la Terra dei Mucchi di Pietre, cap. XXV
di Maurizio Feo
25. Il nome della Terra del Sole.
Partirono quindi per Orwa, un mattino, appena un
piccolo bagaglio fu pronto sul carro.
L’allievo ed il maestro, soli.
Fu un viaggio senza alcuna fretta, senza tempo,
durante il quale molto poté parlare Lygmon al proprio allievo preferito. Spiegò
come l’uomo si dibatta nella realizzazione di piccoli personali scopi
quotidiani e spesso la sua breve, futile vita sia inutile perfino per il misero
raggiungimento di quelli.
Ben più efficiente é, invece, la sua opera
distruttiva, nello spezzare i sogni e le realizzazioni degli altri uomini. Ma
in tutto questo folle dibattersi, in tutto questo cieco agitarsi, brancolando
come lombrichi non contenti del loro fango grasso, gli uomini perdono di vista
il sacro disegno degli dei. E dopo poco, quando anche richiamati a farlo, non
sanno più ricomporlo come in origine, perché ne hanno perso ogni memoria. Per
questo il loro comportamento é così stupidamente contrastante tra il troppo e
il troppo poco. Per questo motivo l’uomo é capace delle più alte, inattese ed
inimmaginabili iniziative alate e - contemporaneamente - delle più abiette ed
imperdonabili bassezze.
Difendere dapprima la terra del Sole con tutte le
proprie forze, quindi abbandonarla a cuor leggero e lasciar distruggere tutto
ciò che i padri, gli eroi ed i santi avevano saputo costruire, costituiva una
colpa imperdonabile. Ma - Lygmon se ne rendeva dolorosamente conto - sarebbe
proprio stato il tipo di ottusa e miope leggerezza, l’omissione colpevole e
bruciante che - con altre pari miserie - da sempre affligge ed accompagna
l’uomo, puntuale quanto le malattie, la siccità, la carestia, ed inevitabile
quanto la morte. Ma se da sempre l’uomo combatte - o si illude di potere combattere - contro la propria morte,
allacciando uno stretto quotidiano patteggio con la divinità ed erigendo per
essa le sue opere di pietra scolpita e dipinta, ebbene, egli ad un tempo é però
troppo stolto per combattere la propria miserabile, mortale stupidità, che anzi
non sa nemmeno riconoscere in se stesso. Nel pensiero tormentato di Lygmon si
affacciavano tutte le possibili giustificazioni. Forse anche questo evento era
preordinato dagli Dei, così come é previsto che le acque copiose del fiume
scompaiano di colpo, inghiottite dalla roccia per ricomparire inattese più in
là, più fresche, più dissetanti, più azzurre. Forse così - nel disegno degli
Dei - doveva scomparire il popolo dei Figli del Sole. Sarebbe stato
assoggettato, schiavo, derubato, per ritrovare la luce più tardi, se e quando
l’avesse meritato o voluto a sufficienza.
Forse.
Forse.
Di certo però,
quella luce l’avrebbe persa, subito, per ritrovarla poi, forse. Questo era evidente per Lygmon, e lo tormentava. E
questa sua sofferenza non gli era forse stata imposta, insieme al dono della
capacità, di vedere più chiaro di chiunque altro per potere così aiutare e
guidare il suo popolo? Perché allora il suo popolo non si lasciava guidare da
lui in questa circostanza? Nel diluvio lo aveva salvato, nella carestia lo
aveva consigliato, lo aveva curato nell’epidemia, e per questo il suo popolo lo
aveva chiamato Padre e sempre da allora lo aveva seguito docile, ubbidiente
anche quando non comprendeva.
Lygmon non aveva - e lo sapeva bene - alcun potere
diretto sulle acque, né sulla siccità, né sulla malattia. Ma riusciva con il
proprio sapiente operato a limitarne i danni alla sua gente. Eppure adesso il suo popolo si stava
comportando proprio come uno di quegli eventi della natura ed il Grande
Sacerdote non aveva più potere su di esso - per salvarlo da se stesso - così come
non ne aveva sul continuo movimento del mare, né sul corso sempre uguale della
luna. Ma la luna si spegneva per rinascere dopo quattro giorni di buio.
Sarebbe rinato il suo popolo? E dopo quanto tempo? Forse tutto ciò significava
soltanto che la stirpe dei Figli del Sole non era immortale, come d’altronde
Lygmon non era onnipotente...
Tutto questo parlare - pensava amaramente Norax, che
docilmente ascoltava e talvolta annuiva - dimostrava che al suo Maestro non
riusciva di trovare conforto nella rassegnazione. Invano gli oppose la
scherzosa affermazione che nulla sarebbe rimasto per Norax da risolvere, se il
suo Maestro avesse spazzato via tutti i problemi. Ne ottenne solo una
sorridente approvazione, breve, ma pur sempre grata.
Giunti che furono ad Orwa, Lauchme e Norax vennero
accolti con grandi feste e saluti ed onori e grande fu la felicità di Nugor
nel potere finalmente mantenere la promessa e ricambiare l’ospitalità. Nugor
volle mostrare quali progressi aveva compiuto la guarigione della sua mano
destra: la profonda ferita si era chiusa in una brutta e gonfia cicatrice ancor
giovane, lucida ed arrossata. Ma egli, con giusto orgoglio e commovente
felicità, mostrava il movimento delle ultime due dita - possibile in ambedue i
sensi, con fatica e con un certo dolore. Le altre dita - contro ogni sua
volontà e secondo le corrette previsioni di Lauchme - restavano penosamente
inerti e pendule. Lauchme si mostrò molto soddisfatto della buona guarigione
della ferita e del fatto che almeno una parte dell’uso della mano fosse
riacquistato. Ascoltò con piacere un entusiastico Nugor decantare la nuova
residenza come la terra promessa. Lauchme notò che Nugor parlava più spedito,
adesso, scegliendo con cura un linguaggio che risultava meglio comprensibile.
Nugor chiese a Lauchme di insegnargli ancora come
curare le malattie. Disse di volere imparare ad essere come Lauchme. E qui
Norax rivide, con sorpresa e piacere, ricomparire il consueto lampo di
interesse, di sfida ritrovata negli
occhi del suo maestro. Ecco!
Ecco... forse su quella strada era la sua
salvezza... Forse così si sarebbe potuto
ritrovare lo spirito perduto del suo Maestro, dandogli dei discepoli attenti e dedicati...
In quei giorni, più e più volte Norax ebbe modo di
considerare che ovunque egli avesse potuto andare - su quella terra e forse
anche su Ereb - avrebbe trovato innumerevoli persone per sempre in debito col
suo Maestro. Persone che mai, in nessun modo e per nessun motivo, si sarebbero
sentite sciolte dal sacro vincolo della gratitudine. In quei giorni, più volte,
si trovò a pensare che veramente Lygmon, o Lauchme - o comunque si chiamasse
mai quell’uomo solitario, burbero ed autorevole, che gli aveva insegnato tutto
- veramente portava con sé la luce, in tanti modi misteriosi e sempre ingegnosi
e sorprendenti. In quei giorni, se pure l’ammirazione del discepolo per il
maestro non crebbe - come può crescere ciò che già é infinito? - essa riconobbe più chiari e più validi tutti i
suoi motivi di esistere. Ma non per quei motivi - né per Nugor, né per la nuova
fortezza - aveva affrontato il viaggio Lauchme, bensì per potere guardare il
mare, quel mare. E immaginare
l’altra sponda, e forse immaginare se stesso su di essa...
Lygmon, ritornato Lars Lauchume tra i Rasenna, suo popolo antichissimo...
Come altre volte, un giorno, da sopra un cocuzzolo, Norax e Lygmon guardavano insieme verso il mare, vasto e azzurro. Un leggero vento animava le loro vesti di lino, scure e sfrangiate e scompigliava i loro lunghi capelli. Ed allora il dolore del Padre del popolo della Vera Gente si sciolse in parole: “Questa é la differenza fa noi ed i nostri nemici, Norax” - rivelò, come a se stesso, Lygmon - “Noi non vogliamo avere nulla di più. Anzi, siamo contenti di ciò che abbiamo, per cui ringraziamo la Grande Madre Ennin. L’acqua limpida - fredda e sacra - delle nostre fonti, che noi amorosamente copriamo e proteggiamo; i fiumi pescosi ed i ricchi stagni sornioni, che accarezziamo con panciute barche; il mare immenso da cui perenne ci viene il vento; l’orzo bruno, il grano biondo, il lino per i nostri telai laboriosi e tutti i lieti frutti colorati dai campi coltivati e dai boschi popolosi di selvaggina schiva; le stagioni immortali e le tredici lune, guide puntuali nell’anno; le feste allegre e gli austeri segni divini; la fatica ed il riposo giornalieri; la vita serena dei nostri figli, dopo di noi.
Finalmente ci siamo faticosamente uniti, e - fino a ieri - lo siamo rimasti, tenacemente, per difendere con la forza il nostro unico tesoro, semplice ed umile, ma così prezioso per noi. Già oggi, purtroppo, siamo nuovamente, scioccamente divisi. Ognuno di noi vuole essere su questa terra com’é il cervo dalla voce possente, che orgoglioso ostenta i suoi poderosi palchi, mentre col naso umido e palpitante respira libero l’aria. Così vogliono essere i bellicosi Iliesi e gli Hypsitani arguti e gli esuli Bàlari, così - nel loro grano tenero - i Corsi stranieri, profughi di Kyrnos. Lo stesso diritto reclamano dai loro monti selvaggi i Lesitani, i Lugudonesi ed i Tibulati. E altrettanto felici, nella loro libertà, vogliono essere i Campitani, gli Alkitani, i Salkitani, i Laconiti ed i Rubrensi olezzanti di pesce. E ancora liberi - ma ancora distinti - vogliono essere i nobili Nurritani e i misteriosi Sarrapidani. E così siamo tutti brevemente felici oggi, perché abbiamo saputo annegare nel mare l’arroganza e la rabbia di Cartagine, sciogliendone i duri grani con molto del nostro adorato sangue migliore. Ma qual’é l’annuncio del domani, mio caro Norax?”. Norax restò muto, a guardare, con grandi occhi affascinati, dritto dentro agli occhi severi del suo Maestro, che, con la sua voce espressiva e profonda, sapientemente andava creando quelle vivide immagini e predicendo i destini...
Proseguì Lauchme:
“Domani - io ti dico - l’erba malvagia rifiorirà, spingendo tra il grano e
l’orzo indifesi e teneri le sue infide radici nascoste e mortali. Tu hai visto”
- proseguì, con una digressione in tono diverso - “con quale improvvisa
facilità può crollare in se stesso nella polvere, con un solo doloroso sospiro,
il nostro Nurake. Eppure, quanto enorme, quanto possente appare dopo la lenta,
studiata, laboriosa opera di separare le pietre dalla terra, per ordinarle
insieme! Un sol piccolo errore - o una pietra spostata - fanno tornare pieno il
mucchio e le singole pietre al disordine sparso della terra. Così noi siamo, come
il nostro mucchio cavo, che sembra forte
e non lo é, se non per ciò che esso simboleggia, eternamente, oltre la morte,
oltre ogni fine. Ciò che in verità è più forte è più incorporeo della materia
bruta, fragile ed imperfetta. Quindi, un giorno cadremo soggiogati, lo so, é
scritto che sia così. E’ certo che io non vedrò quel giorno, né forse tu, né -
ti auguro - i tuoi figli. Ma i semi sono già sparsi e porteranno a compimento
il frutto destinato.
Guai a noi, domani.
Incubi stranieri torneranno più forti
e più agguerriti e ci spoglieranno di ciò che é nostro e sacro, solo per farne
volubile sperpero. Sarà deserto incolto dove ora é foresta verde e impenetrabile,
desolazione dove ora cantano liberi gli uccelli e leggiadri profumano i fiori.
Noia e distacco dove ora é delicatamente intessuto con gioia l’amore. Povertà e
fame dove - adesso - i forni del pane non hanno riposo ed imbiancano le soglie.
Tuttavia, forte é l’impulso del nostro sangue e robuste sono le corde del
nostro cuore, tanto che anche allora - io voglio, io devo
credere - i figli dei figli porteranno ancora una seppure sbiadita memoria di
noi, del nostro tormentato soffrire e morire, dei nostri sacri Mucchi di Pietre.
E gli occhi neri ed i volti cotti dal sole tradiranno ancora l’orgoglio e la
tristezza innati nell’udire il superstite nome testardo e antico di questa
nostra bella terra, la terra del sole - S’rdon. La penseranno - o sogneranno, forse? - come una dolce terra, un tempo cara agli
Dei capricciosi, ormai dimentichi purtroppo, e ancora una volta fuggiti altrove,
lontano - oltre il mare - come sempre hanno fatto gli Dei volubili nella
fragile, piccola storia dell’uomo.”
La bella voce si infranse come un onda su uno
scoglio. E pianse piano tra sé, il vecchio sacerdote, mentre il vento gli frugava
indiscreto tra la lunga barba grigia, e il suo bastone - segno di comando -
sembrava non dargli ormai più che un troppo debole sostegno.
Le onde - sotto il selvaggio influsso delle Pleiadi - a perdita d’occhio disegnavano incostanti trine bianche
salmastre, sopra il blu più cupo del mare...
Norax offrì un premuroso appoggio al suo Maestro e
questi: “Guarda, Norax” - gli sussurrò, rifiutando gentilmente il suo braccio -
“Guarda com’é bello e furioso, oggi, questo mare...”.