domenica 12 gennaio 2014

CAPITOLO XXIV


la Terra dei mucchi di Pietre, cap XXIV
di Maurizio Feo


24. Gli ultimi eroi.

Nei giorni che seguirono, Lauchme accolse gli ultimi mes­saggi sui più recenti avvenimenti.
I messaggeri da Orwa erano trionfanti. E ciò traspariva già da come stavano ritti in groppa ai loro cavalli - leggeri nella ritrovata libertà, esultanti i loro modi e le parole, dimenticato  ogni buio orrore della guerra, laggiù si stava costruendo un radioso futuro. Nella terra bruna e profonda sembrava rifondata l’antica Larissa, fertilissima per i mille rivoli gonfi di acqua feconda che la bagnavano. L’operosità e l’armonia vi regnavano sovrane, tanto che l’avrebbero chiamata Olbìa, “Città Felice”.
Meno raggianti erano invece quelli di Karul e di Kares, le due città del Golfo Grande. Anch’essi parlavano per la verità di vittoria, anch’essi riferivano di mare sgombro e pulito - ma qualcosa offuscava il fulgore degli occhi ed un turbamento indugiava sui loro volti.
Dopo il sopravvento della flotta in aiuto da Kur - fu il loro resoconto - i Cartaginesi della seconda flotta si videro pri­vati di ogni residua via di fuga e selvaggiamente si erano riversati avanti, ciecamente, aprendo con rabbia una pro­fonda ferita lungo i campi che erano stati gialli di crisan­temi nella bella stagione e che adesso nereggiavano tri­stemente per il sangue versato, per la furiosa distruzione del fuoco, per un ultimo passaggio disperato dell’inutile umana follia. Un giorno intero si poteva viaggiare ormai per quei luoghi profanati e specchiarsi in essi come nello specchio buio e tetro della morte. 
Hanys era giunto con i suoi, armati del nuovo mortale segreto metallo Isarno, forgiato nella nuova città guardiana, ed aveva tenuto fede al suo nome iroso e ribelle - Vento Divino di Tempesta - tagliando gli scudi e gli elmi, facilmente spezzando le spade nemiche, urlando il nome di Ennin e fermando il loro insano ol­traggio alla terra.
“I messaggeri di Kar parlano di vittoria” - interruppe il loro racconto Lauchme - “ma ne parlano con toni che si addicono di più ad una sconfitta: qualcosa che ancora non hanno detto é successo, a sciupare il pieno trionfo. Che cosa?”.
Ma il sacerdote temeva la risposta, perché da molti segni segreti già conosceva i semi del tempo futuro, da cui ineluttabile sarebbe germogliato il destino della sua gente. 
Il tempo degli dei era da lungo tempo perduto e da molti dimenticato. Il tempo degli eroi volgeva ormai alla fine.
Lauchme già sapeva nel cuore che gli ultimi eroi erano caduti.
Chiese due nomi: “Mandras? Hanys?”.
E i messaggeri subito piansero e si strapparono i capelli e - confermando quei nomi - molti altri ve ne ag­giunsero, fra noti ed ignoti, di tutto valore. Libero era il mare. Spesso in tempesta, adesso che il vento freddo ne tornava unico ed incontrastato padrone. Con il freddo si ad­dormentava il figlio-sposo della Grande Madre e questa lo riaccoglieva nel suo grembo fino al prossimo caldo. Per giorni e giorni le navi Shardana si erano spinte con grande pericolo oltre il possibile, senza vedere alcun segno. Il pe­ricolo era trascorso, dissolto in quelle volubili onde me­ravigliosamente blu, increspate di un capriccioso bianco in cima, che avrebbero proibito da adesso per almeno cinque lune ogni presenza umana.
Dalle sponde di Karul, in quella stessa acqua era stata spinta - secondo l’accorato resocon­to dei messaggeri - la snella nave di Mandras, con a bordo le sue spoglie e le sue armi. Toccò proprio a Iolao, il suo più fedele luogotenente, dar controvoglia fuoco alla pira, sussurrandogli l’ultimo rispettoso e segreto saluto. E mentre la nave si consumava nel suo ultimo e breve viag­gio, da tutto il Golfo si udivano mille voci unite insieme nel coro antico per la morte dell’eroe:





“Il Re si é disteso e non si alzerà più,
il signore di Kullab non sorgerà più;
avuto successo sul male, non tornerà più;
benché così forte di braccio non sorgerà più.
Saggezza aveva ed un viso aggraziato, ma non verrà più.
Se n’é andato sulla montagna, non tornerà più,
giace sul letto del fato, non sorgerà più,
dal giaciglio di molti colori non tronerà più”.





Iolao si era poi fatto un sacro dovere di raccontare come Mandras il Grande avesse combattuto quell’ultimo giorno. Una sola canzone non sarebbe bastata.
Magon il cartagine­se e suo fratello Hasdrubaal - capi della flotta e dell’esercito - erano stati affrontati, schiacciati e vinti da Mandras uno dopo l’altro, col furore infernale che egli sa­peva scatenare improvviso sul nemico sgomento. Questo aveva privato i Cartaginesi del comando e aveva così af­frettato la loro totale disfatta. Ma aveva anche offerto un bersaglio obbligato alla loro rabbia, ormai cieca: molti altri erano caduti sotto i colpi vendicatori di Mandras, ma le frecce e le lance ormai cercavano lui e soltanto lui. Ed infine - purtroppo - lo avevano trovato e fermato per sempre. Hanys coraggioso gli era corso incontro, tagliando le folte schiere nemiche come i molli favi dell’alveare, recidendo le fibre intrecciate degli scudi e le vene pulsanti dei corpi, sprizzandone fuori il sangue come se fosse miele.
E in realtà, sembrava davvero che egli già pregustasse dolcemente la propria morte. Così li avevano trovati, più tardi, spenta ogni resistenza in quel luogo: caduti vicini uno di fronte all’altro, ancora una volta alla pari, amici e rivali imbat­tuti, le mani protese a cercarsi per darsi aiuto. Deposte le armi inutili per dare e ri­cevere un ultimo conforto, interrotti nel loro estremo, fatale confronto. Gli ultimi eroi.


La voce profonda di Iolao già sembrava intonare una canzone funebre in lode del’amico ucciso: “Giorno infausto e terribile! Ora é completa la misura e tutti gli altari grondano del caldo sangue delle vittime oltre i canali colmi, oltre ogni famelica intenzione divina di vendetta. Mi interrogo sul volto sbiadito dell’amico, del fratello, dell’eroe. Mi domando se non avrei mille volte preferito servire un avido padrone straniero insieme a lui, piuttosto che gustare in solitudine il miele amaro della riconquistata libertà”.
A questo reso­conto Lauchme proruppe, alzando la mano destra in pre­ghiera: “Oh, acre sapore della vittoria, quando perdono colore i volti familiari e non più speri di udire il riso delle voci amiche. Ora é veramente colma la misura. Interamen­te pagato il prezzo nel sangue. 
Io vi dico che fra tredici lune ricorderemo questo giorno e saremo tristi. Attorno a nuovi fuochi accesi canteremo in memoria dei nostri eroi, immoleremo le vittime in ringraziamento e ne trarremo auspici. 
E così ogni nuovo anno, per sempre. Tornate alle vostre genti con il messaggio di un importante nuovo ra­duno - qui, presso il tempio di Tal-Ur - da tenersi alla prossima luna piena, ciò che darà tempo a tutti di compiere il viaggio e di consumare le feste per la vittoria. Voglio qui le dodici città. Invito qui i sacerdoti, i capi militari, i giudici, tutti. Desidero parlare insieme, dei destini delle nostre genti e delle loro. Spero che questo stia tanto a cuore a loro, quanto a voi e a me. Andate, ora, e siate convincenti. Vi ringrazio per il vostro valore. Di fronte al sorriso di Ennin”.
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Hiram - dal suo rifugio segreto ad Othoca - dette rapidamente tutte le ultime testarde disposizioni, prima di partire: i suoi dovevano mescolarsi alla folla dei pelliti e degli shardana e fare commenti negativi, dissuadere dal combattere, demotivare, sminuire il pericolo di Qart-Hadasht...
Doveva spargersi ovunque un sentimento di sazietà per quanto ottenuto, di invincibilità. Si doveva diffondere il disgusto e l’orrore per la guerra, in difesa dei nuovi nati che avevano fame. Ci si doveva domandare quale fosse il vantaggio di portare la guerra a Qart-Hadasht per poi tornare nelle proprie case abbandonate o distrutte, nei propri campi incolti, a morire di fame... Questo era il loro dovere: che ognuno poi trovasse da sé i modi e le parole più convincenti.
Hiram era molto dimagrito, quasi irriconoscibile. Il volto era coperto da una folta e lunga barba, gli occhi incavati avevano un aspetto febbricitante e sofferente. Vi si leggeva ancora la tremenda prova di orrore cui era stato sottoposto, con la perdita della sua piccola, adorata Frine.
Il suo ranocchietto non c’era più. Gli era stato rubato per sempre su quella terra ostile, nel piatto acquitrino presso Nabui, in una notte buia e fredda e traditrice... Hiram avrebbe sofferto meno se gli avessero tagliato un braccio. Ah, gli avessero tolto gli occhi con un trave acceso!

Adesso, più nulla aveva senso per lui.
Tutto, intorno, gli dava fastidio. Il sole sorgeva e scaldava, le stelle brillavano candide, i fiori profumavano ancora, struggentemente belli. Ed il canto degli uccelli rallegrava tutti gli animi, ma non più il suo.
Ogni cosa esisteva ancora, anche dopo la morte di Frine, anche senza averne più il diritto. Perché Hiram si era illuso che tutto, ogni cosa, vivesse davvero soltanto per lei, per Frine. Ed ormai si sentiva tradito, derubato e disilluso, disperatamente solo, per sempre.
Conservava ancora negli occhi l’immagine del suo passerotto che spirava incredulo, trafitto da una velenosa freccia shardana, senza un gemito. Vedeva ancora il suo sguardo, fisso nel nulla, farsi improvvisamente opaco. Dietro di essi, dentro di essi, non c’era più la vita. Udiva ancora ed ancora nelle orecchie il colpo sordo, subito dopo il sibilo ronzante... L’orrore e la rabbia gli maceravano la mente ed il cuore: tutto, dentro di lui era ormai marcio e senza più salvezza. Non aveva più alcuna voglia di vita, ma il suo animo dolorante non era vuoto: traboccava di un odio potente. Odiava quella terra nemica con tutto sé stesso. Ed era proprio l’odio a tenerlo ancora in piedi, malgrado la terribile stanchezza che gli fiaccava il fisico. L’odio ed il desiderio di infliggere al nemico lo stesso spasmodico dolore che anch’egli provava in quel momento...
Cercando febbrilmente dentro di sé, trovava immutata l’antica fedeltà alla città di Elisha. A questo scoglio si aggrappava per non soccombere, per non essere trascinato via dalle travolgenti ondate di disperazione che lo scuotevano come un fuscello. Riconosceva i propri doveri ed i propri ideali, quelli a cui era stato lungamente educato da sempre. Sapeva che solo la loro realizzazione poteva lenirgli il dolore, distrarlo, rimettere ordine nella sua mente sconvolta e ridargli almeno una parvenza delle dignità e serenità perdute.
Esisteva forse una sola persona, sull’isola, che egli sentiva di non odiare. Si trattava, per quanto strano, di quel sacerdote pellita, quel Lauchme...
Egli era un suo nemico - forse, anzi, il suo principale e più pericoloso antagonista - ma gli riconosceva il sacro diritto di organizzare una difesa della propria terra e della propria gente.
Avrebbe desiderato, se non conoscere, almeno potere vedere in volto quel sacerdote, perché, in fondo, ne ammirava il coraggio e la dedizione. Si specchiava in quell’uomo e lo immaginava simile a sé, volontario schiavo di una medesima ferrea disciplina, devoto ad una divinità egualmente esigente.
Ma non ce n’era il tempo. Ed inoltre era troppo pericoloso: ormai il suo volto era troppo noto ai guardiani shardana. Hiram doveva andare: non c’era più nulla da fare, per lui, sull’isola. Nulla lo tratteneva più, nulla lo amava: il paradiso si era appassito, per lui.
Invece, la sua opera era preziosa e richiesta altrove...
Hiram si imbarcò segretamente per il tempio di Astarte presso Pyrgi. No, non Astarte: Uni, la chiamavano i Rasenna, nella loro antichissima lingua.
Doveva allacciare più stretti rapporti con loro. Pyrgi era il porto della potente Kysra, la più grande città dei Rasenna. Essi erano più ricchi, grazie al loro fortunatissimo commercio dell’Isarno e degli altri metalli. Amavano le comodità, le ricche vesti ricercate, la buona tavola, le raffinatezze e potevano di fatto permettersele tutte. Erano però bisognosi di alleati forti come i Cartaginesi, perché sapevano bene di essere circondati da popolazioni ostili ed affamate: gli esuli Keltoi che si moltiplicavano a nord; i rozzi ed aggressivi Rumach a sud, con la variopinta lega delle città latine di pastori. E poi c’erano i tracotanti esuli egei, eubei e focei che si affollavano su tutti i litorali del sud ed avevano flotte potenti e - per Baal! - sapevano navigare e combattere.
I Rasenna erano ormai distanti dai loro antichi fratelli della terra del Sole, che erano rimasti rozzi pastori vestiti di pelli, oppure puzzolenti commercianti di pesce salato. E lui, Hiram, avrebbe provveduto ad allontanarli ancora di più.
Gli avrebbe fatto conoscere quelle raffinatezze e quei piaceri orientali che essi non avrebbero poi più voluto abbandonare.
Sarebbero diventati confederati di Qart-Hadasht per sempre...
Hiram avrebbe presto incontrato il reggente di Kisra - Thefarie Velianas - e gli avrebbe fatto firmare un trattato solenne di alleanza militare, commerciale e politica. Il testo del trattato - l’aveva già con sé, pronto - sarebbe stato inciso su lamine d’oro e di bronzo, in tutte e due le lingue. Le lamine sarebbero state pubblicamente affisse nel tempio, secondo il rito sacro, perché tutti i visitatori potessero leggerle.


“Alla Signora, Astarte.
Questo è il luogo sacro che ha fatto e donato Thefarie Velianas, regnante su Kisra, nel mese del sacrificio al Sole, come dono al Tempio.
E l’ha doverosamente costruito per beneficio di Astarte, nel mese di Kerer, nel giorno dell’interramento della divinità e della semina.
E gli anni della statua della Divinità nel suo Tempio siano tanto numerosi come queste stelle brillanti”.

Hiram, naturalmente, portava con sè i chiodi d’oro per affiggere le lamine, così numerosi come un cielo stellato. Sarebbero stati un dono gradito. Inoltre, portava Gezabel e altre donne esperte nell’arte delle carezze, da offrire generosamente alla dea del tempio, a sicura riprova della buona volontà sua e di chi egli rappresentava. E così, tra l’altro, nulla gli sarebbe più sfuggito di ciò che accadeva su quella parte del mare.
E intanto, Qart-Hadasht poteva con comodo leccarsi le ferite e prepararsi bene per il suo secondo e decisivo attacco alla terra del Sole...
Ma questa volta - Hiram giurò solennemente a sé stesso e a Baal Ammon - non ci sarebbero più stati errori, né mercenari pavidi, né traditori prezzolati. Hiram si rendeva garante con tutto sé stesso dell’infallibilità della nuova missione. Si accordò col proprio dio: egli stesso sarebbe salito sul Tophet e si sarebbe immolato, in ringraziamento finale per l’ottenuta vittoria. In un solo caso - promise con voce grave - si sarebbe astenuto dal farlo: se fosse prima morto in battaglia. Ma si augurava che in quel caso Baal avrebbe gradito egualmente il suo sacrificio...
Questa volta, Qart-Hadasht avrebbe stroncato brutalmente i suoi nemici: avrebbe portato l’attacco decisivo con la sua forza migliore, il battaglione sacro di Hiram, per la gloria immortale di Elisha e dei sacri figli di Tiro...


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La tempera­tura si manteneva mite, quasi volesse aiutare le famiglie i cui uomini durante la guerra non avevano potuto provve­dere alle provviste di legna, (né, se per questo, a tutti gli altri doveri, quali la caccia ad esempio, o il pascolo). Ma adesso erano tutti animati dal desiderio di recuperare il tempo perduto.
Per la verità, non proprio tutti coloro che erano tornati dalla guerra. In alcuni fortunati villaggi re­moti addirittura non era giunta alcuna notizia dell’inva­sione, né tanto meno della successiva vittoria. Pertanto ai rispettivi abitanti sembrava molto strana quella gran vo­glia di festeggiare che gli altri mostravano.
Alcuni strani gruppi giravano di villaggio in villaggio, suonando ogni sorta di strumento insieme, flauti d’osso, cetre, trombe, tamburelli, in bande chiassose e allegre - mostrando gli scudi o altri cimeli, ad esempio una pelle di leone, o di leopardo (che avevano strappato personalmente al nemico) e parlavano in modo strano di essere più forti restando tutti uniti ed altre stramberie.
Ma tant’é - si sa - ovunque l’ospitalità ha i suoi doveri e comunque si tratta­va di un’allegra e buona compagnia e raccontavano belle storie, eccitanti ed interessanti, per cui nessuno rifiutava loro una buona accoglienza. Alcuni, tra quei variopinti gruppi, avevano forse un ideale, altri certamente avevano soltanto, furbescamente, risolto il problema del lavoro e della fatica...
Altri ancora, invece, erano molto più pratici e sostenevano che si dovevano finalmente riprendere le varie occupazioni, abbandonate da tanto tempo. Aiutare le vedove ad allevare gli orfani. Basta, pensare alla guerra!
Fu in questo confuso stato d’animo che - qualche tempo dopo - il Grande Cerchio tornò ad animarsi per un grande raduno, che stranamente non sapeva di festa e per il quale erano intervenuti numerosi personaggi importanti per aspetto, seguito e ruolo. Molti presero la parola e molte opinioni diverse si infransero tumultuando le une contro le altre, dopo le prime belle parole d’apertura.
Il Grande Sacerdote espose chiaramente e difese con forza la propria tesi, che era poi la logica conclusione di quanto aveva paziente­mente costruito fino ad allora.
Il fuoco del nemico non era spento - egli disse - bensì covava nella cenere la propria bramosia mortificata e sarebbe tornato molto presto una vampa vorace, forse addirittura alla prossima stagione.
Fu convincente, fu abile e commovente, ma non vollero credergli, non vollero ascoltarlo.
Invano, Lauchme si adope­rò in ogni modo per spiegare la necessità di dimostrare al nemico che anche le biprore navi Shardana sapevano attraversare il mare armate. Alcuni lo accusarono inorriditi di volere spargere altro sangue e piangere altri morti ancora. La carestia e la fame avrebbero portato con sé le malattie, le pestilenze. Altri si dissero comunque certi che tutte le navi nemiche fossero state inabissate, con uomini così numerosi che mai più Cartagine avrebbe osato tanto.
E per che cosa, poi?
Per essere, comunque, ancora una volta sconfitta?
Lauchme argomentò ancora che - se necessario - solamente una luna decorreva dall’abbattimento del primo albe­ro al varo della nave finita, con l’aplustre intagliato ed ornato dei colori di guerra. Una nuova e grande flotta poteva quindi essere facilmente preparata nella stagione fredda. E Cartagine era ricca e potente. Aveva molti figli levantini - discendenti di Tiro - all’interno delle proprie alte mura e molti altri ancora - i libici - sparsi nella terra dei leoni e del silfio, di cui non avrebbe certo lesinato il sacrificio. Sue carat­teristiche erano state da sempre l’inganno e la furbizia, come anche la crudeltà e la cupidigia: i loro sottomessi avrebbero dovuto inchinarsi fino a terra davanti a loro. Avrebbero dovuto lavorare incatenati nei campi o remare sulle loro navi e avrebbero perso le proprie donne, schiave alla loro sensualità, nei loro templi di Ashtart, disponibili per qualunque viandante o viaggiatore.
Ma ogni buona ragione passa inascoltata, oltre le orecchie di chi non vuole udire.
Parlarono infine coloro che si dicevano portavoce dell’equilibrio e del buonsenso, ma che in cuor suo Lauchme riconobbe come i più egoisti di tutti, perché mascheravano ad arte il proprio interesse e fingevano di parlare a nome di tutti: pertanto essi erano più colpevoli di coloro che sinceramente confessavano le proprie paure e manifestavano il proprio dissenso, senza secondi fini. Gli uomini della Vera Gente - secondo questi ultimi - dovevano tornare ai loro lavori, che erano stati troppo a lungo disat­tesi: non si poteva rischiare una carestia, che avrebbe messo in ginocchio tutto il popolo, peggio ancora di quanto saprebbe fare qua­lunque nemico...
Le alcove erano state troppo a lungo vuote, vuote restavano le culle. Si preparavano pesanti anni futuri: perché mai volere ancora di più inasprire la situazione? Troppo a lungo erano stati fermi i commerci: alcuni prodotti ormai scarseggiavano o erano del tutto introvabili, mentre di altri - che comunemente erano richiesti di là dal mare - enormi scorte marcivano inutili.
Tutto ciò che alla fine si decise di fare fu di mandare un ricco donario simbolico al tempio di Delfi, presso l’Oracolo Egeo. Avrebbero preparato una grande statua bronzea del loro Dio Babi, con fattezze che somigliassero a Lauchme, a testimonianza della riconoscenza perpetua dei popoli della Terra del Sole - sia all’uomo e sacerdote loro padre, sia al Dio loro Protettore.  E così essi sembravano cedere compiacenti al richiamo accorato del loro Sacerdote, mentre in realtà gli negavano ogni ascolto.
Per la prima volta Norax assisteva, in­credulo, ad una sconfitta del suo Maestro. Per la prima volta, in verità, vi assisteva Lauchme stesso, che non riuscì a rassegnarvisi, neanche dopo avere speso - invano - tutte le sue molte e sagge parole su quella folla incredula, saccente e pavida. Il suo solo commento fu:

“E’ veramente cominciato il tempo dell’uomo. E non mi piace”.
Solo Iolao gli volle assicurare pub­blicamente e senza nessuna condizione l’appoggio della fiera gente di Kur, l’alta città dai due porti, e della sua flotta.
Bakis ed i suoi più ardi­mentosi seguaci - i rudi Iliesi - si dichiararono a favore di una pronta ed accanita difesa in caso di attacco nemico, ma non vollero trasformarsi essi stessi in aggressori, per non recare offesa e lutto e morte, a loro volta.
Questa presa di posizione sembrò la più sensata e quindi prevalse e dietro di essa trovarono conforto gli indecisi e si nascosero i pavidi e gli ignavi, per cui alla fine pesarono molto di più nel piatto della bilancia.
E questa fu la risoluzione del raduno, perché Lauchme, an­che sapendo di avere ragione, non avrebbe mai agito per dividere gli animi. Troppi fantasmi del passato sarebbero rivissuti, ed egli ricordava anche troppo bene di essere approdato sulla terra del sole, anni prima, proprio dopo una lunga fuga da essi...
Una volta che tutti furono ripartiti, il gran Sacerdote si richiuse in un ostinato mutismo e fu perfino schivo della compagnia di chiunque, eccetto che di Lèkere, la sola che riusciva a dargli conforto, e con cui molto si lamentò per la dolorosa perdi­ta degli ultimi eroi. 


“Io ho la forza che mi vedono e per cui mi ammirano, perché credo. Io credo che la mia quotidiana e reverente vicinanza con i miei Dei mi permetta di averne l’amicizia e la benevolenza. Non è un’illusione, lo so da molte prove.
E ciò che più mi dà forza è il fatto che io so per intero quale sia l’utilità del credere. Tanto che, se anche io, per ipotesi, non credessi, sarei egualmente convinto dell’assoluta necessità per tutti di radunarsi intorno ad un altare, per riceverne conforto nella sventura, fiducia nell’incertezza, aiuto nella necessità. E’ per questi motivi che io vesto i miei segni, per indicare chiaro qual’è la mia missione, per far capire che l’assolverò compiutamente. Ma gli uomini son deboli, e ricorrono alla forza della divinità solo nel mezzo del temporale, pronti poi a negarla al primo schiarirsi del cielo. Essi corrono da me, quando hanno bisogno; poi subito mi rinnegano e dubitano degli dei. Non immaginano neanche a che dura prova essi mettano me, che devo rincuorarli nella loro debole fede quando mi cercano e che devo sopportarne l’indifferenza, quando si sentono più forti.
Eppure io credo: perché voglio, perché è necessario. Perché devono esserci regole salde ed immutabili per sempre, a cui riferirsi. O ci si perde. Ogni marinaio lo sa: e diventa per questo il sacerdote di sé stesso, quando è in mare. Ma poi si perde come un bambino, nella vita di ogni giorno, a terra. E’ per questo che anche se non ci fosse un solo Dio buono nel cielo, ma soltanto demoni malvagi e perversi, io crederei egualmente e continuerei i miei sacrifici, i riti sacri e le preghiere, e ancora vestirei così, come mi vesto adesso. Per non perderci nel buio, per avere una vita migliore, perché l’uomo non sia lupo all’uomo, perché l’uomo non sia schiavo dell’uomo, per trovare una vera salvezza su una terra veramente libera”. 


Questo discorso, come anche tanti altri simili, Lekere ascoltò pazientemente, rendendogli ragione e confortandolo, ma inutilmente.
Norax intanto, che era intervenuto al raduno con la sua compagna Larthy, sentiva di dovere ormai scegliere una dimora con lei, ma nello stesso tempo molto temeva quel momento nel proprio cuore e tanto più lo aveva temuto, quanto più lo aveva sentito avvicinarsi.
Un giorno le parlò, dolcemente, guardandola teneramente negli occhi. E prima e dopo ogni parola la baciava sugli occhi, sul viso, sulle labbra. Larthy sentiva l’agitazione del compagno, ma non ne comprendeva la ragione.
“I miei oc­chi vedono te sola - egli le diceva, quasi scusandosi - ed il resto sarebbe buio, se non l’illuminassi tu. I miei giorni io li dividerò con te, se vuoi, fino alla fine. La stessa tavola e lo stesso letto. Tu sarai per me quello che Lèkere é per il mio Maestro, oppure io non sarò più nulla mai. Se non posso chiederti di recidere le tue nuove radici, ovunque ti segui­rò perché i tuoi affanni sono i miei, le tue gioie sono le mie, i tuoi giorni sono i miei ed io altro non ho che te”.
Lacrime dolci scintillarono sulle mani carezzevoli di Norax, mentre Larthy piegava il capo per baciarle...
Se questo soltanto era il motivo dell’affanno di Norax, ebbene era una vana agi­tazione, che ella poteva subito dissipare...
Quando final­mente poté parlare, Larthy disse - abbracciando Norax con insospettabile forza - nella sua voce gentile, ma ferma: “Le mie nuove radici sei tu, ed io non ho e non avrò rimpianti. Il tuo posto é il Grande Cerchio, lo so - perché l’eredità di grande sacerdote ti appartiene negli intendimenti di Lygmon come nell’opi­nione della gente e nelle stesse tue speranze - e quindi Tal-Ur é anche il mio posto, dove io vivrò felice al tuo fianco, cote per la tua falce, purché tu sia pronto ad essere per me quello che Lauchme é per Lèkere. Tu WA NA KA, Signore, figlio della Terra e del Cielo stellato ed io PO TI NI JA, Signora delle fiere, padrona delle piante e di ogni fecondità. Questo é il disegno degli dei, questo sarà, ogni giorno, per tutti i nostri giorni, finché i prodigi divini por­ranno termine ai secoli terreni”.
E detto ciò, Larthy cominciò lentamente a recitare sottovoce una nenia strana e carez­zevole, che seppe accompagnare con abili gesti suadenti delle mani, con significative espressioni del volto delicato e con intensi sguardi degli occhi ipnotici: Perché tu ed io - bambini spaventati  che si tengono per mano per non perdersi a vicenda, soli, ma certo intenzionati ad arrivare in fondo a quei sentieri sconosciuti - perché tu ed io ci siamo mai incontrati ed uniti? Perché provi una vertigine reminiscente d’estate - ma più intima, più intensa - in quei radi momenti in cui il sole ancor valido d’autunno sfilaccia un nuvolone grigio, che copre ogni orizzonte, pi­gro e svogliato? Come le foglie dell’ulivo, che poste sulla brace dormiente si saltano incontro e si accendono - vive davvero nel loro breve attimo - e poi volano leggere, su, in cenere, per consumarsi insieme nel vento: Così noi siamo, e percorriamo quei sentieri scomodi come due bimbi non più troppo spaventati, perché si tengono per mano”.
Era un canto dolce e triste, intessuto della quieta e non rassegnata disperazione di chi conosce i propri desti­ni. Ma era anche la promessa di fulgidi squarci inaspettati di libera, umana felicità.
Era la consapevole espressione della ferma volontà di andare incontro al Fato Vorace, in­sieme e comunque, serenamente.



“La palla purpurea mi lancia Eros dai riccioli d’oro, e con la fanciulla dai sandali variopinti mi invita a giocare. Godrò appieno dei doni e del gioco, intenso nel tempo mortale, golosi i suoi faticosi frutti, perché lungo riposo in premio mi attende”.
E gli occhi restarono fissi negli occhi umidi, furono sorrisi i deboli sospiri, i corpi allacciati insieme, una sola anima, Larthy e Norax, due piccole foglie d’ulivo sulla brace...

Poco alla volta, col tempo, Lauchme ritrovò faticosamente la parola.

Ma se gli altri riscoprirono il piacere di ascoltarlo, pure dovettero am­mettere che i suoi discorsi avevano assunto una nota va­gamente triste e nostalgica. In realtà, chi gli era più vicino e meglio lo comprendeva - come Lèkere e Norax - avvertiva che adesso più forte Lauchme sentiva l’antico richiamo di Ereb.
Egli sentiva che la terra del sole lo aveva, in qualche modo, respinto e tradito. Nel pavido e schivo atteggiamento dei suoi figli egli vedeva, se non proprio un rifiuto della sua supremazia e della sua guida - che essi mai avrebbero soltanto pensato di opporgli - al­meno una prova di insufficiente fiducia. Ed ecco che Ereb lo chiamava suadente, ed egli ascoltava, adesso, nel si­lenzio ferito del cuore, quel richiamo mai veramente sopito, che prima sempre aveva lasciato cadere disatteso e che anzi lo aveva infastidito come un noioso ronzio di mosche moleste.
Lo ascoltava, ma nel contempo vi resi­steva, per non tradire la paziente e prezio­sa opera di tutta una vita.
E questa lotta dei suoi senti­menti gli traspariva sul volto scavato, nell’occhio più cupo e accigliato, persino negli adesso più rari, ma ancora luminosi, sorrisi...
Erano stati completati i necessari nuovi sepolcri per le sacre vittime della guerra. Il Grande Sacerdote aveva presieduto e supervisionato i lavori, con cura, con amore. Aveva fatto costruire i due grandi tumuli a forma di testa di toro - e purtroppo questi a malapena erano stati sufficienti a contenere tutti i caduti dei valorosi guerrieri di Tal-Ur.
Ogni giorno, quindi, si era recato di fronte alle grandi esedre poste nel semicer­chio tra le ricurve corna del tumulo, a pensare, a pregare, a sostenere l’amaro strazio delle vedove degli ultimi eroi...
Il rimorso gli si stringeva intorno al cuore come un crudele rovo spinoso.

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Un giorno - era ormai freddo, bianche le cime, sopita la terra - Lauchme inaspettatamente espresse il desiderio di rivedere Orwa, che già conosceva, e di visitare la nuova fortezza di Capo delle Acque, che aveva giocato un ruolo così determinante nella vittoria. Dopo avere comunicato questo suo desiderio a coloro che gli stavano più vicini, Lauchme uscì dalla capanna e si diresse verso il tempio di Tal-Ur, per officiare un rito breve, da solo.
Il Grande Nurake lo aspettava, gigantesco e pa­ziente, docile, come sempre...
Dopo avere salito i pochi gradini esterni, Lauchme entrò lentamente, per abituarsi così più facilmente alla minore intensità di luce. Percorse l’alto corridoio fino ad incrociare gli ingressi delle due grandi Cambras laterali, ove venivano accolti ed istruiti al loro arrivo i fedeli. Ora erano silenziose e vuote e riecheggiavano dei suoi passi nervosi, restituendogli suoni di solitudine.
Qualche passo dopo, egli volse lo sguardo sulla destra, verso il basso, sul fondo del Vanas, la cella in cui giaceva, sul proprio fianco sini­stro, il corpo di Hanys, mirabilmente incorrotto grazie alle sapienti cure di Lauchme. Vicino al suo corpo erano il suo elmo, lo scudo, l’antica e terribile spada, estremo dono, re­stituito, dopo l’ottima prova.
Poco discosto giaceva - in un sonno non più solitario - il corpo di un altro eroe, dei tempi passati, anche questo adagiato sul fianco sinistro, gli arti flessi, esposto all’adorazione eterna dei visitatori di ogni tempo, dei pellegrini di ogni luogo.

“Avele Feluske, Hanys”, sussurrò, con parole che erano carezze piene di rimpianto. Il sorriso di Lygmon era carico di amore e di gratitudine insieme, per meglio poter superare, col proprio messaggio, il mare sgomento che divide la vita luminosa dalla morte opaca.
Dopo aver silenziosamente comunicato, familiarmente, con i due dormienti, Lauchme ne prese delicato commiato e concesse solo uno sguardo disattento alla rampa spirale di gradini, che portava ai piani superiori.
Là stavano la stanza dell’Oracolo, quella dei paramenti sacri, quella del vino preparato per il sonno dei cinque giorni.
Lauchme procedette fino alla grande e maestosa Cam­bra centrale, vi si inoltrò appena e quindi si fermò, ascoltando il lento respiro del nuraghe, il proprio respiro. Era metà mattina, e la pallida luce del sole obliquo giungeva testarda, ancorché debole, fino ad illuminare le tre grandi nicchie sacre dell’alta sala circolare.

Parlò a lungo Lau­chme - il padre della Vera Gente - con la triade divina: il salutare dio Sole, l’Acqua sacra fe­condatrice e la fertile Dea Madre Terra.
Per ognuno accese una triplice lampada di olio di lentisco, che bruciasse per tutto il tempo del colloquio. E parlò a lungo, accorato e solo, con i suoi stanchi, poveri dei... Alla fine, da tanto parlare scaturì di getto una domanda che da troppo lungo tempo scalpitava impaziente, repressa nel petto del Sacerdote: “Dovrò io - Lauchme - umile servitore di Tal-Ur, portare il Galero appuntito, il doppio mantello di lino, il Labrys e questo coltello sacro, solo come simboli vani di un potere inutile, mentre una flotta armata soffocherà gli ultimi rantoli vitali di questa bella terra? O non potrò, piuttosto - Lygmon Twrsheno - ascoltare il dolce ri­chiamo dei fratelli Rasenna di là dal mare e con loro co­struire, come so, le prime solide basi per il più grande regno venturo del mondo?”.
Questa era la domanda, e fu con rabbia vera che il sa­cerdote pronunciò per intero la propria indignazione ai suoi dei.
Le fiammelle trepide delle lampade sembravano accompagnarlo, danzando consenzienti nel suo soliloquio: o almeno, in quello che egli credeva essere tale.
Ma con sua sorpresa, l’oracolo era presente, invece, e gli rispose - con una strana voce tremante di emozione - mentre il resino­so profumo del mirto andava pervadendo di sé le sacre stanze: “La tua decisione sarà comunque degna di rispetto, e spetta soltanto a te, Lauchme. Non ne risponderai che a te soltanto. Il futuro è tutto già impietosamente scritto nel libro del Fato. Non sarà certo cambiato a tuo capriccio, per quanto tu soffra o ti ribelli.  La tua voce, che noi valutiamo enormemente, come essa merita, in realtà è meno di un ronzio di mosche, agli orecchi degli dei”.
Lauchme - riavutosi dalla sorpresa - cambiò tono, ora che sapeva di non essere più solo: “La scelta si pone tra l’esse­re facilmente accolto come utile amico in Ereb, di là dal mare, da parte di chi di me ha in realtà poco bisogno - oppure esse­re inutile qui, male accetto da parte di chi di tutto avrà bi­sogno, anche solo per sopravvivere, in questa Terra di Mucchi di Pietre”.
Gli rispose, sollecito, l’oracolo: “Sottintendi che, invece, tutto il contrario dovrebbe essere, nella realtà delle cose. E forse hai ragione. Ma non é come tu desideri. Per ragioni a te insondabili, che gli dei conoscono. Orgoglioso nella sconfitta, umile nella vittoria, sempre sei stato così, Lygmon. La dignità del tuo agire e la sincerità della tua parola sapranno farsi riconoscere pre­ziose su qualunque sponda del vasto mare. La scelta, quindi, é solo tua da prendere. Se tu vuoi, prendila adesso: il rammarico è l’unica preda che resta alla freccia tardiva”.
E con uno strano singhioz­zo l’oracolo tacque, non visto - respirando piano, per non lasciarsi udire, le mani tremanti premute sui begli occhi obliqui bagnati di pianto, piegato il corpo sulle ginocchia, la fronte quasi a toccare il pavimento di pietra, unica ruvida certezza, ormai, in una vita che sembrava perdere ogni appiglio certo e sicuro.
Forse un doloroso addio era imminente, e con esso, per Lèkere, la fine di tutto.




Negli ideogrammi di una lingua antica: WA NA KA, “signore e padrone”, era scritto sulla soglia della capanna di Lauchme. PO TI NI JA, “signora e padro­na” era l’iscrizione sulla capanna di Lèkere. E quegli attributi divini e quella sacra unione significavano molto di più di quanto mirto, muschio o pietra, oppure onda del mare e vento po­tessero mai riuscire a misurare con le proprie immense forze naturali soltanto, in tutta l’eternità del tempo...

Ma il rito era terminato, i lumi quasi del tutto esauriti...
L’esitante fruscio della veste di Lauchme allora si allontanò, leggero. Ma il suo cuore era pesante, tenacemente prigio­niero, preso tra le intricate e fitte radici ostinate del mirto profumato - o forse ancora schiacciato e sepolto sotto quelle immani pietre muschiose - o forse, piuttosto, già sperso tra i volubili flutti del mare, verso la lontana ed elusiva Ereb, nel vento?