sabato 4 gennaio 2014

CHAPTER X


La Terra dei Mucchi di Pietre cap X
di Maurizio Feo

10. L’inizio del viaggio.


Lèkere si fece riconoscere dalle guardie del turno di notte, che furono molto sorprese di vederla apparire così, d’improvviso, senza neanche un rumore di scalpiccio sul pietrisco, dal nulla: “Anche voi, che sentite i canti da lontano, avete diritto ad un poco di vino. Più tardi vi farò portare l’arrosto. Che vi sia lieve il peso della veglia in questo primo giorno di festa, amici”  - disse, versando il vino an­che per sé  - “e che i vostri desideri possano avverarsi nel migliore dei modi e nella più breve delle attese”.
Tutti avidamente bevvero grati, brindando volentieri a quest’augurio, senza notare che il bicchiere di Asu Lèkere era rimasto colmo, anzi rin­graziandola per non averli dimenticati, malgrado il tanto daffare.
Lèkere si allon­tanò poco dopo, con un sorriso enigmatico, leggera e furtiva come era arrivata, anche questa volta non vista da alcuno del corpo di guardia, dato che il suo vino aveva già sortito l’effetto desiderato.
“Dormono tutti” - riferì poco dopo Lèkere al Gran Sacerdote, che all’annuncio assunse subito un’espressione preoccupata.
“Gli ho dato il vino dei dormienti, ma un po’ meno forte, per­ché non debbono dormi­re poi così a lungo.”
Il Gran Sacer­dote parve rassicurato da quella precisazione e quindi a sua volta chiese: “Hai notato qualche reazione tra il pub­blico, all’augurio finale del mio di­scorso?”.
La Bithia ri­spose: “No, nessuna, anche se io e le mie ancelle abbiamo guardato bene... Inoltre, non credo che le spie siano tra noi: siamo lontani dalle rive, e non ci considerano pericolosi per loro - così io stimo. D’altro canto il loro obiettivo é lo sbarco, come tu stesso hai dedotto e tante volte ripetuto da convin­cermene. A maggior ragione, io dico, dovete partire adesso: nessuno vi vedrà. La festa procederà bene. Io - da parte mia - mi prenderò cura come sempre dell’Oracolo e del Sonno dei Cinque Giorni. Alle mie, aggiungerò anche la cura delle tue mansioni. Se tornerete presto, nessuno dei presenti - ti giuro - noterà la vostra assen­za”. 
In realtà dubbi e paure erano più numerosi e consistenti di quanto Lèkere non desse a vedere e non ri­guardavano certo la durata del viaggio, come ambedue sa­pevano bene e si taceva­no l’un l’altra a parole, ma si confessavano guardandosi intensamente negli occhi e parlan­dosi più sinceramente con quelli.
L’espres­sione del Grande Sacerdote di Tal-Ur era dolce, mentre le passava la mano tra i capelli corvini, poi - leggermente - sulla fronte corrugata e quindi sulla guancia palli­da, ta­cendo tutto quello che avrebbe voluto dirle, ma che gli sembrava già detto, o già compreso, e quindi superfluo, sot­tinte­so. Si sentì stanco, per aver già vissuto altre volte le stesse paure, per averle combattute e sconfitte, o esserne stato sconfitto. Come fantasmi di un passato non dimenticato - ogni volta, puntualmente, ritornavano. Avevano vesti, voci e volti diversi, ma era sempre immutata l’avidità del dominio, la forza della sopraffazione, l’arroganza del sopruso. Si domandò chi avrebbe vinto, stavolta...
L’espressione insolitamente indifesa di Lèkere avrebbe stupito chiunque avesse potuto vederla in quei momenti: era quella di una bimba che ha paura di smar­rirsi e sul cui viso si legge chiaro il conforto pur lieve di una carezza.
Ma non stupì il Gran Sacerdote Lauchme, che dolcemente sussurrandole qualcosa in un armonioso linguaggio antico si accomiatò da lei, però giurandole in tono premuroso - insieme paterno ed infantile - che sarebbe stato via solo per poco, lasciandola comunque con i begli occhi pieni di pianto.
Subito, Lauchme andò a recuperare Norax, trovandolo ancora rapito dall’incanto col­lettivo e con lo sguardo perso nel vuoto, sognante.
“I miei mi­gliori aiutanti hanno strani occhi, questa notte” - gli disse, scuotendolo, Lauchme.
Norax non poté comprendere, ma lo seguì docilmente. 

Poco più tardi, quattro boscaioli, quattro cacciatori, Norax e Lauchme uscirono segretamente in fila dalla porta grande passando in silenzio a dorso di mulo, affianco alle guardie ancora addormentate: il gruppo furtivo procedeva in qualche modo intristito dal graduale affievo­lirsi dei suoni e dei canti della festa, oltre che dall’ostile incom­bere dell’ignoto in attesa dinnanzi a loro...
Pre­sto i dieci si persero - scen­dendo nel buio - inoltrandosi in di­rezione del traghetto del Lago Lungo.
In realtà il Grande Fiume Twrshna si apriva in quella valle fino a diventare larghissimo - quasi un lago, appunto, stretto e lungo - scorrendovi forse anche un po’ più lento: nel punto in cui esso tornava a restringersi era attra­versa­to dalle grosse e robuste corde che guidavano il traghetto, subito dopo piegava verso il mare bagnando prima Mago Twrshna e poi Othoca...
Giunsero sulle rive del lago al primissimo, incerto chiarore del mattino, quando tutti i colori delle cose sono lividi e incerti : ancora nessuno era in vista. Recuperarono con le corde la zattera e con essa furono ne­ces­sari due viaggi, perché tutti potessero attraversare il la­go. Verso il centro del fiume la corrente era forte e faceva gemere le corde tese, mentre l’acqua gorgogliava forte intorno alla zattera e schizzava dispettosamente i suoi passeggeri.
Il Padre del Grande Fiume sapeva essere molto pericoloso nella stagione piovosa, ma anche adesso era degno di ogni rispetto e lo ricordava ai viandanti, rilucendo qua e là con i suoi mulinelli insidiosi.
Finito il trasbordo, iniziarono la salita, dura e lenta, verso l’altura su cui era stato fissato l’ap­puntamento con Man­dras ed i suoi guerrieri. Era importante portarsi presto fuori dalla vista di quelle rive che tra non molto sareb­bero state brulicanti di viaggiatori e degli stessi abitanti del po­sto. Non sembrò loro troppo presto, quando finalmente giunsero al luogo convenuto, stanchi, ma contenti di tro­vare ad attenderli una colazione calda, preparata premurosamente dagli uomini di Man­dras, che per tutta la salita li avevano pru­dentemente tenuti d’occhio.
Mentre si riposavano e man­giavano, Mandras confabulò brevemente con il Gran Sa­cerdote circa la strada da prendere. Quindi lo mise al cor­rente dello stato delle cose, e cioè di come avesse rischiato di giungere in ritardo nel tentativo di confonde­re un insistente ed indesiderato inseguitore che le vedette gli avevano segnalato.
Il tentativo era alla fine riuscito, così avevano potuto evitare di abbatterlo con gli archi lunghi.
Mandras disse di avere dato disposizione ai guerrieri shardana di destare meno sospetti possibili. La loro attività doveva essere soltanto di vigile attesa fino a nuovo ordine, a meno che non fossero costretti a combattere. Mandras riferì inoltre che adesso poteva contare ben cinque uomini in più, tanti quanti erano le città che gli avevano mandato messaggeri a tenerlo informato.
Sembrava - egli riferì - che le città della costa fossero ormai tutte in un certo allarme e che temes­sero un attacco imminente da parte di un eserci­to potente che - da sole - non erano in grado di fronteggiare. In ogni città si muoveva nell’ombra una organizzazione di spie nemiche. A Kar, in modo particolare.
Da qualche tempo i guardiani shardana si scambiavano messaggi con tale frequenza che talvolta non attendevano una risposta al precedente prima di mandare il successivo. E così era accaduto anche questa volta: i messaggi erano tutti stranamente simili e sinistri e giustificavano tanto nervosismo...
Una nave commerciale at­te­sa in una delle città del Golfo Maggiore era ormai in grave ritardo. Piccole navi d’appoggio mandate ad incontrarla si erano incrociate con snelle navi armate sconosciute, che si erano subito allontanate unendo la forza del remo alla ve­locità del vento. Altri strani incontri erano capitati ai pescherecci di Kur e Tarr. Troppi pescherecci di Kia non erano più tornati. Lo sguardo fiero di Mandras si era in­cupito nel riferire a sua volta questi fatti: “Il mare ha sem­pre ottenuto le nostre vittime in cambio dei suoi ricchi doni e di qualche buona navigazione, ma in questa stagio­ne tante assenze non possono che essere causate dall’uo­mo, oppure devo concludere che i valorosi po­poli del mare non sanno più navigare”.
Mandras aggiunse, a conferma di ciò, che oramai non era più prudente mandare navi alle isole Gymnesie. Queste erano state da sempre isole Shardana, ma nuovi padroni le avevano conquistate nel sangue e le avevano rinominate Pitiuse. Erano molto ostili e si dice che fossero marinai Tirii o Sidonii, quindi confederati o comunque amici di Qart-Adasht.
Il Gran Sacerdote pon­derò atten­tamente queste notizie, quindi scelse attentamente le paro­le per rispondere: “Amici, se possibile dobbiamo ancora raccogliere qualche prova, che sia inoppugnabile, che non possa essere confutata da chi ancora é scettico e si crede lon­tano dal pericolo. Il nostro più difficile compito é in­fatti quello di ottenere l’appoggio della fiera popolazione dell’interno, che si ritiene superiore, lontana, protetta dalle montagne. E’ gente che non conosce neanche l’esistenza delle isole Gymnesie e che non crede di potere subire una sorte analoga alla loro. E’ inoltre importante che questo sia fatto presto, perché tutto mi fa credere che non ci sia più molto tempo da attendere, prima di quel temuto attacco. Per que­sto credo sia meglio incontrare le tribù dell’interno nel corso del nostro viaggio di andata e prima an­cora di avere quelle prove, perché essi possano - prima - abituarsi all’idea nuova e indigesta di avere alleati tra gente che non con­siderano amica e di avere nemici tra gente di cui non conoscono neppure l’esistenza”.

Decisero quindi di partire in fretta, dopo avere raccolto o nascosto ogni traccia del loro breve bivacco.
Per qualche tempo le vedette ed i cacciatori si curarono di masche­rare anche le tracce del passaggio dei ventisei qua­dru­pedi su cui la compagnia procedeva, allontanandosi dalle strade battute. Si tennero sempre ad una certa distan­za dal lago, sulle cui rive sorgeva qualche abitato e corre­vano - lungo la strada - i traffici. Per fare ciò dovettero sa­lire ancora più su, tenendosi ben coperti dalla vegetazione, finché fi­nalmente furono in vista dell’ansa a forma di corno in cui due fiumi sboccavano nel Lago Lungo dandogli nutrimento.
Il più grande dei due era il Grande Fiume Twrshna, ed essi presero invece la dire­zione dell’altro - che incontrarono per primo - che li avrebbe portati nel mezzo delle vicine montagne da cui scendeva.
Dopo non molto tempo furono ad un secondo lago - molto più piccolo, quasi fosse solo una pozza, un punto in cui il fiume sembrava rallentare il proprio corso per riposarsi un poco - e lo costeggiarono fino a raggiungere il fiume che lo alimentava.


Quindi risalirono il corso tortuoso del fiume in uno scenario solitario e sel­vaggio che li costringeva ad una esasperata lentezza. Infi­ne, dopo una ennesima tortuosità del fiume videro aprirsi alla loro sinistra un’ampia valle verde, mentre molto più angusta era - sulla destra - quella da cui scendeva saltel­lando il fiume.


Qui si fermarono finalmente a prendere fiato, uomini e bestie.
I cacciatori di Tal-Ur, che fa­cevano da guide, si consultarono con Mandras e Lauchme, per concludere nelle parole del capo cacciatore: “Da qui si può prose­guire lungo il fiume, oppure lasciarlo.
Nel primo caso si incon­trano altri tre laghi, poco più che piccole pozze, e in poco tempo si sale a grande, impressionante altezza, forse anche il doppio di dove siamo adesso”. Mandras storse la bocca a quella notizia e chiese: “Che cosa c’é dopo il terzo lago? Saremo arrivati, allora?”.
“Non credo” - ammise il cacciatore - “ma non so con precisione: io non sono mai arriva­to oltre il terzo lago, anzi per la verità non ne ho neanche toccato la riva. Dalla montagna che lo sovrasta ho visto che molte montagne si alzano dietro di esso, alcune ancora più alte di quella da cui guardavo, tanto da nascondere ogni altro oriz­zonte”.
A queste parole, il Gran Sacerdote domandò: “E l’altra stra­da, per la valle, dove ci porterebbe?”. Il cacciatore tacque, guardandosi intorno confuso, senza sapere che dire. Intervenne allora un altro cacciatore, che conosceva la risposta: “L’altra strada sale anch’essa, ma non così in alto, ed é abbastanza agevole. Purtroppo essa de­scrive un lungo giro seguendo il lato freddo delle monta­gne per potere così evitare le cime più alte”.
“E questa strada ci porterà dove vo­gliamo?” - incalzò con un’ombra di impazienza Mandras - “cioè sull’altro mare?”.
“Credo di si” - rispose fiducioso il cacciatore - “Ma io non ho mai vi­sto l’altro mare con i miei occhi. Sono giunto fino ad un grosso fiume che scorreva allontanandosi dalla parte opposta a quella da cui provenivo io”.
“Quindi” - si illumi­nò Lauchme - “Se non si può dire che quel punto é a metà strada, comunque pone almeno fine alla salita! Per quanto poco possa valere, è pur sempre una consolazione...” - Ed il suo tono si fece perplesso, mentre cer­cava con gli occhi lo sguardo degli astanti - “Mi domando quan­to ci porterà fuori dalla nostra via quella deviazione”.
Mandras lo incalzò di rimando: “Guarda questo coro di monti, Lauchme: su quella strada ripida saremo lenti, più ancora di quanto non siamo stati fino ad ora. Rischieremmo i garretti dei nostri cavalli. E dietro a questi monti, come abbiamo udito, ve ne sono ancora altri, più alti e più scoscesi”.
“Sì ”- ammise calmo il Gran Sacerdote - “una decisione che si im­pone, senza scelta, é sicuramente la più facile da prendere. La mia preoccupazio­ne, Mandras, é per il dopo: per le altre guide che sapremo tro­vare, per le altre genti che dovremo incon­trare, per il pressare del tempo... Dovremo essere preparati a queste e a molte altre evenienze, che ora non sembrano prevedibili: dobbiamo pensare molto, mentre procediamo, per non fare errori... Andiamo” - disse quindi con semplicità al secondo cacciatore, accarezzandosi i baffi con indice e pollice della mano sinistra - “guidaci fin dove sai: fino a quel fiume, di cui ci hai detto, poco fa”.