La Terra dei Mucchi di Pietre, cap. XIX
di Maurizio Feo
19. Molti addii.
“Hai messo delle vedette sull’altopiano?” - chiese
subito Lauchme, appena furono fuori. E Bakis di rimando: “Sì, naturalmente;
subito e numerose. Ma nessuna nave é stata avvistata, da allora”.
Hanys confessò di non capire di cosa si stesse
parlando e anche Norax non nascose la propria incertezza.
Fu Mandras a rispondere: “E’ evidente, per me, che quell’uomo
é un marinaio esperto ed un soldato: era su di una nave militare. Anche se non
lo ha confessato, vi era imbarcato da molto tempo, a giudicare dai segni che
porta su tutto il corpo e che Lauchme ha visto e studiato. Pur essendo esperto,
per fuggire aveva preferito un vecchio e lento Quffah di vimini ed asfodelo,
piuttosto che non una barca più robusta, che tenga meglio il mare, e che era
egualmente disponibile. Questo vuol dire una sola cosa. Egli sa bene che altre navi nemiche sono prossime
alla costa, oppure che sono già alla fonda in qualche punto nascosto lungo la
costa stessa. Oppure...” - e qui si guardò un attimo intorno per accertarsi che
tutti lo seguissero bene nella nuova idea che gli si andava formando in mente -
“Oppure, navi nemiche non sono ancora, ma saranno presto vicine alla nostra costa!”.
Bakis proseguì logicamente quel discorso: “E siccome
i miei uomini di vedetta non hanno scorto alcuna nave, né per tutto l’orizzonte
del mare, né ricercandole nelle calette più nascoste, allora io credo che
dobbiamo prepararci ad un passaggio di navi Cartaginesi tra pochissimi giorni
ormai”.
Hanys si illuminò di uno dei suoi rari sorrisi e
disse, scuotendo il capo in finta disapprovazione:
“Parlano anche senza aprire bocca, questi Cartaginesi! dovrebbero stare più attenti!”.
“Parlano anche senza aprire bocca, questi Cartaginesi! dovrebbero stare più attenti!”.
Tutti insieme risero, un poco sollevati dalla
tremenda stanchezza e dalla tensione, per quegli ultimi avvenimenti.
Si augurarono la buonanotte sentendosi come fratelli
che - seppure molto diversi - lavorano insieme in armonia secondo le rispettive
attitudini, tenacemente fidando ancora in un buon raccolto, malgrado
l’approssimarsi della tempesta.
E finalmente fu il dovuto riposo per tutti...
L’indomani, Lauchme volle per prima cosa parlare con
le guide di Nugor, che avevano assistito e partecipato con curiosità a quanto
avvenuto il giorno precedente, pur restando in disparte. Lauchme parlò
solennemente, spiegando in modo da essere capito quanto meglio possibile, circa
ciò che esigeva.
Il popolo di Nugor - disse - avrebbe trovato un
nuovo villaggio verso Nord - vicino al mare - con un grande muro di protezione
intorno, e molta terra fertile da coltivare. Gli sarebbe stato dato.
Moltissima, poi, era l’acqua che la Madre Terra vi
disperdeva, tanto che il posto prendeva il nome di Capo delle Acque.Il villaggio fortificato si trovava
vicino a Orwa, ed era stato costruito perché guerrieri forti come loro lo
andassero a difendere, abitandolo e dandogli vita e gloria. Non gli nascose che
altri pericoli sarebbero sopraggiunti. Promise che un messaggero li avrebbe
preceduti e che sarebbero stati accolti come fratelli che ritornano finalmente
a casa. Le due guide gli mostrarono doverosamente di avere compreso ogni punto.
Accettarono volentieri le scorte di cibo che il Sacerdote aveva fatto disporre
per loro. Infine, accolsero con sorpresa reverente due spade di metallo e due
grandi archi, che - Lauchme assicurò - erano un troppo piccolo riconoscimento
per il loro coraggio ed i loro preziosi servigi. Altre armi come quelle ed
altri grandi archi per la caccia essi avrebbero trovato ad attenderli ad Orwa e
alla Fortezza di Capo delle Acque.
“Che la Grande Madre Ennin vi conservi in salute e
guidi i vostri passi veloci fino a casa” - sussurrò Lauchme, guardandoli mentre
correvano già lontani, liberi e leggeri come due lepri, felici ed intimoriti al
tempo stesso dai nuovi regali.
Essi erano ancora ignari della portata degli eventi,
sia di ciò che andava succedendo, sia di quello che si chiedeva loro. Ma
Lauchme sapeva che essi si sarebbero comportati con coraggio e con valore,
senza neanche immaginare di servire una causa comune, nel difendere le proprie
case e le proprie famiglie. Non c’era tempo di spiegare tutto, pensò con un
poco di rammarico.
E questo sacrificio era anch’esso un necessario,
piccolo tassello di un molto più grande mosaico. Lauchme ne era l’ideatore e
l’esecutore manuale, un artefice qualche volta riluttante, che guardava con
rispetto e con amore ogni singola tessera musiva. Quando anche costretto dai
fatti a sacrificarne qualcuna, sentiva un cuore pesante, un affanno indistinto.
Nessuna era insignificante, ognuna era preziosa.
No, non c’era mai tempo di spiegare.
Brevemente i componenti della Compagnia di Ennin si
salutarono, per prendere vie diverse: Bakis in persona sarebbe andato ad Orwa,
per garantirne la difesa. Mandras si sarebbe imbarcato con i suoi per giungere
più velocemente a KarKar - la città del Golfo, o meglio: le città del golfo - affrontando il grande rischio di
scontrarsi ancora in svantaggio, con le attese navi Cartaginesi. Avrebbe così
seguito il consiglio di Bakis, che aveva sentenziato: “Le strade per Kar non
sono sicure”. Lauchme sarebbe tornato - ma questa volta seguendo la strada - a
Tal-Ur. Lo stesso Hanys lo avrebbe scortato con i suoi uomini per il primo
tratto, quindi avrebbe proseguito per ricongiungersi con la propria gente a
Solki.
Con il suo fare iniziatico e solenne Lauchme
gratificò di un pubblico riconoscimento Mandras, che era il primo a partire:
“In un saluto breve, Grande Mandras, come sempre é breve tutto ciò che sancisce
i destini degli uomini, non posso certo dirti quanto ti ammiro. La tua fama è
più piccola di te. Ti vedo impaziente di prendere il mare, con una razione di
rischio più grande di quella che invece lasci per ognuno di noi. Ingorda
generosità è la tua. Il pericolo incombe, forse meno ignoto, adesso, ma
certamente più mortale e lo scontro appare ineluttabile. Questo io dico: faremo
la nostra parte. E se Ennin lo vorrà ci rivedremo volentieri, più vecchi e più
saggi, ma non più amici di quanto ci sentiamo ora.”.
Rise ferocemente Mandras: “Questo sì, più vecchi
saremo; più saggi, non so: e andremo insieme alle acque fumanti di Mittsa,
perché ne avremo bisogno”.
E via fuggì, Mandras l’eroe, verso la pianura,
guardando lo stagno che brillava nel sole, cercando già con gli occhi la nave,
annusando il salmastro nell’aria, forse già calcolando la forza dell’acqua e la
spinta del vento, libero.... Attraverso nuova gloria e consueta infamia, per
guadagnarsi lo spazio esiguo di due nuove strofe, in un canto di salvezza o di
morte, o forse di entrambe.
Bakis si rivolse allora ad Hanys per dirgli: “Non
minore é il tuo peso, fratello della montagna. Tu hai sradicato il tuo sangue
anche per noi, hai combattuto ignoti nemici e già sei pronto per altro e
peggiore compito, senza un lamento. Ma il carico che io ti affido in questo
ritorno, io ti dico, ti deve essere caro. Lauchme é colui che per noi ha visto
oltre il buio e che ci ha indicato per primo la via. Se ci salveremo, lo dovremo a lui. Se ci rivedremo un
giorno ancora liberi, lui dovremo ringraziare. Per ogni nostro futuro sorriso,
gli rivolgeremo un pensiero grato. Hanys: ti affido il Grande Sacerdote di
Tal-Ur dei prodigi, il Guaritore degli infermi, l’ultimo dei Rasenna, colui che
porta la luce nel buio. Ti affido mio fratello Lauchme, che per noi é rimasto
di qua dal mare, tanto che lo chiamiamo Padre del nostro popolo. Che il tuo
passo sia veloce e senza indugi il tuo braccio, perché grande é la tua
missione. Ed ora vai, con l’aiuto del Sole”.
Hanys ammutolì, ma il suo occhio restò fiero, nell’assumersi
di buon grado quell’onere.
Lauchme e Bakis si guardarono e poi si presero le
mani nelle mani, commossi. Uno dei due disse: “E’ questa, ancora, la terra
prescelta dal Sole, il quale ci dà le stagioni. La terra molto amata dalla
Grande Madre, la terra che é fecondata dall’acqua, fedele discepola della Luna. E
noi - come il grano e gli alberi e gli animali del bosco - siamo ancora i suoi
figli prediletti. In questo abbiamo fiducia”.
“Che Ennin ti ascolti, fratello, e non ci
abbandoni.” - fu la risposta dell’altro.
E così si separarono, ancora una volta.
Il viaggio di ritorno fu velocemente effettuato a
cavallo, sul percorso più comodo e più protetto.
Soprattutto, la strada era disseminata di piccoli villaggi amici e di fontane coperte, che assicuravano i rifornimenti ed il frequente cambio dei cavalli e permettevano quindi di viaggiare più speditamente, con un carico leggero. Fu grande l’impressione di Norax nel percorrere finalmente quella che fino ad allora tante volte prima aveva soltanto sentito nominare: la Via Ezza.
Soprattutto, la strada era disseminata di piccoli villaggi amici e di fontane coperte, che assicuravano i rifornimenti ed il frequente cambio dei cavalli e permettevano quindi di viaggiare più speditamente, con un carico leggero. Fu grande l’impressione di Norax nel percorrere finalmente quella che fino ad allora tante volte prima aveva soltanto sentito nominare: la Via Ezza.
Questa era una grande, antica strada, che
attraversava tutta la Terra del Sole dalla costa dell’alba a quella del
tramonto, passando presso l’altopiano dei giri. Non era, come invece molte
altre, una strada polverosa di terra battuta, che diventava viscida di fango
con la stagione piovosa.
Né era uno stretto e breve viottolo di ghiaia.
Numerose mani sapienti avevano in tempi antichi
infisso nella terra grossi e larghi ciottoli di fiume o di mare nella parte centrale del
percorso. Qualche leggenda diceva fossero stati i giganti. Su ambedue i lati
della strada, pietre più grosse, piantate più profondamente e appiattite
superiormente, assicuravano più stabilità a quelle centrali ed in tal modo
segnavano nettamente il margine della strada, contemporaneamente bandendo ogni
vegetazione. La strada così, diventava comodamente agibile ad un carro, in ogni stagione.
Esisteva poi un’altra strada, che portava verso sud,
fino alle città del Golfo, ma non era così bella, né così diritta, né così maestosa,
né altrettanto antica come la Via Ezza, che era la Via per eccellenza. Per gli occasionali pastori e
viandanti che essi ebbero modo di incontrare nel loro viaggio di ritorno,
l’impressione fu senza dubbio ancora maggiore di quella di Norax. La vista del
drappello era sinceramente terribile: esso ti veniva incontro veloce e intento,
compatto. Tutti gli uomini che lo componevano erano armati e con gli sguardi
foschi, tra il secco echeggiare, in crescendo, degli zoccoli per le foreste
scure e le valli silenziose. Per un attimo soltanto, restava impresso il lampo
improvviso e cupo degli occhi di quella figura al centro, con il cappello a
punta ed il doppio mantello sfrangiato, svolazzante nella corsa, poi l’eco si
allontanava via veloce, lasciando indietro ora il belare spaventato del gregge
sparso in disordine, ora soltanto il silenzio inquieto di un brivido
inspiegato.
E la Via Ezza tornava deserta e silenziosa, unica e
serena padrona del paesaggio.
Due cacciatori, tra gli alberi, da sotto i loro mantelli incappucciati, guardarono sorpresi e con molto interesse il passaggio di quegli uomini, armati, decisi, affrettati, tra i quali si trovava un sacerdote. Parlottarono brevemente tra loro, quindi si divisero di comune accordo, scomparendo furtivi in due direzioni diverse.
In due giorni e mezzo di inflessibile marcia forzata, sotto la spinta imperiosa e ferma di Hanys, dopo avere infinite volte cambiato i cavalli sfiancati, furono di ritorno a Tal-Ur.
Vi giunsero la mattina del terzo giorno di viaggio,
che coincideva con l’ultimo dei nove giorni della festa. Erano stanchi, dimagriti,
sporchi e bagnati per l’abbondante pioggia che li aveva sorpresi nell’ultimo
tratto. Avevano occhi stanchi che brillavano febbricitanti, affossati nelle
orbite segnate dalla fatica. Soprattutto erano indolenziti ed ammaccati
ovunque, né esisteva una postura che alleviasse il loro fastidio. Molto ancora
restava da fare per concludere la loro missione, e molto altro ancora, che
avevano dovuto trascurare delle proprie mansioni, li attendeva - per cui non
era certo tempo di riposare.
Ma erano finalmente giunti a casa.
L’incubazione
- il rituale sonno dei cinque giorni - stava terminando allora. Lèkere aveva un
aspetto sfinito, ma soddisfatto, e fu felicissima di rivederli sani e salvi,
come aveva sperato e pregato. Fu felice di conoscere il buon esito della
missione fino a quel punto. Lèkere si rifiutò di riposare, come d’altronde
Lauchme. Ambedue presero parte alla cerimonia del risveglio, dopo che Lauchme
si fu lavato e cambiato, assistito amorevolmente da Lèkere.
Nessuno aveva notato l’assenza del Gran Sacerdote,
che tutti credevano immerso in preghiera, nascosto in qualche Cambra remota e inaccessibile del Nurake.
I malati dormienti erano pallidi e deboli e avevano
bisogno subito di bere qualcosa di caldo e di ricevere conforto. Alcuni venivano
colti da nausea e vomitavano. Per cinque giorni avevano respirato piano, gli
occhi chiusi, i corpi abbandonati, non più in questo mondo - quasi senza bere -
a parte il dolcissimo vino drogato dei cinque giorni - né avere toccato cibo...
Tutti avevano sognato.
Non si rendevano conto del tempo passato. Dopo un
poco ricevettero miele, latte caldo, oltre ad acqua, conforto ed incoraggiamento.
Quindi essi cominciarono - uno alla volta - a raccontare, con la voce ancora
incerta, ciascuno i propri sogni, segretamente, chi a Lèkere, chi a Lauchme. E
chiedevano di conoscere il motivo del sogno, di chiarire il significato
dell’ansia, di rimuovere l’angoscia del futuro e gli incubi del presente.
Ognuno riceveva una sua risposta diversa - talvolta
oscura, in rime; talaltra in parole piane chiare e semplici. Uscivano dalla
prova in parte almeno sollevati dalla loro razione di peso da portare in vita,
o a volte perfino felici. Tutti comunque erano più sicuri della direzione da
seguire, più disposti ad accettare quel che sarebbe venuto.
Dopo avere ricevuto ognuno ciò per cui erano
convenuti, i pellegrini potevano ritornare man mano con i loro cari che li avevano
accompagnati e che attendevano trepidanti, per prepararsi a ripartire con loro
verso i propri rispettivi villaggi.
Prima, tutti insieme si riunirono intorno al Grande
Nurake di Tal-Ur, all’interno dell’enorme recinto sacro, che tutti li poteva
accogliere, senza riempirsi. Tutti insieme rivolsero verso il tempio il palmo
della mano, all’altezza del petto - e recitarono all’unisono le parole di
solenne ringraziamento, che sancivano la fine della festa e l’inizio
dell’inverno e dell’attività lavorativa nei campi.
Quindi, lentamente, presero a defluire pazientemente
dalle tre porte del recinto sacro - anche i più giovani, che facilmente avrebbero
potuto invece scavalcarlo.
Hanys giudicò che anche per lui non ci fosse più
nulla da fare in quel luogo ed in quel momento e pertanto volle partire
anch’egli, non appena i pellegrini presero ad allontanarsi.
“Grande Lauchme” - fu il suo commiato - “Io ho
imparato molto, di cui neppure sospettavo. Ho purtroppo scoperto nemici nuovi e
pericolosi, ma questo rammarico mi é stemperato dalla piacevole fortuna di
avere guadagnato per me e per la mia gente nuovi sinceri amici ed alleati. E
sebbene mi spiaccia lasciarti così improvvisamente, sento già che il mio popolo
chiama. E tu, in verità hai più bisogno di riposo che non di intrattenere
ospiti - utili altrove, quanto inutili qui. Perciò ti lascio, con la promessa
di servire fedelmente la nostra Missione: la Compagnia si é sciolta, ma lavora
ancora unita, per Ennin. Chi ne ha fatto parte non potrà mai dimenticare questo
onore. Ovunque si trovi, continuerà il proprio compito, per sempre”.
Lauchme sorrise debolmente e gli rispose,
tormentandosi un baffo argentato: “Possa il sorriso del Sole guidare più sicuri
i tuoi passi. Ti affiderò - per la prima parte del viaggio - ad una giovane
guida, che ti renderà più agevole raggiungere la Fontana Raminosa. Lì potrai
fare un buon carico del metallo, che serve ai nostri piani in grande quantità.
La restante parte del percorso sarà egualmente
sconosciuta ad ambedue, ma allora vi basterà seguire la strada per Solki”.
Le parole di Hanys, che non vedeva l’utilità di un
accompagnatore, furono pronunciate come una domanda: “La tua guida potrà essere
libera fin da allora, invece di giungere fino a Solki”.
Il vecchio sacerdote allora scosse il capo, come per
allontanare dalla mente un pensiero spiacevole: “No, Hanys, passata che avrete
la Fontana Raminosa, la mia guida sarà affidata a te, non più tu a lui. Egli nessun altro é se non il nuovo sacerdote
Norax, il quale - io credo - tornerà qui con una giovane donna della tua tribù
- se quella vorrà seguirlo e ne otterrà il permesso - oppure io lo avrò perso
per sempre. Ma questo non posso neanche pensarlo possibile”.
Hanys pareva sorpreso - ma non oltremodo interessato
- del fatto che si desse peso ad una cosa apparentemente così poco importante,
in un momento così grave. Non volle chiedere altro e si accomiatò, promettendo
messaggi ogni giorno alterno, oppure ad ogni novità.
Tal-Ur tornò tranquilla...
La grande fornace non fumava più ed il Grande Nurake
si stagliava immenso e maestoso sul piatto altipiano, esprimendo la forza
granitica di una fede antica, che avrebbe vinto qualsiasi prova.
Il tempio proteggeva con il proprio manto lapideo le
reliquie degli eroi e dei santi del passato, ed accoglieva le modeste figurine
fuse offerte da generazioni di fedeli compatti, uniti in una sola, monolitica
convinzione. Custodiva gelosamente il segreto del Guaritore ed i prodigi della
Maga, con la stessa tenacia naturale e antica con cui il muschio cangiante si
avvinghiava alle sue pietre, abbarbicato sul suo lato freddo. Il rosso nurake
di Tal-Ur, il tempio del Grande Cerchio Sacro, proiettava ora la sua vasta
ombra sulla capanna del suo Massimo Sacerdote Lauchme, quasi a proteggere il
giusto sonno ristoratore, dopo tanti affanni.
Ennin, la Grande Madre, vegliava insonne su di lui e
sulla sua Bithia Lèkere e li guardava abbandonati insieme nel sonno con occhio
benevolo.
Vegliava materna sul viaggio del giovane Norax,
verso il quale sembrava mostrare una particolare attenzione.
E intanto preparava il futuro per i suoi figli
prediletti, creando una grande Stagione per loro e ad un tempo preparandosi a riscuotere
un nuovo grande tributo di sangue... Perché così é Ennin: una madre esigente
che dà tutto di sé per prima, e tutto pretende in cambio, a turno, dai suoi figli.
Il suo sorriso riscalda il cuore dell’uomo dal suo
inizio, per tutta la sua breve stagione. Il suo prezzo alla fine é l’uomo stesso,
che Essa sempre accoglie e vuole riavere in sé...
Ennin, Inanna, Ninna, che sempre hai seguito il
tuo popolo eletto attraverso il Tempo, dal Paese tra i due fiumi, ove fu
l’Inizio dell’età dell’uomo, fino al Paese dalla terra rossa, sulla riva del
mare. Grande Madre, che hai spinto il tuo popolo prediletto ad affrontare il
mare per raggiungere l’isola che sta in mezzo - Keftiu, la mistilingue terra del
rame - per donargli dalle tue viscere ancora un altro prezioso dono, ed insegnargli
a farne uso.
Ennin, Inanna, Ninna: per le stagioni felici sul
Delta del Grande Fiume Atlante il prezzo é stato pagato. Il tuo popolo si é
sparso nelle lacrime e nel mare per le piccole e grandi isole fino ad Archnta,
la terra d’Argento di Tartesso. I tuoi tanti figli portano la tua luce vitale
nella terra del buio - figlia di Erebo e della Notte - navigano fino alle isole Kassitere dello stagno, solcano i
mari nei loro piccoli gusci, e sempre portando con sé i tuoi simboli sacri e cari. Ma i tuoi
figli prediletti fra tutti stanno qui, su questa terra del Sole che Tu generosa
gli hai donato, e vi erigono gli alti e maestosi mucchi di pietre perché da
essi il sacrificio giunga più gradito e solenne a Te e al Tuo Figlio Sposo, il
Sole, che ti feconda con l’acqua vitale.
Ennin, Inanna, Ninna; che cosa chiederai dunque
adesso ai tuoi figli per le stagioni di abbondanza, trascorse felici sulla Terra
dei Nuraki? Di quale minaccioso popolo si sta vestendo la tua punizione? Quale
sarà l’altare su cui scorrerà il sangue? Quali le vittime che vorrai scegliere?
Norax non era tranquillo: molti pensieri turbinavano
nella sua mente accalcandosi insieme ad oscuri, inquietanti presagi e
confondendosi con le ataviche paure in un quadro sgradevole e tormentato,
dominato dall’immagine finale di un neonato urlante, che - dalle fredde mani
crudeli di un malefico idolo ghignante - rotolava nelle fiamme voraci del Molk, sacrificato ad un crudele
dio cartaginese...
“Quante altre nuove radici, tutte del loro sangue
migliore e più antico, dovranno affondare i Tuoi figli nel Tuo duro grembo
pietroso?”.
____
Hiram non era contento.
Era tornato a Serdiana e non si era più mosso da lì. Aveva ormai individuato le sentinelle shardana che controllavano i suoi movimenti. Anche se si davano spesso il cambio, egli riusciva ad identificarle facilmente. Sapeva di essere controllato a vista.
Era tornato a Serdiana e non si era più mosso da lì. Aveva ormai individuato le sentinelle shardana che controllavano i suoi movimenti. Anche se si davano spesso il cambio, egli riusciva ad identificarle facilmente. Sapeva di essere controllato a vista.
Sembrava quasi che non si preoccupassero più di
nascondersi, che anche loro sapessero che i sotterfugi stavano per lasciare il
posto alla lotta a viso scoperto.
Ma non se ne rammaricava troppo. Il suo compito,
adesso, era quello di pensare. Trovare le soluzioni ai problemi. Tradurle in
ordini. Comunicare gli ordini. E fare presto, o almeno, prima di loro...
Hiram riusciva egualmente a comunicare con i suoi,
usando le fiaccole, il disco e la scytala, ognuno con codici
differenti. Aveva anche un codice stabilito di gesti e di segni, che adottava
quando faceva brevi passeggiate intorno a casa.
Ricevere messaggi era ancora più facile, perché non
era certo un problema lanciarli nottetempo al di là del muro di cinta.
Hiram sapeva ormai che il sacerdote di Tal-Ur aveva
presenziato solo alla parte finale della festa dei nove giorni.
Due sue spie lo avevano intercettato sulla via Ezza,
al ritorno di una missione misteriosa nell’interno, sulla quale avrebbe voluto
sapere di più. E invece non ne sapeva niente: per qualche giorno, il sacerdote era svanito nel nulla! Hiram considerò, per un attimo,
la possibilità di un proprio errore: stava forse sottovalutando il proprio
avversario? Era certo ormai che fosse proprio
lui il pellita di rango che tramava con Mandras
in difesa dell’isola. Anche se non poteva di certo essere così pericoloso come
Mandras, si doveva assolutamente trovare un modo per fermarlo, o almeno per
ostacolarlo. Forse, nelle zone montagnose dell’interno, si stava preparando
una resistenza. Ma il cuore dell’isola non
era il bersaglio di Cartagine, che voleva soltanto le pianure fertili e le
coste. E su campo aperto le truppe di Cartagine non temevano nemici, quindi
avrebbero potuto tenere in scacco anche per sempre i montanari pelliti... E
poi, alla lunga sarebbero caduti anche loro, isolati da tutti.
Mandras invece costituiva il vero problema, il più
urgente. Mandras aveva seguaci numerosi, armati, abili combattenti e provetti
marinai. Da quando era fuggito in tutta fretta da Othoca, non era stato più
visto su nessuna strada. Non era stato segnalato in alcuna città. Mandras era -
almeno in apparenza - del tutto scomparso, anch'egli. E questo non doveva essere
sottovalutato: egli poteva trovarsi ovunque, a preparare la difesa contro lo
sbarco. Ovunque. Ma Hiram era convinto che lui fosse - forse già in quello
stesso momento - proprio a Kar. Mandras era pericoloso, ma fortunatamente
prevedibile. Sì: Mandras era già a Kar e ci era andato, certamente, via mare! Ma non avrebbe fatto in tempo a cambiare le sorti
che erano già decise. Tutto era pronto da tempo, a Kar. Comunque fosse, decise
di allertare le sue spie, perché cercassero segni della presenza di Mandras
nelle città del Golfo. Qualunque cambiamento, qualsiasi attività insolita
andava riportata a lui, per quanto insignificante potesse sembrare. Forse - pensò tra sé Hiram - comincio a
preoccuparmi un poco troppo… L’imminenza dello sbarco mi rende nervoso. Fu comunque piuttosto soddisfatto della propria
improvvisa intuizione sul trucco usato da Mandras.
Infine, Hiram decise di mandare immediatamente una
persona fidata, abile e convincente, a Tal-Ur. Elibaal sembrava la persona più
adatta, recentemente si stava comportando egregiamente bene. Doveva pur esserci
qualcuno che non aveva simpatia per quel - come mai si chiamava? - Lauchme. Se
quel qualcuno c’era, bisognava trovarlo, farselo amico. Corromperlo. Indurlo ad
attaccare Lauchme, a diffamarlo, a sfidarlo, ad ucciderlo perfino, se
possibile.
Comunque fosse, si doveva riuscire a distrarre Lauchme,
a tenerlo impegnato, a non dargli tempo per pensare... Si doveva impedire che
egli portasse a termine il proprio piano, qualunque esso fosse...
Hiram mandò l’ordine ad Elibaal, con il messaggero
più veloce.