la Terra dei Mucchi di Pietre, cap XXI
di Maurizio Feo
21. Presagi.
La colonna di uomini condotta da Hanys e Norax
procedeva ormai lenta, perché le bestie da soma erano cariche di prezioso
metallo e perché tutti erano ancora stanchi per il lavoro del mattino, non
avendo ben recuperato la stanchezza delle marce forzate nel ritorno a Tal-Ur.
Parlavano poco, ciascuno immerso nei propri
pensieri.
Norax sentiva sempre più distintamente gravare su di
sé il peso di una sciagura imminente. Hanys sentiva la responsabilità del
comando; si dispiaceva di non essere già tra i suoi nel nuovo villaggio; si
domandava con che armi sarebbe stato armato il nemico. Avrebbe fatto in tempo a
disporre tutte le appropriate difese? Il cielo era ancora grigio ed opaco e si
scioglieva su di loro in una pioggia fastidiosa ed insistente. Fu così che non
trovarono alcunché di asciutto per accendere il fuoco. Quando fu notte si
fermarono esausti, mangiarono qualcosa al riparo dagli alberi e caddero pesantemente
addormentati sotto il picchiettare continuo delle gocce d’acqua, non fermate,
bensì rese solo più grosse e più rade dalle fronde su di loro.
Norax ebbe un agitatissimo sonno, come già la notte
precedente. Sognò nuovamente grosse navi occhiute, cariche di uomini, irte di
armi e di remi e molto basse sull’acqua per il loro peso. Rivide una grande
battaglia divampare sia per mare, sia per terra.
Ma questa volta non vide Mandras a comandare la
difesa della sua terra. Vide uomini che non conosceva morire in gran numero.
Quindi vide una sconosciuta fortezza assediata aprirsi, e vomitare, all’esterno
delle sue porte robuste, fiumi di uomini in armi.
E anche questa volta si trovò affianco Hanys, che in
tono preoccupato gli diceva: “In fede - mio giovane amico - tu hai il sonno più
agitato che si possa mai avere. Per che cosa puoi temere ormai, circondato
come sei da amici armati, in viaggio come sei su terre fertili ed amiche?”.
Norax non seppe spiegare e balbettando assonnato
qualcosa di incomprensibile in risposta, si rigirò su un fianco - avvolto
nella sua ruvida coperta di lana di capra - e si riaddormentò quasi subito.
Egli aveva udito qualche parola tratta da quegli
incubi oscuri, e tanto gli era bastato per comprendere che non erano semplici
incubi. Gli era anzi sembrato che il ragazzo stesse quasi profetizzando, prevedendo
qualche orribile evento futuro. Sentì un brivido corrergli lungo tutto il
corpo: e subito, inspiegabilmente, gli tornò in mente una passata esperienza
spiacevole che aveva vissuto qualche tempo prima, quando aveva voluto spiare di
nascosto - contro ogni legge - la processione sacra e segreta dei sacerdoti e
degli iniziati...
La massiccia figura nera - ricordò Hanys - un po’ inciampava ed un po’ correva sul
terreno diseguale, cadendo talvolta e forse singhiozzando in una voce
stranamente gutturale. Il suo procedere non era affatto veloce, dato che non
distanziava mai nemmeno di un passo la piccola torma di inseguitori, anch’essi
lenti in modo del tutto snervante. Era quindi uno strano tipo di lentissimo,
inesorabile inseguimento, con una preda designata nera, lenta e goffa ed
apparentemente malsicura sulle gambe, seguita da cacciatori apparentemente
svogliati: essi procedevano insieme in una strana marcia sincrona, fatta di
alcuni passi sgraziati e lenti, zoppicanti e di traverso, seguiti da una serie
di passi identici ai primi, ma più veloci, che comunque non li portavano più
vicini alla loro preda; essi non cercavano di accerchiarla, ma anzi, seguivano
il suo medesimo percorso.
L’effetto di tutto ciò però - Hanys lo ricordava bene - confondeva e metteva a disagio: ai carnefici non sfuggiva un movimento della loro preda, ma non uscivano di un passo dai ranghi; alla vittima sembrava non importare affatto di dover essere sacrificata; i pochi spettatori autorizzati ad assistere alla scena guardavano il tutto con gravi facce di pietra, senza prestare il minimo aiuto, illuminando lo spettacolo con le loro torce. Gli spietati inseguitori, anch’essi figure nere, orribili nei loro costumi di pelli di pecora rivoltate (in evidente segno di morte), portavano maschere di legno annerite col nerofumo, che li rendevano ancora più spaventosi, ma indossavano anche sul capo, a coprirlo, veli femminili, che, pur essendo neri a loro volta, certamente contrastavano con le loro figure tozze e virili.
L’effetto di tutto ciò però - Hanys lo ricordava bene - confondeva e metteva a disagio: ai carnefici non sfuggiva un movimento della loro preda, ma non uscivano di un passo dai ranghi; alla vittima sembrava non importare affatto di dover essere sacrificata; i pochi spettatori autorizzati ad assistere alla scena guardavano il tutto con gravi facce di pietra, senza prestare il minimo aiuto, illuminando lo spettacolo con le loro torce. Gli spietati inseguitori, anch’essi figure nere, orribili nei loro costumi di pelli di pecora rivoltate (in evidente segno di morte), portavano maschere di legno annerite col nerofumo, che li rendevano ancora più spaventosi, ma indossavano anche sul capo, a coprirlo, veli femminili, che, pur essendo neri a loro volta, certamente contrastavano con le loro figure tozze e virili.
Tutta la scena - nera, in simbolo di morte -
sembrava seguire un piano convenuto in anticipo tra inseguitori ed inseguito,
come secondo una recita obbligata, già mille altre volte tenutasi uguale, nelle
stesse immutabili sequenze: si rispettava rigorosamente il silenzio delle voci,
muovendosi tutti insieme secondo quegli sgraziati e zoppicanti mezzi passi di
traverso, in uno spettacolo senza senso, senza tempo, senza scampo: solo
occasionalmente si poteva udire, o forse più propriamente immaginare, il
pesante respiro degli attori, man mano che l’orribile, opprimente ed ambiguo
rito proseguiva, secondo il suo copione antico, ineffabile e solenne.
Ma per la maggior parte del tempo, l’unico suono
- oltre a quello della strana orrida marcia sul terreno - era quello monotono,
intermittente e ritmico, ossessionante, dei numerosi, grossi e pesanti
campanacci che gli inseguitori portavano appesi di traverso sul torace e sulla
schiena: un altro inconfondibile simbolo di lutto imminente. Ogni tanto gli
inseguitori raggiungevano l’inseguito, oppure, secondo quanto stabilito, la
vittima predestinata rallentava o cadeva: allora pungoli e lance venivano
impietosamente conficcati più volte nel suo corpo; un’enorme quantità di
liquido rosso qualche volta sprizzava fuori con violenza da quelle ferite,
spargendosi in abbondanza sul terreno sacro, ma diffondendo tutt’intorno il gradevole
e rassicurante profumo del vino rosso generoso non tagliato.
Altre volte però accadeva che le lame non
tagliavano baldanzosamente attraverso un otre pieno di vino, né si fermavano
per fortuna contro un pezzo protettivo di corteccia: allora un quasi
impercettibile lamento sfuggiva al folle tra le labbra bavose e poteva essere
udito dagli spettatori più vicini; gli occhi angosciati della vittima
brillavano appena di una disperata scintilla, forse nella tardiva coscienza
dell’approssimarsi della morte.
Si sarebbe potuto pensare che i torturatori
mirassero con volontaria cattiveria proprio alle parti del corpo non protette
del loro succubo ormai frenetico, spinto sistematicamente al di là del limite
della pazzia dall’esperienza della lacerazione delle proprie carni. Quindi,
rotolandosi qua e là sul suolo, inarcando il corpo sudato e contorcendosi
tutto, soffiando e rantolando negli ultimi dolorosi spasmi, infine il povero
pazzo riusciva a morire, per giacere una buona volta immobile.
Ed ecco che proprio allora gli occhi degli
astanti, prima freddi ed impietosi, si riempivano finalmente di partecipe ansia
e di smarrimento, luccicavano di lacrime, ed una danza accorata e triste si
chiudeva, lentamente, in cerchio intorno al povero corpo della vittima folle,
doverosamente immolata alla terra.
I torturatori ora piangevano il povero folle
sacro agli dei, che essi avevano appena immolato. Gemendo e lamentandosi, lo
chiamavano Iacco!
Ma il lutto durava soltanto un breve tempo
simbolico.
Il morto riprendeva subito vita , con un
espressione felice e radiosa, si univa a tutti gli altri nella danza:
spogliandosi tutti delle maschere brutte e ridendo contenti nelle loro
sembianze terrene, la danza - sostenuta dai tamburelli, dai flauti e dai
timpani - diveniva trionfante, liberatoria e vitale. Essa sprigionava energia e
sensualità, riusciva a conciliare la pazzia sacra e irresponsabile con la morte misteriosa e
poi di nuovo con la gioia consapevole della vita.
Baki - il dio che si beve e che sa dare da
dentro il calore dell’ebbrezza sacra - era impazzito e morto ancora una volta, lacerato, dilaniato,
ma aveva fecondato come sempre la terra col proprio fertilissimo sangue - che è vino - quindi era risorto, più
forte, a promettere una nuova vita migliore...
Malgrado la precisa e completa spiegazione del rito
(che Hanys aveva saputo strappare, in seguito, ad un giovane sacerdote del
culto), quel macabro spettacolo aveva impresso un persistente e sgradito
marchio nella sua fantasia, per cui la sua memoria vi tornava malvolentieri e
soltanto in momenti di strano ed incomprensibile disagio, proprio come
adesso...
Si scrollò di dosso il torpore della memoria e
guardò di nuovo verso Norax. No, il giovane sacerdote Norax non era certo il Nato
due volte Iacco, né aveva i suoi poteri;
non era certo un Dio... Che cosa c’era, allora? Pensò tra sé che il ragazzo gli
aveva dato per un attimo quello strano, oscuro brivido che sapevano dargli -
più piacevolmente, però - le canzoni ed i gesti di Larthy.
Hanys aveva provato una spiacevole dolorosa fitta
nell’apprendere che era proprio lei la
giovane donna per cui Norax lo stava accompagnando. Ma - nel contempo - si
trovava costretto ad ammettere che in qualche curioso modo, gli sembrava normale
che quei due giovani, così diversi da tutti gli altri si cercassero l’un
l’altra.
Eppure, Hanys molto soffriva all’idea che Larthy
potesse infine decidere di non cantare più alle feste per la sua gente e forse
anche - possibile? - di abbandonarla per sempre. E non per un eroe, che la proteggesse
e la illuminasse con la propria valentia, bensì per un giovane sacerdote, che
aveva funesti incubi notturni di distruzione! Ben altro compagno sarebbe stato
lui - Hanys - ma egli non era mai riuscito ad interessarla con le sue prove di
forza, con i suoi ricchi trofei di caccia, con la sua decisione, con il suo
nome di messaggero divino di tempesta.
Gli sembrava impossibile che fosse così.
Ed invece quel giovane, Norax, aveva qualche cosa, ammetteva tra sé, con riluttanza.
Egli sapeva parlare in modo convincente, dicendo
puntualmente al momento giusto le cose più appropriate. E seppure così giovane,
sapeva farsi ascoltare con rispetto dagli anziani saggi, dagli eroi del mare,
da Larthy e perfino da lui, Hanys.
Sì, quel ragazzo aveva qualcosa di più di lui e di
singolare.
Hanys non lo avrebbe confessato a nessuno, ma
soffriva.
Hanys avrebbe facilmente potuto correre più veloce,
certamente cavalcare più a lungo, cacciare con maggior profitto, mietere più
grano, cantare più forte, uccidere più nemici in battaglia. E chissà quanto
altro.
Ma Norax avrebbe avuto Larthy, perché in qualche
oscuro modo, che Hanys non riusciva interamente a comprendere, egli la meritava
e la voleva più di chiunque altro. Più di Hanys, che non lo avrebbe mai ammesso
in pubblico, ma che dolorosamente lo accettava, tra sé.
In quel momento, come ad interrompere il corso di
quei pensieri, Norax si agitò nel sonno e si scoprì: Hanys vide brillargli sul
petto il coltello sacro, e ciò gli fece tornare in mente gli ammirati commenti
di Iolao e di Mandras circa la sua abilità nel maneggiarlo.
Allungò lentamente una mano verso di lui.
Esitò un attimo, nel vedere la propria mano ferma,
illuminata da un sottile raggio lunare, sospesa sul petto di Norax, ignaro ed
indifeso.
Quindi, delicatamente, con un gesto quasi paterno -
che non si addiceva certo al suo ruolo, nè tantomeno al suo nome - ricompose la
rozza coperta sul ragazzo addormentato e si coprì a sua volta, per cercare un
improbabile ristoro in qualche ora di sonno... Quel che è disposto in cielo, convien che sia...
L’indomani mattina, quando Hanys si svegliò, vide
che Norax stava già pregando da tempo: egli teneva la mano un poco sollevata,
all’altezza del petto, con il palmo rivolto davanti a sé - il viso che
guardava verso il sole nascente.
Norax era pallido, gli occhi semichiusi, l’aspetto
sofferente, assente. Hanys non lo disturbò, ed anzi volle unirsi al Pregante perché i voti avessero più forza e volassero sicuri
come tranquillo veleggia l’Arak, quando cerca la preda
destinata.
Anche gli altri uomini che erano già svegli e quelli
che si andavano mano a mano destando, furono tutti egualmente catturati
dall’obbligo antico della preghiera ed interruppero ognuno le proprie attività.
Presto lo spiazzo del campo fu irto di braccia semi sollevate e uomini in
piedi, con palmi di mano accesi dal sole, ed i volti degli uomini erano
concentrati, assorti, nella silenziosa preghiera collettiva.
Di fatto, il gruppo riconosceva così come guida
spirituale del viaggio il giovane Norax, l’allievo migliore del Grande Sacerdote,
Lygmon di Tal-Ur.
Risuonarono infine per il campo le parole, dapprima
esitanti, ma poi sempre più chiare: “Grande Madre Ennin! Ho conosciuto quale
moneta sia stata stabilita. Tremando, ho visto come, al termine di questa
luna, si é cominciato a pagare il prezzo, da parte dei tuoi figli. Non conosco
la misura finale fissata, o Grande Madre, ma ti chiedo, a nome dei miei
fratelli, tuoi figli, che esso non sia esoso, quando il pagamento sarà
completo, alla fine della prossima luna. Da parte nostra, noi ci obblighiamo a
portare abbondante il melograno agli altari, quando saremo nella nuova città.
Porremo a fianco il pane, stampato con il simbolo del Sole, correttamente
rivolto verso l’alto, per non recare offesa. Ci impegniamo ad adornare l’altare
con l’alloro del Sole. Daremo il primo di ogni frutto a Te, Grande Madre, il
primo alla terra, come è giusto, come fecero i nostri padri prima di
noi. Ma io Ti chiedo, a nome dei fratelli, che il prezzo non sia esoso, quando
la misura sarà colma, alla fine della prossima luna. Che non debba essere
troppo abbondante sugli altari il melograno dal triste sorriso che non si spegne
mai, simbolo dei nostri cari che non sono più con noi. Areremo laboriosi la
terra nuova e profonda, annerite fumeranno le fornaci indaffarate e grande
costruiremo - e in alto - il triplice altare, nascosto alla vista degli uomini:
lunga sarà la scala, per portarlo vicino al cielo. Scolpiremo le alte pietre
della fertilità ed innalzeremo un nuovo e maestoso Nurake. Ma io Ti chiedo, a nome dei
fratelli, tuoi figli, che il prezzo non sia alto, quando la misura sarà colma,
alla fine della prossima luna”.
Così pregò Norax, e tutti ne furono molto
impressionati - non ultimo egli stesso, nell’assumersi per la prima volta un
ruolo che fino a quel punto era sempre stato del suo Maestro.
Ciò che egli aveva profetizzato gli era curiosamente
chiaro e certo.
Era un dono del cielo, come il pensiero ed il
sorriso.
Come fosse giunto a quella certezza egli, per primo,
lo ignorava.
Era un dono del cielo, come la nascita e la morte e
tutto ciò che tra esse ci accade...
Il viaggio fu reso lungo e faticoso dal peggiorare
del tempo - ormai Autm faceva rosseggiare e cadere le foglie - e obbligatoriamente
fu più lento il laborioso trasporto. Ma fu anche un viaggio inquietante per lo
stato quasi allucinato - febbricitante forse - in cui era costretto Norax.
Continue visioni - non più solo notturne - lo
tormentavano.
La preghiera che recitava ed i riti che officiava
di giorno non riuscivano più a ridargli la serenità perduta.
Le promesse che formulava per legare più
strettamente la propria dignità alla benevolenza divina non sembravano appagare
né lui, né la Dea.
Norax mangiava poco, dormiva poco e non parlava
quasi più, se non per pregare. Hanys - che a suo tempo aveva mandato messaggeri
a Lauchme per riferirgli prontamente della profezia di Norax - stava meditando
ormai di mandarne altri per riferirgli del suo preoccupante stato di salute.
Nel terzo giorno di viaggio incontrarono due
cavalieri, che - vestiti secondo la foggia Shardana - venivano loro incontro provenendo
da Kar. Hanys si fece subito riconoscere con le parole convenute a suo tempo
con Mandras, e chiese loro se si fossero avverate le temute novità. Dopo
qualche insistenza, finalmente la loro riluttanza fu vinta, ma essi dissero
soltanto: “Da due giorni siamo in viaggio e non abbiamo novità, se non che
tutto é ormai pronto; nulla può vedere chi non deve sapere, che comunque é già
stato riconosciuto da chi ci manda”.
Hanys sorrise, in parte perché sollevato dalle
buone notizie, in parte divertito nel riconoscere in quella risposta, pur cauta
e contorta, lo stile regalmente verboso del Grande Mandras.
Il messaggio significava che tutto procedeva senza
ostacoli e secondo quanto programmato. Le difese convenute erano già state
approntate in tutto segreto: gli appostamenti erano invisibili dal mare, le
navi nascoste alla vista, in qualche vicina caletta.
Le sentinelle erano camuffate da pastori, da
perdigiorno, da mendicanti.
Qualunque spia sarebbe stata fuorviata.
Alcuni informatori di Cartagine erano stati
riconosciuti e abilmente ingannati; altri erano stati catturati, se ciò si
poteva fare senza destare sospetti.
Hanys pregò i messaggeri di inoltrare a Tal-Ur anche
le notizie - che affidò loro - sullo stato di Norax, in modo da potere risparmiare
due dei propri uomini.
Essi in tutta risposta dissero che accettavano di
buon grado il nuovo compito, ma che lo avrebbero assolto soltanto dopo avere
portato a termine la loro missione principale, che non li destinava a Tal-Ur.
Hanys non fu molto soddisfatto di ciò, ma non poté
far altro che rispettare le loro più che buone ragioni. Essendo avvezzo al
comando e all’organizzazione logistica - subito pensò ad una diversa possibile
soluzione: probabilmente i due Shardana avrebbero incontrato i due messaggeri
che Hanys stesso aveva spedito in precedenza, e che ormai dovevano essere
liberi sulla strada del ritorno. Se così fosse successo, il nuovo messaggio
avrebbe potuto essere, a mezzo loro, trasmesso senza alcun ritardo, e
prestissimo avrebbe avuto risposta.
Aveva fretta, Hanys: intendeva chiedere istruzioni
su come curare Norax, il cui stato di salute cominciava a preoccuparlo
davvero.
Non fu quello il messaggio che infine egli affidò
ai due Shardana, perché Norax intervenne con autorevolezza.
Pallido, malfermo, ma con una vibrante certezza
nella voce, Norax disse loro, in tono a metà fra l’ordine perentorio ed un
consiglio confidenziale: “Se appartenete al Popolo del Mare voi sapete -
fratelli - quanti uomini possono in un solo giorno traversare il mare. E
quanto rapidamente una città diventare cenere, per mano loro. Ricordate come é
stato conosciuto il nome degli Hyksos in tutto il Grande Mare e come é stato
temuto dal popolo che costruisce le sue tombe reali con la punta verso il cielo. In
nome degli Hyksos, io vi dico che dietro di voi altri messaggeri Shardana sono
partiti per chiedere rinforzi, ma giungeranno tardi.
Perché la notte stessa della vostra partenza
KarKar é stata attaccata, ma si é difesa
bene sotto la guida attenta del Grande Mandras che vi manda. Altri attacchi
subirà, molto soffrendo, ma non soccomberà, se avrà i rinforzi che chiede.
Questo é dunque il messaggio che voi dovete portare
alle città sul mare di Tarr e di Kur e che Mandras ha inviato inutilmente -
con altri messaggeri - alle vostre spalle...
Ma vi é un altro importante messaggio che io stesso
vi affido e di cui il Grande Lauchme di Tal-Ur é il destinatario.
Io so che fra tre, forse quattro giorni, sarà
attaccata da molte navi una città sul mare, che giace sotto una rupe su cui é costruita
una grande fortezza. Io non ho mai visto prima quei posti con i miei occhi, per
cui penso che si tratti forse di Orwa e della fortezza di Capo delle Acque. Ma
il Grande Sacerdote di Tal-Ur saprà di certo indovinare quale città sul mare
quella sia, e le invierà subito l’aiuto necessario, perché minaccioso incombe
sempre più su di essa il pericolo. Se porterete veloci questo messaggio, il
vostro merito sarà grande e forse finalmente torneranno tranquilli i miei
sonni...
L’alta Kur dai due porti - cui voi siete, io lo
so, segretamente diretti - non soffrirà di
un vostro breve ritardo, poiché essa é tranquilla nella propria forza e
incrollabile nella propria fede. Essa non sarà presa da Cartagine in questa
guerra, bensì cadrà in un’altra, molto
più tardi, di fronte ad un popolo più forte che le cambierà il bel nome. La
chiameranno - io vi dico - con il nome straniero di una conchiglia che risuona, se vi si soffia dentro. Ma questo non può
riguardarci, adesso”.
Le parole di Norax impressionarono molto i due
messaggeri Shardana, non solo per il contenuto di esse, circa gli avvenimenti
accaduti, ma anche per le profezie sui fatti futuri e soprattutto perché Norax
aveva dato lucida prova di conoscere con precisione la loro più segreta
destinazione, avvalorando così la credibilità di tutto il resto della propria
divinazione, per quanto oscuro, strano, allarmante ne fosse il significato...
Impressionato fu anche Hanys, che inoltre poté
constatare come - proprio dopo questo incontro - cessarono del tutto gli incubi
di Norax ed il suo strano comportamento...
Molto prima che giungessero in vista del nuovo
villaggio della tribù di Hanys, furono in grado di indovinarne la tanto anticipata
presenza. Colonne di fumo variegate salivano pigramente nel cielo. Alcune
originavano dai mucchi di rami e tronchi tagliati che bruciavano lentamente e
incompletamente, coperti da uno strato di terra - per trasformarsi in carbone
prezioso.
Altre colonne di fumo invece si sprigionavano dalle
familiari sagome delle fornaci. Grandi, nuove, efficienti fornaci stavano
infatti a guardarli raggruppate, tutte orientate insieme verso il vento.
In alcune di esse si procedeva a fondere il bronzo,
ma questa volta non in forma di ricordi votivi o di zappe o di gingilli, bensì
di spade. In altre ancora poi - secondo l’insegnamento preciso di Lauchme -
stava fondendo il ferro, nelle più minacciose forme di guerra. Gli uomini che
lavoravano intorno ai forni ed alle carbonaie erano sudati, sporchi, seminudi
malgrado la già pungente temperatura della stagione.
Lavoravano in turni brevi, eppure alcuni si
ammalavano egualmente, in quelle disumane condizioni di estrema eserzione, con
una parte del corpo troppo calda e sudata e l’altra livida per il freddo. Una
brutta tosse li scuoteva e la febbre li consumava. Per alcuni era la morte in
pochi giorni.
Mucchi di armi giacevano raccolte per tipo: punte
di lancia, di freccia, pugnali, spade, asce semplici e labrys bipenni: sarebbero state affidate ai carpentieri per
finirle. Le fornaci - nere e ruggenti - avevano tutte la grande bocca rivolta
famelica al vento, in modo che la fiamma bruciasse più viva e vorace. Erano in
fasi diverse di preparazione: alcune bruciavano forte, da altre si stavano
estraendo i crogioli incandescenti per travasarne il contenuto fuso negli stampi,
dai quali già si scioglieva la cera. Altrove gli stampi venivano rotti, oppure
- a seconda - aperti nelle due valve. La forma ruvida e bruna che ne usciva
veniva subito riscaldata ad un fuoco più piccolo, corretta e martellata, per
darle più robustezza o più equilibrio o più armonia, a seconda del tipo di
oggetto. In seguito sarebbe stato reso più liscio e lucente, rifinito secondo
le esigenze con cuoio o con legno...
In alto, molto più in alto sul monte, vicino al cielo,
stava nascendo la grande fortezza che avrebbe difeso la città di Solki, posata
sorniona - al di là di un piccolo braccio d’acqua - sul mare azzurro. La bella
città si specchiava sull’acqua, volgendo quasi indifferente le spalle al
vitale mare aperto, e stava adagiata sulla sua piccola isola sorridendo
intrigante alla laboriosa terra prediletta del sole.
Norax abbracciò con lo sguardo tutto questo al suo
arrivo in quella nuova terra.
Procedeva lentamente, tra diversi gruppi
indaffarati, ognuno aveva il suo compito; chi portava nuovo metallo; chi
ripuliva gli stampi di pietra; chi ne scolpiva altri; chi portava nuovo
combustibile; chi ne curava la disposizione e l’accensione nei forni. Era una
vista nuova e sconvolgente: uomini prima buoni e semplici, che avevano aperto
le porte dell’Orco e scavato senza rispetto nelle viscere della terra. Avevano
oscurato il cielo con il fumo dei loro empi fuochi - perché empio era il motivo
finale di tutto questo, seppure necessario - ed erano essi stessi anneriti come
creature uscite dal fuoco. Qart-Hadasht anche di questo era responsabile, anche
per questo avrebbe dovuto pagare.
Aveva trasformato i miti pastori e contadini in
crudeli guerrieri.
I cacciatori ed i pescatori dovevano rivolgersi
verso prede umane, o diventare a loro volta ineluttabilmente prede prigioniere.
Questa - non solo le lacrime ed il sangue - era la moneta con cui si sarebbe
pagato un prezzo ancora ignoto. Ognuno
avrebbe dato qualcosa, ognuno avrebbe ricevuto qualcosa. Che cosa avrebbe ricevuto,
in cambio della propria vita?
Immerso in queste considerazioni era Norax, quando -
d’un tratto - vide corrergli incontro una figuretta esile di donna che, ancora
troppo lontana per distinguerla con gli occhi - egli subito riconobbe con il
cuore: era Larthy. Spronando la propria bestia, allora, si staccò d’improvviso
dal gruppo e percorse l’ultimo tratto correndo a piedi, sulla strada per la
nuova città, mentre la piastra di rame gli rimbalzava sul petto mandando i suoi
esultanti bagliori rossastri.
Hanys li guardò appena di lontano, mentre si
abbracciavano e si carezzavano il viso ed i capelli: da lontano immaginò i loro
occhi sorridenti e lucidi, le loro labbra, le parole, i corpi avvinghiati. Ed
il resto.
Quindi si voltò e in tono asciutto diede
disposizione ai propri uomini di scaricare il prezioso materiale portato dalla
Fontana Raminosa, di accudire le bestie, di approntare gli alloggiamenti. Il
suo occhio era fiero ed il suo braccio era forte; la voce dettava ordini secchi
e precisi, che nessuno avrebbe osato disattendere.
Nessun artigiano vasaio, per quanto bravo, avrebbe
saputo ricomporre quel che Hanys ora sentiva spezzarglisi nel petto: neppure
tutte le arti del dio vasaio Khnum avrebbero potuto ricomporre quei frammenti. Un dolore è
piccolo se permette il pianto, mentre i dolori grandi sono muti...
Dopo l’ultima fatica, concesse un poco di riposo
agli uomini e si occupò subito, furiosamente, dei preparativi per la necessaria
partenza per Kar...
____
Fallito? Avevano fallito lo sbarco a Kar!
Quell’incapace di Meleck! Hiram non
riusciva a capacitarsi. Ma Milkisapa e Baal Shamin erano lì a confermarglielo: era proprio successo così...
Hiram si agitava come una belva in gabbia. Sapere
che nel Senato di Qart-Hadasht la sua opinione sarebbe stata tenuta in maggiore
considerazione, da quel giorno in poi, non gli dava nessun sollievo... Pensare
alla soddisfazione che gli avrebbe dato l’avere tra le mani il collo di Meleck
era tempo perso. E lui non poteva perdere tempo. Tra l’altro, a quanto
sembrava, gli avevano già fatto il
favore di toglierlo di mezzo, l’infame imbecille!
Doveva pensare in fretta. Presto, lì intorno ci sarebbero stati il ferro ed
il fuoco: doveva andarsene il prima possibile e rendersi del tutto
irreperibile.
Diede disposizioni ai due messaggeri: “Fate in modo
che la distruzione sia la più grande possibile. Bruciate i boschi, bruciate i
campi. Bruciate le case. Fate fuggire il più alto numero di persone. Dividetevi
in gruppi. Spargetevi sulla zona più vasta che potete. Soprattutto, dovete fare
in modo che Mandras non esca vivo da Kar. Se possibile, non fatevi prendere, né
riconoscere: così potrete restare qui e servire ancora Qart-Hadasht, che saprà
premiarvi. Io devo partire, perché ormai conoscono il mio ruolo e mi
ucciderebbero, se mi trovassero qui quando i disordini saranno sedati. Vi
manderò Elibaal ad organizzarvi, al posto mio”.
I due annuirono e si allontanarono subito nel
buio...
Hiram prese la sua piccola Frine, la mise su di un
carro, e con lei partì subito, sulla strada per Othoca, allontanandosi da quel
cielo in fiamme. Sarebbero sembrati profughi dell’invasione - pensò - a meno di incontrare qualcuno
dei guardiani che conoscevano il suo volto.
Era rischioso, ma egli doveva rischiare, se voleva salvare ancora qualcosa, in
quel disastro.
Andare alle città più vicine - Nure, Bithia e Solky
- non era possibile. Tutti temevano certamente che anche lì vi sarebbe stato
uno sbarco e nessuno può volere andare a cacciarsi nello stesso inferno da cui
sta fuggendo. Pertanto, nessun profugo vi si sarebbe recato e la strada sarebbe
rimasta deserta. Sicuramente, poi,
la strada e le città erano già puntigliosamente pattugliate dalla Guardia
Shardana in allarme... In più, Solky era difesa da ingenti truppe shardana e
pellite di stanza nella nuova fortezza voluta da quel giovane pellita, Norax.
Hiram si rammaricò molto tra sé di essere stato
così male e tardivamente informato circa la pericolosità dei suoi antagonisti...
Tar e Kur erano troppo lontane e troppo fedeli alla
causa shardana anche solo per infiltrarvi delle spie: non erano posti sicuri
per lui. Tibulat e Orwa erano
assolutamente irragiungibili, via terra. Restavano soltanto Othoca e Nabui...
In una di quelle due città Hiram avrebbe potuto nascondersi presso amici per il
tempo necessario a preparare la sua fuga per nave...
Mentre il carro procedeva - molto più lento di come
Hiram avrebbe voluto - egli aveva il tempo di fare il punto della situazione:
Lauchme si sarebbe dovuto confrontare con difficoltà impreviste, che lo
avrebbero distolto, forse anche a lungo, dalla lotta. La distruzione intorno a
Kar avrebbe richiesto una lunga ed impegnativa ricostruzione. Lo sbarco di Orwa
era ancora tutto da giocarsi. E questo significava che non tutto era ancora
perduto. Certo, non era la vittoria brillante che Hiram aveva desiderato e per
cui aveva tanto faticosamente lavorato, ma non era ancora una sconfitta totale
e definitiva. Hiram aveva bruciato quasi tutte le sue fortune economiche
personali e fortemente intaccato il patrimonio di famiglia. Non inutilmente: aveva
ancora molte e valide risorse e nutriva qualche speranza.