La Terra dei Mucchi di Pietre, cap XI
di Maurizio Feo
11. Storie e leggende.
Si incamminarono con rinnovata convinzione per la
strada scelta - che subito si rivelò migliore e più rapida di quella percorsa
fino lì. Salendo, parlavano sommessamente tra loro, di caccia, o di pesca, o
di viaggi per mare, o di battaglie, o di leggende. Rendevano così meno penoso
il camminare a piedi che erano talvolta costretti a fare nei tratti difficili,
sotto il calore di un sole che si era fatto cocente...
Norax apprese in questo modo molti trucchi per
cacciare il muflone - assai più furbo del cervo - e quanti fossero i giorni di
viaggio per mare prima di avvistare la terra nelle direzioni dei venti diversi,
con il variare delle stagioni, che influivano molto sui venti stessi e sulle
correnti del mare.
Apprese anche di grandi guerre passate, che -
malgrado le fulgide gesta degli eroi - avevano devastato le terre dove nasce il
sole e avevano costretto i popoli naviganti all’esodo: dal delta del più grande
fiume d’oriente - Atlante - erano fuggiti attraversando il mare, in piccoli
gruppi ed in tempi diversi. Inoltre seppe della più recente battaglia - di cui
parlavano gli ultimi viandanti - proprio in quella che era stata la culla del
Popoli Naviganti del Mare: in essa una grande città invincibile circondata da
una doppia cerchia di mura, Wilusa, era stata sconfitta con
l’inganno da molti eserciti alleati.
Norax ascoltò con grande interesse come molti
naufraghi fossero stati raccolti tra coloro che erano sopravvissuti e poi fuggiti
per mare lontano dal terribile flagello. Essi avevano tutti lettere uguali, ma
lingue diverse, e narravano strane storie. Nelle loro canzoni erano descritti i
luoghi da essi conosciuti, le coste, le stelle, i venti, i giorni di viaggio
per terra e - specialmente - quelli per mare. Quindi, infallibile meraviglia,
conoscendo le loro canzoni si poteva con ogni sicurezza attraversare il mare
per raggiungere ogni dove...
Molte domande affiorarono alla mente di Norax mentre
ascoltava da Iolao questi vari e affascinanti racconti - coloriti con
abbondanza di motti spiritosi e saggi proverbi - ma ogni volta un nuovo
argomento lo distoglieva e lo confondeva, dandogli nuove meraviglie e nuovi motivi
per altre domande. Riuscì però a chiedere a Iolao - tra un boccone e l’altro,
che ebbero modo di consumare senza fermarsi un solo momento - quali prove
avesse lui che i Sartna e la Vera Gente fossero uno stesso popolo. Iolao era
visibilmente soddisfatto del suo nuovo interlocutore, curioso ed avido di
sapere. Fu molto contento di una domanda che gli permetteva di parlare a lungo
delle leggende e delle tradizioni di cui era un esperto ed appassionato conoscitore.
Iolao gli rispose: “Vedi” - mio pericoloso e giovane amico - “I popoli
naviganti del mare hanno sempre avuto nel loro cuore due grandissime vocazioni
ed in entrambe essi sono tuttora insuperati. Una di esse é il navigare
abilmente per i mari, qualunque siano la stagione e la distanza; l’altra - che
in fondo dipende dalla prima - é la capacità di creare magnifiche fortune
portando a paesi lontani proprio quei prodotti di cui quelli non possiedono il
segreto. Ma per far ciò, essi hanno spesso dovuto dividersi in gruppi e
talvolta perdersi di vista anche per sempre. Si tramanda che essi ottennero il
possesso del delta del Grande Fiume - molto a sud, nella parte più
lussureggiante della ricca terra di Mizraim - oltre che delle isole del grande mare verde, che stavano in
mezzo e che erano predilette dagli Dei: la splendida Thera - l’isola rotonda - poi l’Isola Nuova, dalle molte lingue ed
infine Kaftu, la sempre fiorita Isola del
Rame... Inoltre possedevano mille altri approdi sicuri, che garantivano la loro
grande potenza ed i loro floridi commerci. Ma come tutte le fortune anche
quella creò invidia, e l’invidia fatalmente condusse alla guerra. Così i popoli
naviganti del mare dai molti nomi - i Shalasha o Shakalasha, i Lukka o Lecou, i
Twrshna o Twrsena, i Sartna o Shardana ed altri, che tutti insieme erano stati chiamati Hyksos - persero poco alla volta la loro terra natale, poi le
loro ricche colonie e dovettero infine partire - chi prima, chi poi - nell’arco
di molti anni di sofferenza, per cercare una nuova patria tranquilla. Questa
tragedia spense per sempre in alcuni la voglia di viaggiare per mare, che ad
altri invece é rimasta tuttora. Come raccontano i canti, la Vera Gente giunse
qui per prima, e riconobbe in questa terra il sacro sorriso della Grande Madre
Ennin, amata dal Sole, fecondata dall’acqua fertile, sacra alla Luna. Molto
dopo giunsero i Twrshna sapienti ed i Shardana guerrieri - che noi chiamiamo
Sartna - mentre gli Shalasha e gli altri più avventurosi - Akaivasha e Mahavasha - si spinsero ben oltre, su altre coste e altre isole più
piccole: fino alla città d’argento e fino alle isole Kassitere... Ma ogni volta
che hanno la ventura di reincontrarsi, i popoli del mare sempre si riconoscono:
anche se tanto a lungo divisi da avere ormai accenti diversi, essi hanno le
stesse usanze, gli stessi canti, gli stessi dei. Le loro donne guardano
attraverso gli stessi occhi profondi e dolci e tessono gli stessi disegni sui
loro tappeti. Ogni madre insegna il nodo alla figlia come lo imparò a suo
tempo. E recide dal telaio l’ultimo filo del tappeto finito, proprio con le
stesse parole con cui taglia il cordone ombelicale del figlio, augurandogli una
buona vita. E’ il sangue stesso che si ribella nelle vene per poter essere
riconosciuto uguale, per riabbracciare il fratello tanto a lungo lontano e
finalmente ritrovato... Perché tutti gli Hyksos appartengono ad un’unica gente,
che forse veramente un tempo viveva felice nella lontana culla chiamata Magan, presso i due fiumi. Vi fu
l’era degli Dei, poi quella degli Eroi. Soltanto dopo iniziò quella degli
Uomini, che all’inizio fu felice.. Poi essi
dovettero migrare spinti dalla fame e dalla carestia, cambiando nome e
mestiere, senza fermarsi mai... Perché mai ciò sia accaduto e tuttora accada
senza tregua e senza apparente scopo, solo Mammethun - la dea ancestrale responsabile dei destini - potrebbe dire,
se volesse. Noi possiamo solo ubbidire agli ordini degli dei, ringraziandoli
quand’anche essi si degnino appena di annunciarci le decisioni già prese per
noi”.
Norax aveva ascoltato, compunto e con attenzione,
anche se per la verità di qualche parte già conosceva bene le storie cantate
in versi dai poeti ai raduni e alle feste. Ma ciò che più di tutto l’aveva attratto
e persuaso erano state la forza e la convinzione con cui Iolao aveva descritto
il senso di appartenenza ad un popolo, nello stesso modo in cui Norax lo
provava da sempre...
Questo però, Norax non ebbe modo di
comunicarglielo, come avrebbe voluto fare: una grossa pietra gli stava
rotolando addosso e il suo cavallo scartò, scaraventandolo a terra. Iolao ebbe
la prontezza di afferrarlo saldamente per un braccio e trascinarlo qualche
passo più in là in salvo. Il macigno rimbalzò crepitando molto più in basso,
lasciandoli tutti come affascinati, a seguirne la caduta nel vuoto echeggiante
di secchi colpi maligni e mortali.
Solo Lauchme, che per tutto il tempo era stato muto,
assorto nei propri pensieri, ora stava frugando con gli occhi il fianco della
montagna, cercando febbrilmente qualche cosa. Ma il grido di un cacciatore
attirò i loro sguardi verso un punto più in alto, davanti a loro.
Videro così che non avrebbero potuto passare oltre,
se non chiedendo il passo o combattendo.
La montagna si era improvvisamente animata di
numerosissimi uomini, prima nascosti, che li fronteggiavano dall’alto delle
loro posizioni favorevoli, armati di tutto punto, contratti i lineamenti e
durissimi gli sguardi.
“Fermi, state assolutamente fermi!” - gridò con
autorevolezza Lauchme ai soldati che stavano per guadagnare armi e scudi.
Tutti gli occhi furono quindi sul Gran Sacerdote, ciò che egli di fatto voleva:
con gesti studiati, egli estrasse il proprio coltello sacrificale e lo mostrò
tenendolo ben alto sul capo in modo che fosse ben visibile il manico a doppia T
sovrapposta - che lo caratterizzava come sacro. Con una voce così forte che
neppure Norax gli avrebbe sospettato comandò: “Per il Grande Dio Sole! che non
si macchi il cuore stesso della sua sacra terra con una guerra fratricida!”.
I guerrieri della montagna parvero allora incerti
sul da farsi, ma uno tra loro che per aspetto e autorità doveva essere il capo
si riprese per primo ed urlò una risposta di scherno: “E chi sei tu per venire qui sulle nostre montagne a darci ordini?
Forse vuoi sostituirti al nostro sacerdote?”.
Lauchme non aspettava altro: “Non oserei mai fargli
un tale oltraggio, ed anzi é proprio del suo aiuto che noi abbiamo bisogno e del vostro! Per questo motivo questi uomini fedeli mi hanno
condotto fin qui, ma essi purtroppo non conoscono il resto del cammino: puoi
tu scortarmi in pace?”.
Il capo guerriero esitò, per poi consultarsi con
qualcuno dei suoi luogotenenti.
Mandras ne approfittò per sussurrare una protesta
alla volta del Gran Sacerdote: “Quel bruto ha quasi ucciso due dei nostri!”.
“Si: hai detto bene, quasi ucciso” - ammise il Gran Sacerdote, senza
distogliere lo sguardo - “ma se noi non ci rifiutassimo di giocare il suo gioco
potrebbe riuscire ad ucciderne davvero e del tutto molti di più. Conviene allora che sia lui a giocare
il nostro, dobbiamo convincerlo”. Con rinnovata sicurezza dopo il
conciliabolo, il capo guerriero della montagna apostrofò di nuovo Lauchme: “Da
dove vieni? E per quale motivo devi vedere il nostro sacerdote?”.
“Vengo dal Santuario di Tal-Ur, il Grande Cerchio, e
ne sono il Massimo Sacerdote: Lauchme é il mio nome. Ho lasciato la festa dei
nove giorni, vista la gravità e l’urgenza del motivo che mi spinge oltre le
vostre terre, oltre le montagne, fino alla costa del Sole Nascente. Un grande
pericolo minaccia la Vera Gente. Più di molte parole ti basterà una prova di
quel che dico” - e dicendo questo, si era avvicinato a lui, rinfoderando il
coltello sacro - “Tieni ben salda la tua spada di taglio su questa roccia e
osserva...”.
Detto ciò, fra la tensione generale estrasse lentamente
la propria antica spada, quindi vibrò un colpo improvviso e violento sulla
spada dell’altro, troncandola di netto.
“Questa spada - che tre generazioni di sacerdoti hanno custodito a Tal-Ur - questa
spada é il pericolo, insieme a tutte le altre come questa” - E nel dire ciò
fece un ampio gesto vago, che poteva indicare chiunque, vicino o lontano. “Puoi
tenerla, per rimpiazzare la tua che essa ha distrutto, ma sappi che molte
altre, ancor più forti di questa, minacciano la terra del Sole, già ora, mentre
noi perdiamo tempo a parlare”. Di volta in volta si era potuto leggere sul
volto del capo guerriero ciò che egli provava: la sorpresa, per la violenta
dimostrazione; la mortificazione e la rabbia, per la distruzione della propria
spada; il timore, per l’ignota minaccia annunciata; il piacere, per l’inaspettato
dono; l’incertezza, sulla reale consistenza delle altre spade dei nuovi venuti.
Abilmente, il Gran Sacerdote aveva sottinteso la
possibilità che esse potessero tutte essere uguali a quella così mirabile eppur così facilmente
regalata: fintanto che restavano inguainate nei foderi, non era possibile
controllare a vista; sarebbero state sguainate solo per combattere, ma ciò
avrebbe potuto rivelarsi un disastro: se la sentiva il capo guerriero della
montagna di rischiare?
Alla fine sorrise, il capo guerriero, e disse: “Se
guerrieri così bene armati, e quindi certi della vittoria, non danno
battaglia, devono essere amici, pur se alcuni di essi non vestono come la Vera
Gente. Venite allora: Io, Hanys, vi condurrò dal mio sacerdote”...
I suoi luogotenenti fischiarono il cessato allarme
e subito - per la costernazione di Mandras, ma non di Lauchme - il costone di
roccia si popolò ulteriormente di altri numerosissimi armati, uomini della
montagna, tanti quanti un intero grosso villaggio poteva contenerne. Fu più che
chiaro allora, ad ogni componente della Compagnia di Ennin, che dar battaglia
avrebbe significato una fine certa e breve, per la neonata Compagnia e per la
sua missione.
Mandras con uno sguardo d’intesa disse, non senza
sollievo: “Forse il prezzo é stato un po’ alto, ma in fondo siamo salvi e
sulla strada buona”.
E il Gran Sacerdote, cui non era sfuggita una
sfumatura di ironia: “Per il marchio che il sole ha impresso sulla fronte del
toro, questo é sacro” - disse, stropicciandosi tra le dita un’erbetta aromatica
e respirandone il profumo acre -
“Se lo stesso marchio é impresso nel cuore della Vera Gente, come io credo, noi
non abbiamo perso una spada, oggi, ma guadagnato un valido braccio alla nostra
causa”.
Quindi sorrise appena, e si lisciò i baffi con
l’indice e il pollice della mano sinistra, torcendoli un poco. La lunga fila di
guerrieri aveva puntato verso destra, diritto verso il gruppo di montagne più
alto, cioè quello che la spedizione fino ad allora aveva molto faticosamente aggirato.
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Hiram pagò all’oste il dovuto e lo trattò
cordialmente, chiedendogli se mai gli servisse il suo miele di Serdiana, oppure
altro, visto che presto contava di fare ritorno a Kar. L’oste lo ringraziò, ma
gli disse che aveva già un altro fornitore, che tra l’altro era il marito della
figlia, per cui non poteva cambiarlo. Hiram gli promise che gliene avrebbe
comunque portato un assaggio gratuito, con il prossimo viaggio. Cercava di
apparire quanto più familiare ed accattivante, in modo da non destare sospetti.
Gli chiese se conoscesse chi avesse bisogno della sua bestia da soma per
trasportare qualcosa a Serdiana, oppure ad Arsémini. Disse, infatti, che gli
dispiaceva di fare un viaggio di ritorno a vuoto. L’oste - proprio come Hiram
aveva previsto - lo indirizzò genericamente al mercato del porto, cioè
esattamente il luogo in cui Hiram poteva incontrare, indisturbato, un altro
complice. Ma Hiram desiderava che la sua spedizione al mercato non apparisse
come una sua iniziativa, bensì come un imprevisto cambio di programma, dietro
consiglio dell’oste. Hiram contava sul fatto che proprio l’oste avrebbe subito
riferito a chi di dovere di quel breve colloquio. Lo salutò sorridendo, complimentandosi con lui per il suo ottimo vino
ed uscì dalla locanda, con un buon motivo innocente per andare al mercato ed incontrarvi chiunque gli paresse,
senza tradirlo...
Nella folla fitta fitta del mercato, non fu facile
seguire i movimenti di Hiram. Askalos, travestito da marinaio, lo perse più
volte di vista, perché l’altro adesso si muoveva più veloce e senza il suo
asino non esisteva più un facile punto di riferimento.
Hiram ebbe così modo di sapere che Mandras era stato
localizzato presso i Bagni di Mittsa; poi, però, era stato nuovamente perso. A
quanto sembrava si stava allontanado da Othoca, forse per raggiungere Kar. Era
abile, Mandras, non solo a far perdere le sue tracce - pensò Hiram - Forse aveva anche capito che
quello sarebbe stato il luogo dello sbarco.
Hiram decise di disporre delle sentinelle sulla
strada di Kar, con l’ordine tassativo di fermare Mandras, ad ogni costo.
Non fu difficile fare ciò: andò a comperare delle
aragoste, che scarseggiavano dalle parti di Serdiana. Mentre camminava a passo
svelto tra le nasse tirate in secca a riparare, estrasse dalla veste un pezzo
di canna, su cui la notte prima aveva già arrotolato un nastro di stoffa di
lino. Scrisse rapidamente solo poche righe, lungo l’asse maggiore della canna.
Infine, srotolò il nastro e sbriciolò in piccoli pezzi la canna.
Passare ad un altra persona - non visto - il nastro
con il messaggio fu semplicissimo: bastò fermarsi un attimo per dire: “Visto
che belle aragoste?” - E il nastro cambiò mano, insieme ad un anello che
indicava la giusta misura per decifrarlo.
Se anche fosse stato intercettato dal nemico, non
gli sarebbe stato possibile comprendere il significato di quelle lettere, apparentemente
sparse a caso per ornamento. Per ricomporre il messaggio era infatti necessario
riavvolgere il nastro intorno ad una canna dell’esatta misura di quella su cui
era stato originariamente scritto... Era un nuovo sistema, detto 'Skytale' dai greci, pessimi marinai, ma grandi militari e congiurati...