Solifuga. Per cui fu ben contento
- e non fu il solo - di allontanarsi da tutta quell’acqua così stranamente
frequentata.
La sera scese, insieme alla pioggia, che il giorno aveva
lungamente annunciato. Si radunarono nella capanna dei sedili, dove sempre si teneva il consiglio degli anziani.
Bakis parlò per primo, come gli spettava, e cominciò: “Io vi dico che una
guerra é in corso, da almeno otto lune, per mare. Forse anche per terra, per
quanto ne sappiamo. Ne abbiamo visto le tracce qui. Altri paesi, che si trovano
sulla costa, mi hanno mandato a dire di essere in allarme. Uno dei due eserciti
in guerra proviene sicuramente da Cartagine, che sembra combattere contro le
veloci navi dei Rasenna, nel loro mare. Altri popoli che non conosciamo sono
coinvolti: alcuni avvistamenti lo testimoniano. D’altronde, anche noi siamo già
coinvolti, che lo vogliamo o no: abbiamo già perso uomini validi, buone navi
veloci con il loro carico e - forse - alcuni approdi sicuri in altri lidi.
Siamo qui per decidere insieme che cosa fare. Ma io vi dico: il tempo é poco,
perché siamo impreparati, in una guerra già iniziata”.
Mandras volle la parola, e disse: “Questa nave era
sicuramente da guerra: sottile, bassa, lunga, veloce, con molti remi, tenuta
bene la chiglia robusta. E’ stata affondata in un’azione di guerra regolare. Il
relitto é stato trasportato da sud,
perché tuttora prevalgono le correnti marine della stagione calda. Io credo che
sia stata distrutta al largo di KarKar - la città del Grande Golfo - e cioè
all’ingresso del mare dei Twrsheni o Turshna, che chiamano se stessi Rasenna, e
che popolano Ereb. La nave era Cartaginese. Noi abbiamo commerci con ambedue i
popoli. In più, con i Twrshna ci lega l’affetto e un vincolo di sangue, con i
Cartaginesi un’alleanza commerciale. Dobbiamo scegliere tra i due, non è certo
facile. Ma la scelta, se non sarà fatta, si imporrà da se stessa, o meglio, ci
sarà imposta crudelmente, perché queste sono le regole della guerra”.
Bakis riprese: “La sorte di questa nave cartaginese
sarà egualmente seguita dalle altre - se queste non avranno i porti a cui
approdare per fare riposare gli uomini, per le riparazioni necessarie, per
rifornirsi di cibo ed acqua. Sono certo che questa esigenza vitale é già stata
sentita da qualche marinaio e riferita là, dove si decide”.
“Questo vuol dire” - iniziò lento Lauchme - “che i
Cartaginesi romperanno il patto e cercheranno gli approdi sulla nostra terra o
addirittura tenteranno di prendere le nostre città sul mare. Da ciò deriva che
la guerra é inevitabile, sia che noi si scelga un alleato, sia che non si operi
alcuna scelta di parte. Questa situazione potrebbe rispondere ad alcune delle
domande che io da tempo mi pongo: ma perché - io chiedo - riempire Othoca di
spie, se Kar sarebbe più vicina e quindi più utile per le loro mire?”.
“E’ probabile che i Cartaginesi” - rispose Bakis -
“abbiano previsto una nostra più naturale presa di posizione al fianco dei
Rasenna, malgrado la nostra alleanza commerciale e militare”.
Mandras volle aggiungere: “E’ anche possibile che
vogliano comunque colpire per primi ed in più punti, per avere la certezza di
conquista degli approdi sulla nostra terra. E’ così che essi combattono, sia
per terra sia per mare. Sarebbe ammirevole il loro genio, se non fosse un genio
mortale”.
Hanys prese la parola e dichiarò - in tono quasi
risentito: “Il mio popolo ha già scelto. Ha deciso - dietro richiesta e consiglio
di Lauchme - di lasciare il proprio villaggio per difendere una delle città sul
mare, Solki. E questo, ormai, io credo
stia già facendo. Ma credo inoltre che troppe altre città restino ancora
indifese ed ignare. Io vi chiedo: come si potrà difenderle tutte?”.
Tutti si guardarono un poco contraddetti.
Quindi Mandras prese la parola - in quanto il più
esperto in quel campo - per esporre autorevolmente la situazione.
Kur e Tarr erano le città più preparate, disse,
meglio armate e ben munite di flotta. Othoca era sufficientemente vicina ad esse
da potersi quindi ritenere protetta. La splendida e nuova Nabu era un poco più
lontana, ma capace di resistere almeno fino all’arrivo di validi rinforzi.
Solki adesso era ben difesa dal popolo di Hanys - secondo quanto stabilito da
Lauchme - e tutta quella parte di costa era sicura. Kia e Nure erano molto
esposte ed in realtà si dovevano potenziare le loro difese aumentandone il
numero di vedette e di armati.
KarKar rappresentava probabilmente il boccone più
ghiotto e più facile: era il porto migliore e più grande, con una vasta e
fertile pianura retrostante. Ma
delle città del Golfo desiderava prendersi cura Mandras di persona. Restava la
città di Ampurias - la più a nord - troppo
lontana e circondata in ogni stagione da troppe infide correnti.
Forse lo stesso valeva per Orwa, anche se essa era
così vicina all’altra costa, che meritava sicuramente una particolare attenzione.
Lauchme intervenne per chiedere a Bakis notizie sul
vecchio porto di Orwa, che era stata l’ultima nostalgica tappa dei Rasenna, da
cui erano partiti per non più ritornare. Subito Bakis, ben informato, rispose:
“E’ quello, ancora, l’approdo più vicino ad Ereb, dal quale più agevole é la
traversata del mare, che dura soltanto un giorno ed una notte...
Ma non sarà indifeso: in seguito al moltiplicarsi
degli allarmanti segni, si sta già costruendo una grande fortezza al Capo delle
Acque, che sovrasta Orwa. La fortezza sarà pronta e difesa, prima del tempo del
bisogno. Da essa si vede il mare in più punti, tra le alture del posto e si
domina la pianura sottostante e l’approdo”.
Soltanto allora, quando il dibattito sembrava
volgere al suo termine, Norax volle chiedere: “E se i nemici non sbarcassero in
una città, in un porto, ma studiassero di cercare l’approdo in un luogo selvaggio
e abbandonato?”.
Anche se questa ipotesi fu valutata la meno
probabile, perché ad un esercito di invasione servono le strade per muoversi e
le strade partono dalle città, si convenne che era giusto provvedere a disporre
delle vedette su tutti i posti alti. E ancora, lungamente, si dovette discutere
per stabilire al meglio le date, il necessario numero degli uomini, i sistemi
di comunicazione più rapidi e meno evidenti per il nemico, le competenze di
ognuno.
Mandras fece il punto della situazione, disse: “Il
momento è grave, l’esito finale è terribilmente incerto. Qart-Hadasht sta avanzando
ovunque le sue avide mani. Ha fondato Ebuso, nelle isole che chiama
Pitiuse. Presto cadrà anche la vicina isola di Nura. Per noi non è più sicura quella parte di mare che
volge al tramonto. Ma i
cartaginesi vogliono circondarci. So dai miei informatori che Qart-Hadasht ha
offerto la sua alleanza ai nostri fratelli di Ereb, quelli di Kisra, l’antica
Agylla, sull’altra sponda del mare. Lo ha fatto - dichiara - per combattere
meglio insieme contro i Focei e contro gli Eubei, che sono nemici comuni e in
fondo anche nostri. Ma il suo scopo primo e non dichiarato è quello di isolarci
ancora di più, in modo che la terra del Sole cada più facilmente in sue mani,
al primo colpo. Al momento, quindi, i nostri migliori alleati sono distratti e
confusi. Purtroppo, possiamo contare molto poco anche sui potenti e ricchi
alleati di Sibari, perché sono troppo lontani. I pochi uomini che sono rimasti
in Kyrnos,
l’isola gemella, hanno già il loro bel daffare a tenere lontani i pirati Focei
dalle loro coste: non è facile raggiungerli nell’interno, dove si sono
ritirati. Infine, la nostra antica patria, Sardeis in Asia, è quasi dimentica di noi e credo che oggi più di noi
essa abbia bisogno di aiuto, nella lotta contro i Persiani. E’ un quadro desolante,
lo so. Ma tutto questo è noto solo a noi e a nessun altro dei nostri. E’
importante quindi che resti un nostro segreto, per non portare scoramento tra
le nostre file. Perché se riusciremo ad agire prontamente e con decisione, io
credo ancora che potremo vincere”.
Infine, proprio quando era stato faticosamente
raggiunto un accordo definitivo e completo - e tutti ormai pensavano al meritato
riposo - Bakis assunse un’aria grave per dire: “Adesso credo sia ormai tempo
per noi tutti di fare una doverosa visita al naufrago, proveniente dalla nave
che avete visitato.”
La sua frase inattesa, lasciò tutti a metà fra incredulità
e curiosità, ma non restò altro da fare che seguire Bakis: egli li condusse
fino ad una delle case del muro, intorno
al Nurake. In fondo alla fila di capanne ve n’era una più grande e più robusta,
con più stanze, e davanti alla quale videro due guardie armate. Entrandovi,
furono accolti da altri due uomini ed una donna, che li guidarono infine ad un
pagliericcio, su cui giaceva immobile un ferito. Norax fu l’ultimo a vederlo e
certo ne fu il più impressionato: quei riccioli unti, quegli occhi obliqui e
quella pelle scura, quel profilo levantino, tutti gli fecero sovrappensiero
portare la mano al petto, nel ricordare ciò che non avrebbe voluto ricordare,
ma che comunque non poteva più cancellare dalla propria mente. “Cartaginese” -
disse lentamente Mandras, col tono di schifo di chi trova un verme nel frutto
che sta mangiando, guardandolo bene, valutandone lo stato. Hanys lo guardò
incuriosito e - insieme - deluso: finalmente vedeva questo grande e temuto
nemico di cui tanto parlare si era fatto; non gli sembrava poi così pericoloso.
Lauchme portò prudentemente la mano al petto, la chiuse consapevolmente sul
manico del coltello sacro prima di chinarsi sul ferito, affianco a Mandras.
Questi lo stava bruscamente interrogando in una lingua strana, che l’altro non
mostrò di comprendere affatto.
“Da quanti giorni digiuna?” - chiese Lauchme appena ebbe annusato l’alito del prigioniero.
“Da cinque giorni almeno” - gli rispose Bakis, con un
mezzo sorriso di intesa.
“E non ha parlato?” - fu la seconda domanda.
“Di nulla, mai” - fece asciutto, Bakis.
“Gli hai detto che morirà, se non riprenderà presto a
mangiare?”.
“No” - rispose Bakis, ma poi volle spiegare a sua
volta qualcosa di più: “Due giorni dopo che é stata avvistata la nave affondata,
un pescatore dello stagno é scomparso. Non era via in barca: era certamente a
terra e non ha fatto ritorno a casa. Il
giorno dopo, alcuni pescatori hanno sorpreso costui sopra un panciuto Quffah, mentre cercava di uscire
nel mare aperto. Lo hanno preso, ma non senza fatica e non prima che egli
ferisse un altro uomo; poi l’hanno portato qui”.
Il viso di Bakis si era fatto di pietra, con occhi
duri e taglienti e la sua voce vibrava, risonando tra le strette mura del
piccolo ambiente illuminato da una luce fioca, che dava al suo volto un’aria
crudele.
“Noi oggi curiamo le ferite che gli abbiamo
procurato nel catturarlo. Se egli non chiederà del cibo, presto morirà. Ma se
prima o poi dovesse chiederlo, non ne avrà
egualmente, e parimenti morirà”.
Mandras si allontanò sprezzante dal ferito,
disgustato perché questi non gli rispondeva, fingendo di non capirlo.
Lauchme invece si chinò di nuovo con ogni prudenza e
delicatamente voltò le mani del ferito in modo da vederne il palmo pieno di
calli e di graffi. Ne studiò le unghie corte e spezzate. Guardò la sua pelle
bruciata dal sole e si soffermò sulle piante dei piedi, con attenzione. Poi gli
disse qualche parola, pacatamente. Il ferito lo guardò, allora con occhi
stanchi e spenti e gli rispose con parole sussurrate, affaticate, di cui
l’ultima era un “Tanit” appena espirato. Quindi Lauchme gli disse ancora
qualcosa - questa volta parlando più a lungo e lentamente e - di tutto quello
che Norax riuscì ad udire comprensibilmente - egli poté distinguere soltanto la
parola “Rasenna” pronunciata chiara e null’altro. Il ferito gemette qualche
cosa in risposta, poi chiuse gli occhi si riposò un poco, quindi sussurrò
ancora qualche altra parola rassegnata, con fatica. Lauchme solo allora si
sollevò, scambiò uno sguardo di intesa con Bakis e quindi tutti insieme
uscirono da quella tetra cella di condannato a morte.
Nota sulla Verosimiglianza.
Mi preme precisare che la destinazione del Nuraghe è tutt'oggi controversa: funzione militare, templare, abitativa, tombale, deposito per derrate, edificio multifunzionale e vero fulcro delle attività della comunità. Allora, davo risalto alla funzione templare: in questa storia, può trattarsi solamente di rispetto per un simbolo del passato, dato che i nuraghi dovevano ormai essere in gran parte abbandonati e crollati.
L'origine dalla città di Sardis: alcuni ci credono ancora oggi (per un assonanza che in realtà non esisteva: la pronuncia era 'Sfardi' e poi 'Spardi', quindi l'assonanza è maggiore - semmai - con la città di Sparta), ma ogni relazione va respinta, su basi scientifiche.
Nota sulla Verosimiglianza.
Mi preme precisare che la destinazione del Nuraghe è tutt'oggi controversa: funzione militare, templare, abitativa, tombale, deposito per derrate, edificio multifunzionale e vero fulcro delle attività della comunità. Allora, davo risalto alla funzione templare: in questa storia, può trattarsi solamente di rispetto per un simbolo del passato, dato che i nuraghi dovevano ormai essere in gran parte abbandonati e crollati.
L'origine dalla città di Sardis: alcuni ci credono ancora oggi (per un assonanza che in realtà non esisteva: la pronuncia era 'Sfardi' e poi 'Spardi', quindi l'assonanza è maggiore - semmai - con la città di Sparta), ma ogni relazione va respinta, su basi scientifiche.