mercoledì 8 gennaio 2014

Capitolo XIX


La Terra dei Mucchi di Pietre, cap. XIX

di Maurizio Feo

19. Molti addii.




“Hai messo delle vedette sull’altopiano?” - chiese subito Lauchme, appena furono fuori. E Bakis di rimando: “Sì, naturalmente; subito e numerose. Ma nessuna nave é stata avvistata, da allora”.
Hanys confessò di non capire di cosa si stesse parlando e anche Norax non nascose la propria incertezza.
Fu Mandras a rispondere: “E’ evidente, per me, che quell’uomo é un marinaio esperto ed un soldato: era su di una nave militare. Anche se non lo ha confessato, vi era imbarcato da molto tempo, a giudicare dai segni che porta su tutto il corpo e che Lauchme ha visto e studiato. Pur essendo esperto, per fuggire aveva preferito un vecchio e lento Quffah di vimini ed asfodelo, piuttosto che non una barca più robusta, che tenga meglio il mare, e che era egualmente disponibile. Questo vuol dire una sola cosa. Egli sa bene che altre navi nemiche sono prossime alla costa, oppure che sono già alla fonda in qualche punto nascosto lungo la costa stessa. Oppure...” - e qui si guardò un attimo intorno per accertarsi che tutti lo seguissero bene nella nuova idea che gli si andava formando in mente - “Oppure, navi nemiche non sono ancora, ma saranno presto vicine alla nostra costa!”.
Bakis proseguì logicamente quel discorso: “E siccome i miei uomini di vedetta non hanno scorto alcuna nave, né per tutto l’orizzonte del mare, né ricercandole nelle calette più nascoste, allora io credo che dobbiamo prepararci ad un passaggio di navi Cartaginesi tra pochissimi giorni ormai”.
Hanys si illuminò di uno dei suoi rari sorrisi e disse, scuotendo il capo in finta disapprovazione:

“Parlano anche senza aprire bocca, questi Cartaginesi! dovrebbero stare più attenti!”.
Tutti insieme risero, un poco sollevati dalla tremenda stanchezza e dalla tensione, per quegli ultimi avvenimenti.
Si augurarono la buonanotte sentendosi come fratelli che - seppure molto diversi - lavorano insieme in armonia secondo le rispettive attitudini, tenacemente fidando ancora in un buon raccolto, malgrado l’approssimarsi della tempesta.
E finalmente fu il dovuto riposo per tutti...
L’indomani, Lauchme volle per prima cosa parlare con le guide di Nugor, che avevano assistito e partecipato con curiosità a quanto avvenuto il giorno precedente, pur restando in disparte. Lauchme parlò solennemente, spiegando in modo da essere capito quanto meglio possibile, circa ciò che esigeva.
Il popolo di Nugor - disse - avrebbe trovato un nuovo villaggio verso Nord - vicino al mare - con un grande muro di protezione intorno, e molta terra fertile da coltivare. Gli sarebbe stato dato.
Moltissima, poi, era l’acqua che la Madre Terra vi disperdeva, tanto che il posto prendeva il nome di Capo delle Acque.Il villaggio fortificato si trovava vicino a Orwa, ed era stato costruito perché guerrieri forti come loro lo andassero a difendere, abitandolo e dandogli vita e gloria. Non gli nascose che altri pericoli sarebbero sopraggiunti. Promise che un messaggero li avrebbe preceduti e che sarebbero stati accolti come fratelli che ritornano finalmente a casa. Le due guide gli mostrarono doverosamente di avere compreso ogni punto. Accettarono volentieri le scorte di cibo che il Sacerdote aveva fatto disporre per loro. Infine, accolsero con sorpresa reverente due spade di metallo e due grandi archi, che - Lauchme assicurò - erano un troppo piccolo riconoscimento per il loro coraggio ed i loro preziosi servigi. Altre armi come quelle ed altri grandi archi per la caccia essi avrebbero trovato ad attenderli ad Orwa e alla Fortezza di Capo delle Acque.
“Che la Grande Madre Ennin vi conservi in salute e guidi i vostri passi veloci fino a casa” - sussurrò Lauchme, guardandoli mentre correvano già lontani, liberi e leggeri come due lepri, felici ed intimoriti al tempo stesso dai nuovi regali.

Essi erano ancora ignari della portata degli eventi, sia di ciò che andava succedendo, sia di quello che si chiedeva loro. Ma Lauchme sapeva che essi si sarebbero comportati con coraggio e con valore, senza neanche immaginare di servire una causa comune, nel difendere le proprie case e le proprie famiglie. Non c’era tempo di spiegare tutto, pensò con un poco di rammarico.
E questo sacrificio era anch’esso un necessario, piccolo tassello di un molto più grande mosaico. Lauchme ne era l’ideatore e l’esecutore manuale, un artefice qualche volta riluttante, che guardava con rispetto e con amore ogni singola tessera musiva. Quando anche costretto dai fatti a sacrificarne qualcuna, sentiva un cuore pesante, un affanno indistinto. Nessuna era insignificante, ognuna era preziosa.
No, non c’era mai tempo di spiegare.
Brevemente i componenti della Compagnia di Ennin si salutarono, per prendere vie diverse: Bakis in persona sarebbe andato ad Orwa, per garantirne la difesa. Mandras si sarebbe imbarcato con i suoi per giungere più velocemente a KarKar - la città del Golfo, o meglio: le città del golfo - affrontando il grande rischio di scontrarsi ancora in svantaggio, con le attese navi Cartaginesi. Avrebbe così seguito il consiglio di Bakis, che aveva sentenziato: “Le strade per Kar non sono sicure”. Lauchme sarebbe tornato - ma questa volta seguendo la strada - a Tal-Ur. Lo stesso Hanys lo avrebbe scortato con i suoi uomini per il primo tratto, quindi avrebbe proseguito per ricongiungersi con la propria gente a Solki.
Con il suo fare iniziatico e solenne Lauchme gratificò di un pubblico riconoscimento Mandras, che era il primo a partire: “In un saluto breve, Grande Mandras, come sempre é breve tutto ciò che sancisce i destini degli uomini, non posso certo dirti quanto ti ammiro. La tua fama è più piccola di te. Ti vedo impaziente di prendere il mare, con una razione di rischio più grande di quella che invece lasci per ognuno di noi. Ingorda generosità è la tua. Il pericolo incombe, forse meno ignoto, adesso, ma certamente più mortale e lo scontro appare ineluttabile. Questo io dico: faremo la nostra parte. E se Ennin lo vorrà ci rivedremo volentieri, più vecchi e più saggi, ma non più amici di quanto ci sentiamo ora.”.
Rise ferocemente Mandras: “Questo sì, più vecchi saremo; più saggi, non so: e andremo insieme alle acque fumanti di Mittsa, perché ne avremo bisogno”.
E via fuggì, Mandras l’eroe, verso la pianura, guardando lo stagno che brillava nel sole, cercando già con gli occhi la nave, annusando il salmastro nell’aria, forse già calcolando la forza dell’acqua e la spinta del vento, libero.... Attraverso nuova gloria e consueta infamia, per guadagnarsi lo spazio esiguo di due nuove strofe, in un canto di salvezza o di morte, o forse di entrambe.

Bakis si rivolse allora ad Hanys per dirgli: “Non minore é il tuo peso, fratello della montagna. Tu hai sradicato il tuo sangue anche per noi, hai combattuto ignoti nemici e già sei pronto per altro e peggiore compito, senza un lamento. Ma il carico che io ti affido in questo ritorno, io ti dico, ti deve essere caro. Lauchme é colui che per noi ha visto oltre il buio e che ci ha indicato per primo la via. Se ci salveremo, lo dovremo a lui. Se ci rivedremo un giorno ancora liberi, lui dovremo ringraziare. Per ogni nostro futuro sorriso, gli rivolgeremo un pensiero grato. Hanys: ti affido il Grande Sacerdote di Tal-Ur dei prodigi, il Guaritore degli infermi, l’ultimo dei Rasenna, colui che porta la luce nel buio. Ti affido mio fratello Lauchme, che per noi é rimasto di qua dal mare, tanto che lo chiamiamo Padre del nostro popolo. Che il tuo passo sia veloce e senza indugi il tuo braccio, perché grande é la tua missione. Ed ora vai, con l’aiuto del Sole”.
Hanys ammutolì, ma il suo occhio restò fiero, nell’assumersi di buon grado quell’onere.
Lauchme e Bakis si guardarono e poi si presero le mani nelle mani, commossi. Uno dei due disse: “E’ questa, ancora, la terra prescelta dal Sole, il quale ci dà le stagioni. La terra molto amata dalla Grande Madre, la terra che é fecondata dall’acqua, fedele discepola della Luna. E noi - come il grano e gli alberi e gli animali del bosco - siamo ancora i suoi figli prediletti. In questo abbiamo fiducia”.
“Che Ennin ti ascolti, fratello, e non ci abbandoni.” - fu la risposta dell’altro.
E così si separarono, ancora una volta.
Il viaggio di ritorno fu velocemente effettuato a cavallo, sul percorso più comodo e più protetto.

Soprattutto, la strada era disseminata di piccoli villaggi amici e di fontane coperte, che assicuravano i rifornimenti ed il frequente cambio dei cavalli e permettevano quindi di viaggiare più speditamente, con un carico leggero. Fu grande l’impressione di Norax nel percorrere finalmente quella che fino ad allora tante volte prima aveva soltanto sentito nominare: la Via Ezza.
Questa era una grande, antica strada, che attraversava tutta la Terra del Sole dalla costa dell’alba a quella del tramonto, passando presso l’altopiano dei giri. Non era, come invece molte altre, una strada polverosa di terra battuta, che diventava viscida di fango con la stagione piovosa.
Né era uno stretto e breve viottolo di ghiaia.
Numerose mani sapienti avevano in tempi antichi infisso nella terra grossi e larghi ciottoli di fiume o di mare nella parte centrale del percorso. Qualche leggenda diceva fossero stati i giganti. Su ambedue i lati della strada, pietre più grosse, piantate più profondamente e appiattite superiormente, assicuravano più stabilità a quelle centrali ed in tal modo segnavano nettamente il margine della strada, contemporaneamente bandendo ogni vegetazione. La strada così, diventava comodamente agibile ad un carro, in ogni stagione.
Esisteva poi un’altra strada, che portava verso sud, fino alle città del Golfo, ma non era così bella, né così diritta, né così maestosa, né altrettanto antica come la Via Ezza, che era la Via per eccellenza. Per gli occasionali pastori e viandanti che essi ebbero modo di incontrare nel loro viaggio di ritorno, l’impressione fu senza dubbio ancora maggiore di quella di Norax. La vista del drappello era sinceramente terribile: esso ti veniva incontro veloce e intento, compatto. Tutti gli uomini che lo componevano erano armati e con gli sguardi foschi, tra il secco echeggiare, in crescendo, degli zoccoli per le foreste scure e le valli silenziose. Per un attimo soltanto, restava impresso il lampo improvviso e cupo degli occhi di quella figura al centro, con il cappello a punta ed il doppio mantello sfrangiato, svolazzante nella corsa, poi l’eco si allontanava via veloce, lasciando indietro ora il belare spaventato del gregge sparso in disordine, ora soltanto il silenzio inquieto di un brivido inspiegato.
E la Via Ezza tornava deserta e silenziosa, unica e serena padrona del paesaggio.




Due cacciatori, tra gli alberi, da sotto i loro mantelli incappucciati, guardarono sorpresi e con molto interesse il passaggio di quegli uomini, armati, decisi, affrettati, tra i quali si trovava un sacerdote. Parlottarono brevemente tra loro, quindi si divisero di comune accordo, scomparendo furtivi in due direzioni diverse.



In due giorni e mezzo di inflessibile marcia forzata, sotto la spinta imperiosa e ferma di Hanys, dopo avere infinite volte cambiato i cavalli sfiancati, furono di ritorno a Tal-Ur.
Vi giunsero la mattina del terzo giorno di viaggio, che coincideva con l’ultimo dei nove giorni della festa. Erano stanchi, dimagriti, sporchi e bagnati per l’abbondante pioggia che li aveva sorpresi nell’ultimo tratto. Avevano occhi stanchi che brillavano febbricitanti, affossati nelle orbite segnate dalla fatica. Soprattutto erano indolenziti ed ammaccati ovunque, né esisteva una postura che alleviasse il loro fastidio. Molto ancora restava da fare per concludere la loro missione, e molto altro ancora, che avevano dovuto trascurare delle proprie mansioni, li attendeva - per cui non era certo tempo di riposare.
Ma erano finalmente giunti a casa.
L’incubazione - il rituale sonno dei cinque giorni - stava terminando allora. Lèkere aveva un aspetto sfinito, ma soddisfatto, e fu felicissima di rivederli sani e salvi, come aveva sperato e pregato. Fu felice di conoscere il buon esito della missione fino a quel punto. Lèkere si rifiutò di riposare, come d’altronde Lauchme. Ambedue presero parte alla cerimonia del risveglio, dopo che Lauchme si fu lavato e cambiato, assistito amorevolmente da Lèkere.
Nessuno aveva notato l’assenza del Gran Sacerdote, che tutti credevano immerso in preghiera, nascosto in qualche Cambra remota e inaccessibile del Nurake.
I malati dormienti erano pallidi e deboli e avevano bisogno subito di bere qualcosa di caldo e di ricevere conforto. Alcuni venivano colti da nausea e vomitavano. Per cinque giorni avevano respirato piano, gli occhi chiusi, i corpi abbandonati, non più in questo mondo - quasi senza bere - a parte il dolcissimo vino drogato dei cinque giorni - né avere toccato cibo...
Tutti avevano sognato.
Non si rendevano conto del tempo passato. Dopo un poco ricevettero miele, latte caldo, oltre ad acqua, conforto ed incoraggiamento. Quindi essi cominciarono - uno alla volta - a raccontare, con la voce ancora incerta, ciascuno i propri sogni, segretamente, chi a Lèkere, chi a Lauchme. E chiedevano di conoscere il motivo del sogno, di chiarire il significato dell’ansia, di rimuovere l’angoscia del futuro e gli incubi del presente.
Ognuno riceveva una sua risposta diversa - talvolta oscura, in rime; talaltra in parole piane chiare e semplici. Uscivano dalla prova in parte almeno sollevati dalla loro razione di peso da portare in vita, o a volte perfino felici. Tutti comunque erano più sicuri della direzione da seguire, più disposti ad accettare quel che sarebbe venuto.
Dopo avere ricevuto ognuno ciò per cui erano convenuti, i pellegrini potevano ritornare man mano con i loro cari che li avevano accompagnati e che attendevano trepidanti, per prepararsi a ripartire con loro verso i propri rispettivi villaggi.
Prima, tutti insieme si riunirono intorno al Grande Nurake di Tal-Ur, all’interno dell’enorme recinto sacro, che tutti li poteva accogliere, senza riempirsi. Tutti insieme rivolsero verso il tempio il palmo della mano, all’altezza del petto - e recitarono all’unisono le parole di solenne ringraziamento, che sancivano la fine della festa e l’inizio dell’inverno e dell’attività lavorativa nei campi.
Quindi, lentamente, presero a defluire pazientemente dalle tre porte del recinto sacro - anche i più giovani, che facilmente avrebbero potuto invece scavalcarlo.
Hanys giudicò che anche per lui non ci fosse più nulla da fare in quel luogo ed in quel momento e pertanto volle partire anch’egli, non appena i pellegrini presero ad allontanarsi.
“Grande Lauchme” - fu il suo commiato - “Io ho imparato molto, di cui neppure sospettavo. Ho purtroppo scoperto nemici nuovi e pericolosi, ma questo rammarico mi é stemperato dalla piacevole fortuna di avere guadagnato per me e per la mia gente nuovi sinceri amici ed alleati. E sebbene mi spiaccia lasciarti così improvvisamente, sento già che il mio popolo chiama. E tu, in verità hai più bisogno di riposo che non di intrattenere ospiti - utili altrove, quanto inutili qui. Perciò ti lascio, con la promessa di servire fedelmente la nostra Missione: la Compagnia si é sciolta, ma lavora ancora unita, per Ennin. Chi ne ha fatto parte non potrà mai dimenticare questo onore. Ovunque si trovi, continuerà il proprio compito, per sempre”.
Lauchme sorrise debolmente e gli rispose, tormentandosi un baffo argentato: “Possa il sorriso del Sole guidare più sicuri i tuoi passi. Ti affiderò - per la prima parte del viaggio - ad una giovane guida, che ti renderà più agevole raggiungere la Fontana Raminosa. Lì potrai fare un buon carico del metallo, che serve ai nostri piani in grande quantità.
La restante parte del percorso sarà egualmente sconosciuta ad ambedue, ma allora vi basterà seguire la strada per Solki”.

Le parole di Hanys, che non vedeva l’utilità di un accompagnatore, furono pronunciate come una domanda: “La tua guida potrà essere libera fin da allora, invece di giungere fino a Solki”.
Il vecchio sacerdote allora scosse il capo, come per allontanare dalla mente un pensiero spiacevole: “No, Hanys, passata che avrete la Fontana Raminosa, la mia guida sarà affidata a te, non più tu a lui. Egli nessun altro é se non il nuovo sacerdote Norax, il quale - io credo - tornerà qui con una giovane donna della tua tribù - se quella vorrà seguirlo e ne otterrà il permesso - oppure io lo avrò perso per sempre. Ma questo non posso neanche pensarlo possibile”.
Hanys pareva sorpreso - ma non oltremodo interessato - del fatto che si desse peso ad una cosa apparentemente così poco importante, in un momento così grave. Non volle chiedere altro e si accomiatò, promettendo messaggi ogni giorno alterno, oppure ad ogni novità.
Tal-Ur tornò tranquilla...
La grande fornace non fumava più ed il Grande Nurake si stagliava immenso e maestoso sul piatto altipiano, esprimendo la forza granitica di una fede antica, che avrebbe vinto qualsiasi prova.
Il tempio proteggeva con il proprio manto lapideo le reliquie degli eroi e dei santi del passato, ed accoglieva le modeste figurine fuse offerte da generazioni di fedeli compatti, uniti in una sola, monolitica convinzione. Custodiva gelosamente il segreto del Guaritore ed i prodigi della Maga, con la stessa tenacia naturale e antica con cui il muschio cangiante si avvinghiava alle sue pietre, abbarbicato sul suo lato freddo. Il rosso nurake di Tal-Ur, il tempio del Grande Cerchio Sacro, proiettava ora la sua vasta ombra sulla capanna del suo Massimo Sacerdote Lauchme, quasi a proteggere il giusto sonno ristoratore, dopo tanti affanni.
Ennin, la Grande Madre, vegliava insonne su di lui e sulla sua Bithia Lèkere e li guardava abbandonati insieme nel sonno con occhio benevolo.
Vegliava materna sul viaggio del giovane Norax, verso il quale sembrava mostrare una particolare attenzione.
E intanto preparava il futuro per i suoi figli prediletti, creando una grande Stagione per loro e ad un tempo preparandosi a riscuotere un nuovo grande tributo di sangue... Perché così é Ennin: una madre esigente che dà tutto di sé per prima, e tutto pretende in cambio, a turno, dai suoi figli.
Il suo sorriso riscalda il cuore dell’uomo dal suo inizio, per tutta la sua breve stagione. Il suo prezzo alla fine é l’uomo stesso, che Essa sempre accoglie e vuole riavere in sé...
Ennin, Inanna, Ninna, che sempre hai seguito il tuo popolo eletto attraverso il Tempo, dal Paese tra i due fiumi, ove fu l’Inizio dell’età dell’uomo, fino al Paese dalla terra rossa, sulla riva del mare. Grande Madre, che hai spinto il tuo popolo prediletto ad affrontare il mare per raggiungere l’isola che sta in mezzo - Keftiu, la mistilingue terra del rame - per donargli dalle tue viscere ancora un altro prezioso dono, ed insegnargli a farne uso.
Ennin, Inanna, Ninna: per le stagioni felici sul Delta del Grande Fiume Atlante il prezzo é stato pagato. Il tuo popolo si é sparso nelle lacrime e nel mare per le piccole e grandi isole fino ad Archnta, la terra d’Argento di Tartesso. I tuoi tanti figli portano la tua luce vitale nella terra del buio - figlia di Erebo e della Notte - navigano fino alle isole Kassitere dello stagno, solcano i mari nei loro piccoli gusci, e sempre portando con sé i tuoi simboli sacri e cari. Ma i tuoi figli prediletti fra tutti stanno qui, su questa terra del Sole che Tu generosa gli hai donato, e vi erigono gli alti e maestosi mucchi di pietre perché da essi il sacrificio giunga più gradito e solenne a Te e al Tuo Figlio Sposo, il Sole, che ti feconda con l’acqua vitale.
Ennin, Inanna, Ninna; che cosa chiederai dunque adesso ai tuoi figli per le stagioni di abbondanza, trascorse felici sulla Terra dei Nuraki? Di quale minaccioso popolo si sta vestendo la tua punizione? Quale sarà l’altare su cui scorrerà il sangue? Quali le vittime che vorrai scegliere?
Norax non era tranquillo: molti pensieri turbinavano nella sua mente accalcandosi insieme ad oscuri, inquietanti presagi e confondendosi con le ataviche paure in un quadro sgradevole e tormentato, dominato dall’immagine finale di un neonato urlante, che - dalle fredde mani crudeli di un malefico idolo ghignante - rotolava nelle fiamme voraci del Molk, sacrificato ad un crudele dio cartaginese...
Quante altre nuove radici, tutte del loro sangue migliore e più antico, dovranno affondare i Tuoi figli nel Tuo duro grembo pietroso?”.

____

Hiram non era contento.
Era tornato a Serdiana e non si era più mosso da lì. Aveva ormai individuato le sentinelle shardana che controllavano i suoi movimenti. Anche se si davano spesso il cambio, egli riusciva ad identificarle facilmente. Sapeva di essere controllato a vista.
Sembrava quasi che non si preoccupassero più di nascondersi, che anche loro sapessero che i sotterfugi stavano per lasciare il posto alla lotta a viso scoperto.
Ma non se ne rammaricava troppo. Il suo compito, adesso, era quello di pensare. Trovare le soluzioni ai problemi. Tradurle in ordini. Comunicare gli ordini. E fare presto, o almeno, prima di loro...
Hiram riusciva egualmente a comunicare con i suoi, usando le fiaccole, il disco e la scytala, ognuno con codici differenti. Aveva anche un codice stabilito di gesti e di segni, che adottava quando faceva brevi passeggiate intorno a casa.
Ricevere messaggi era ancora più facile, perché non era certo un problema lanciarli nottetempo al di là del muro di cinta.
Hiram sapeva ormai che il sacerdote di Tal-Ur aveva presenziato solo alla parte finale della festa dei nove giorni.
Due sue spie lo avevano intercettato sulla via Ezza, al ritorno di una missione misteriosa nell’interno, sulla quale avrebbe voluto sapere di più. E invece non ne sapeva niente: per qualche giorno, il sacerdote era svanito nel nulla! Hiram considerò, per un attimo, la possibilità di un proprio errore: stava forse sottovalutando il proprio avversario? Era certo ormai che fosse proprio lui il pellita di rango che tramava con Mandras in difesa dell’isola. Anche se non poteva di certo essere così pericoloso come Mandras, si doveva assolutamente trovare un modo per fermarlo, o almeno per ostacolarlo. Forse, nelle zone montagnose dell’interno, si stava preparando una resistenza. Ma il cuore dell’isola non era il bersaglio di Cartagine, che voleva soltanto le pianure fertili e le coste. E su campo aperto le truppe di Cartagine non temevano nemici, quindi avrebbero potuto tenere in scacco anche per sempre i montanari pelliti... E poi, alla lunga sarebbero caduti anche loro, isolati da tutti.
Mandras invece costituiva il vero problema, il più urgente. Mandras aveva seguaci numerosi, armati, abili combattenti e provetti marinai. Da quando era fuggito in tutta fretta da Othoca, non era stato più visto su nessuna strada. Non era stato segnalato in alcuna città. Mandras era - almeno in apparenza - del tutto scomparso, anch'egli. E questo non doveva essere sottovalutato: egli poteva trovarsi ovunque, a preparare la difesa contro lo sbarco. Ovunque. Ma Hiram era convinto che lui fosse - forse già in quello stesso momento - proprio a Kar. Mandras era pericoloso, ma fortunatamente prevedibile. Sì: Mandras era già a Kar e ci era andato, certamente, via mare! Ma non avrebbe fatto in tempo a cambiare le sorti che erano già decise. Tutto era pronto da tempo, a Kar. Comunque fosse, decise di allertare le sue spie, perché cercassero segni della presenza di Mandras nelle città del Golfo. Qualunque cambiamento, qualsiasi attività insolita andava riportata a lui, per quanto insignificante potesse sembrare. Forse - pensò tra sé Hiram - comincio a preoccuparmi un poco troppo… L’imminenza dello sbarco mi rende nervoso. Fu comunque piuttosto soddisfatto della propria improvvisa intuizione sul trucco usato da Mandras.
Infine, Hiram decise di mandare immediatamente una persona fidata, abile e convincente, a Tal-Ur. Elibaal sembrava la persona più adatta, recentemente si stava comportando egregiamente bene. Doveva pur esserci qualcuno che non aveva simpatia per quel - come mai si chiamava? - Lauchme. Se quel qualcuno c’era, bisognava trovarlo, farselo amico. Corromperlo. Indurlo ad attaccare Lauchme, a diffamarlo, a sfidarlo, ad ucciderlo perfino, se possibile.
Comunque fosse, si doveva riuscire a distrarre Lauchme, a tenerlo impegnato, a non dargli tempo per pensare... Si doveva impedire che egli portasse a termine il proprio piano, qualunque esso fosse...
Hiram mandò l’ordine ad Elibaal, con il messaggero più veloce.
Elibaal, in risposta, gli fece sapere che - avendo compreso la gravità e l’urgenza - partiva subito per i bagni di Mittsa e lo ringraziò per la benevola considerazione che gli dimostrava, affidandogli quel compito così importante...