lunedì 13 gennaio 2014

CAPITOLO XXV


la Terra dei Mucchi di Pietre, cap. XXV

di Maurizio Feo


25. Il nome della Terra del Sole.



Partirono quindi per Orwa, un mattino, appena un piccolo bagaglio fu pronto sul carro. 
L’allievo ed il maestro, soli.
Fu un viaggio senza alcuna fretta, senza tempo, durante il quale molto poté parlare Lygmon al proprio allievo preferito. Spiegò come l’uomo si dibatta nella realizzazione di piccoli personali scopi quotidiani e spesso la sua breve, futile vita sia inutile perfino per il mi­sero raggiungimento di quelli.
Ben più efficiente é, invece, la sua opera distruttiva, nello spezzare i sogni e le realizzazioni degli altri uomini. Ma in tutto questo folle dibattersi, in tutto questo cieco agitarsi, brancolando come lombrichi non contenti del loro fango grasso, gli uomini perdono di vista il sacro disegno degli dei. E dopo poco, quando anche richiamati a farlo, non sanno più ricomporlo come in origine, perché ne hanno perso ogni memoria. Per questo il loro comportamento é così stupidamente contra­stante tra il troppo e il troppo poco. Per questo motivo l’uomo é capace delle più alte, inattese ed inimmaginabili iniziative alate e - contemporaneamente - delle più abiette ed imperdonabili bassezze.


Difendere dapprima la terra del Sole con tutte le proprie forze, quindi abbandonarla a cuor leggero e lasciar distruggere tutto ciò che i padri, gli eroi ed i santi avevano saputo costruire, costituiva una colpa imperdonabile. Ma - Lygmon se ne rendeva dolorosamente conto - sarebbe proprio stato il tipo di ottusa e miope leggerezza, l’omis­sione colpevole e bruciante che - con altre pari miserie - da sempre affligge ed accompagna l’uomo, puntuale quanto le ma­lattie, la siccità, la carestia, ed inevitabile quanto la morte. Ma se da sempre l’uomo combatte - o si illude di potere combattere - contro la propria morte, allacciando uno stretto quotidiano patteggio con la divinità ed erigendo per essa le sue opere di pietra scolpita e dipinta, ebbene, egli ad un tempo é però troppo stolto per combattere la propria miserabile, mortale stupidità, che anzi non sa nemmeno riconoscere in se stesso. Nel pensiero tormentato di Lygmon si affacciavano tutte le possibili giustificazioni. Forse anche questo evento era preordinato dagli Dei, così come é previ­sto che le acque copiose del fiume scompaiano di colpo, inghiottite dalla roccia per ricomparire inattese più in là, più fre­sche, più dissetanti, più azzurre. Forse così - nel disegno degli Dei - doveva scomparire il popolo dei Figli del Sole. Sarebbe stato assoggettato, schiavo, derubato, per ritrovare la luce più tardi, se e quando l’avesse meritato o voluto a sufficienza. 
Forse.

Di certo però, quella luce l’avrebbe persa, subito, per ri­trovarla poi, forse. Questo era evidente per Lygmon, e lo tormentava. E questa sua sofferenza non gli era forse stata imposta, insieme al dono della capacità, di vedere più chiaro di chiunque altro per potere così aiutare e guidare il suo popolo? Perché allora il suo popolo non si lasciava guidare da lui in questa circostanza? Nel diluvio lo aveva salvato, nella carestia lo aveva consigliato, lo aveva curato nell’epidemia, e per questo il suo popolo lo aveva chiama­to Padre e sempre da allora lo aveva seguito docile, ubbidiente anche quando non comprendeva. 
Ma non questa volta.
Lygmon non aveva - e lo sapeva bene - alcun potere diretto sulle acque, né sulla siccità, né sulla malattia. Ma riusciva con il proprio sapiente operato a limitarne i danni alla sua gente. Eppure adesso il suo popolo si stava comportando proprio come uno di quegli eventi della natura ed il Grande Sacerdote non aveva più potere su di esso - per salvarlo da se stesso - così come non ne aveva sul continuo movimento del mare, né sul corso sempre uguale della luna. Ma la luna si spegneva per rina­scere dopo quattro giorni di buio. Sarebbe rinato il suo popolo? E dopo quanto tempo? Forse tutto ciò significava soltanto che la stirpe dei Figli del Sole non era immortale, come d’altronde Lygmon non era onnipotente...
Tutto questo parlare - pensava amaramente Norax, che docil­mente ascoltava e talvolta annuiva - dimostrava che al suo Mae­stro non riusciva di trovare conforto nella rassegnazione. Invano gli oppose la scherzosa affermazione che nulla sa­rebbe rimasto per Norax da risolvere, se il suo Maestro avesse spazzato via tutti i problemi. Ne ottenne solo una sorridente approvazione, breve, ma pur sempre grata.





Giunti che furono ad Orwa, Lauchme e Norax vennero accolti con grandi feste e saluti ed onori e grande fu la fe­licità di Nugor nel potere finalmente mantenere la pro­messa e ricambiare l’ospitalità. Nugor volle mostrare quali progressi aveva compiuto la guarigione della sua mano destra: la profonda ferita si era chiusa in una brutta e gonfia cicatrice ancor giovane, lucida ed arrossata. Ma egli, con giusto orgoglio e commovente felicità, mostrava il movimento delle ultime due dita - possibile in ambedue i sensi, con fatica e con un certo dolore. Le altre dita - con­tro ogni sua volontà e secondo le corrette previsioni di Lauchme - restavano penosamente inerti e pendule. Lau­chme si mostrò molto soddisfatto della buona guarigione della ferita e del fatto che almeno una parte dell’uso della mano fosse riacquistato. Ascoltò con piacere un entusia­stico Nugor decantare la nuova residenza come la terra promessa. Lauchme notò che Nugor parlava più spedito, adesso, scegliendo con cura un linguaggio che risultava meglio comprensibile.
Nugor chiese a Lauchme di in­segnargli ancora come curare le malattie. Disse di volere imparare ad essere come Lauchme. E qui Norax rivide, con sorpresa e piacere, ricomparire il consueto lampo di interesse, di sfida ritrovata negli occhi del suo maestro. Ecco!

Ecco... forse su quella strada era la sua salvezza... Forse così si sarebbe potuto ritrovare lo spirito perduto del suo Maestro, dandogli dei discepoli attenti e dedicati...
In quei giorni, più e più volte Norax ebbe modo di considerare che ovunque egli avesse potuto andare - su quella terra e forse anche su Ereb - avrebbe trovato innumerevoli persone per sempre in debito col suo Maestro. Persone che mai, in nessun modo e per nessun motivo, si sarebbero sentite sciolte dal sacro vincolo della gratitudine. In quei giorni, più volte, si trovò a pensare che veramente Lygmon, o Lauchme - o comunque si chiamasse mai quell’uomo solitario, burbero ed auto­revole, che gli aveva insegnato tutto - veramente portava con sé la luce, in tanti modi misteriosi e sempre ingegnosi e sorprendenti. In quei giorni, se pure l’ammirazione del discepolo per il maestro non crebbe - come può crescere ciò che già é infinito? - essa riconobbe più chiari e più va­lidi tutti i suoi motivi di esistere. Ma non per quei motivi - né per Nugor, né per la nuova fortezza - aveva affrontato il viaggio Lauchme, bensì per potere guardare il mare, quel mare. E immaginare l’altra sponda, e forse immaginare se stesso su di essa...


Lygmon, ritornato Lars Lauchume tra i Rasenna, suo popolo antichissimo...

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Come altre volte, un giorno, da sopra un cocuzzolo, Norax e Lygmon guardavano insieme verso il mare, vasto e az­zurro. Un leggero vento animava le loro vesti di lino, scure e sfrangiate e scompigliava i loro lunghi capelli. Ed allora il dolore del Padre del popolo della Vera Gente si sciolse in parole: “Questa é la differenza fa noi ed i nostri nemici, Norax” - rivelò, come a se stesso, Lygmon - “Noi non vogliamo avere nulla di più. Anzi, siamo contenti di ciò che abbiamo, per cui ringraziamo la Grande Madre Ennin. L’acqua limpida - fredda e sacra - delle nostre fonti, che noi amorosamente copriamo e proteggiamo; i fiumi pe­scosi ed i ricchi stagni sornioni, che accarezziamo con panciute barche; il mare immenso da cui perenne ci viene il vento; l’orzo bruno, il grano biondo, il lino per i nostri telai laboriosi e tutti i lieti frutti colorati dai campi colti­vati e dai boschi popolosi di selvaggina schiva; le stagioni immortali e le tredici lune, guide puntuali nell’anno; le feste allegre e gli austeri segni divini; la fatica ed il riposo giornalieri; la vita serena dei nostri figli, dopo di noi. 


Finalmente ci siamo faticosamente uniti, e - fino a ieri - lo siamo ri­masti, tenacemente, per difendere con la forza il nostro unico te­soro, semplice ed umile, ma così prezioso per noi. Già oggi, purtroppo, siamo nuova­mente, scioccamente divisi. Ognuno di noi vuole essere su questa terra com’é il cervo dalla voce possente, che orgoglioso ostenta i suoi poderosi palchi, mentre col naso umido e palpitante respira libero l’aria. Così vogliono es­sere i bellicosi Iliesi e gli Hypsitani arguti e gli esuli Bàlari, così - nel loro grano tenero - i Corsi stranieri, profughi di Kyrnos. Lo stesso diritto re­clamano dai loro monti selvaggi i Lesitani, i Lugudonesi ed i Tibulati. E altrettanto felici, nella loro libertà, vogliono es­sere i Campitani, gli Alkitani, i Salkitani, i Laconiti ed i Rubrensi olezzanti di pesce. E ancora liberi - ma ancora distinti - vogliono essere i nobili Nurritani e i misteriosi Sarrapidani. E così siamo tutti brevemente felici oggi, perché ab­biamo saputo annegare nel mare l’arroganza e la rabbia di Cartagine, sciogliendone i duri grani con molto del nostro adorato sangue migliore. Ma qual’é l’annuncio del do­mani, mio caro Norax?”. Norax restò muto, a guardare, con grandi occhi affascinati, dritto dentro agli occhi severi del suo Maestro, che, con la sua voce espressiva e profonda, sapientemente andava creando quelle vivide immagini e predicendo i destini... 
Proseguì Lauchme: “Domani - io ti dico - l’erba malvagia rifiorirà, spingendo tra il grano e l’orzo indifesi e teneri le sue infide radici nascoste e mortali. Tu hai visto” - proseguì, con una digressione in tono diverso - “con quale improvvisa facilità può crollare in se stesso nella polvere, con un solo doloroso sospiro, il nostro Nurake. Eppure, quanto enorme, quanto possente appare dopo la lenta, studiata, laboriosa opera di separare le pietre dalla terra, per ordinarle insieme! Un sol piccolo errore - o una pietra spostata - fanno tornare pieno il mucchio e le singole pie­tre al disordine sparso della terra. Così noi siamo, come il nostro mucchio cavo, che sembra forte e non lo é, se non per ciò che esso simboleggia, eternamente, oltre la morte, oltre ogni fine. Ciò che in verità è più forte è più incorporeo della materia bruta, fragile ed imperfetta. Quindi, un giorno cadremo soggiogati, lo so, é scritto che sia così. E’ certo che io non vedrò quel giorno, né forse tu, né - ti auguro - i tuoi figli. Ma i semi sono già sparsi e porteranno a compimento il frutto destinato. 
Guai a noi, domani. 
Incubi stranieri torneranno più forti e più agguerriti e ci spoglieranno di ciò che é nostro e sacro, solo per farne volubile sperpero. Sarà deserto incolto dove ora é foresta verde e impenetrabile, desolazione dove ora cantano liberi gli uccelli e leggiadri profumano i fiori. Noia e distacco dove ora é delicatamente intessuto con gioia l’amore. Povertà e fame dove - adesso - i forni del pane non hanno riposo ed imbiancano le soglie. Tuttavia, forte é l’impulso del nostro sangue e robuste sono le corde del nostro cuore, tanto che anche allora - io voglio, io devo credere - i figli dei figli porte­ranno ancora una seppure sbiadita memoria di noi, del nostro tormentato soffrire e morire, dei nostri sacri Mucchi di Pietre. E gli occhi neri ed i volti cotti dal sole tradiranno ancora l’orgoglio e la tristezza innati nell’udire il supersti­te nome testardo e antico di questa nostra bella terra, la terra del sole - S’rdon. La penseranno - o sogneranno, forse? - come una dolce terra, un tempo cara agli Dei capricciosi, ormai dimentichi purtroppo, e ancora una volta fuggiti al­trove, lontano - oltre il mare - come sempre hanno fatto gli Dei volubili nella fragile, piccola storia dell’uomo.”



La bella voce si infranse come un onda su uno scoglio. E pianse piano tra sé, il vecchio sacerdote, mentre il vento gli fru­gava indiscreto tra la lunga barba grigia, e il suo bastone - segno di comando - sembrava non dargli ormai più che un troppo debole sostegno.

Le onde - sotto il selvaggio influsso delle Pleiadi - a perdita d’occhio disegnavano incostanti trine bianche salmastre, sopra il blu più cupo del mare...
Norax offrì un premuroso appoggio al suo Maestro e questi: “Guarda, Norax” - gli sussurrò, rifiutando gentilmente il suo braccio - “Guarda com’é bello e furioso, oggi, questo mare...”.