sabato 11 gennaio 2014

CAPITOLO XXI

la Terra dei Mucchi di Pietre, cap XXI
di Maurizio Feo



21. Presagi.


La colonna di uomini condotta da Hanys e Norax procedeva ormai lenta, perché le bestie da soma erano cariche di prezioso metallo e perché tutti erano ancora stanchi per il lavoro del mattino, non avendo ben recuperato la stanchezza delle marce forzate nel ritorno a Tal-Ur.
Parlavano poco, ciascuno immerso nei propri pensieri.
Norax sentiva sempre più distintamente gravare su di sé il peso di una sciagura imminente. Hanys sentiva la responsabilità del comando; si dispiaceva di non essere già tra i suoi nel nuovo villaggio; si domandava con che armi sarebbe stato armato il nemico. Avrebbe fatto in tempo a disporre tutte le appropriate difese? Il cielo era ancora grigio ed opaco e si scioglieva su di loro in una pioggia fastidiosa ed insistente. Fu così che non trovarono alcunché di asciutto per accendere il fuoco. Quando fu notte si fermarono esausti, mangiarono qualcosa al riparo dagli alberi e caddero pe­santemente addormentati sotto il picchiettare continuo delle gocce d’acqua, non fermate, bensì rese solo più grosse e più rade dalle fronde su di loro.
Norax ebbe un agitatissimo sonno, come già la notte precedente. Sognò nuovamente grosse navi occhiute, cariche di uomini, irte di armi e di remi e molto basse sull’acqua per il loro peso. Rivide una grande battaglia divampare sia per mare, sia per terra.
Ma questa volta non vide Mandras a comandare la difesa della sua terra. Vide uomini che non conosceva morire in gran numero. Quindi vide una sconosciuta fortezza assediata aprirsi, e vomitare, all’esterno delle sue porte robuste, fiumi di uomini in armi.
Infine si svegliò, ter­rorizzato, bagnato, gli occhi sbarrati nel buio. Tremava.
E anche questa volta si trovò affianco Hanys, che in tono preoccupato gli diceva: “In fede - mio giovane amico - tu hai il sonno più agitato che si possa mai avere. Per che co­sa puoi temere ormai, circondato come sei da amici arma­ti, in viaggio come sei su terre fertili ed amiche?”.
Norax non seppe spiegare e balbettando assonnato qualcosa di incomprensibile in risposta, si rigirò su un fianco - avvol­to nella sua ruvida coperta di lana di capra - e si riaddor­mentò quasi subito.
Hanys invece restò perplesso a guar­darlo, nel buio.
Egli aveva udito qualche parola tratta da quegli incubi oscuri, e tanto gli era bastato per comprendere che non erano semplici incubi. Gli era anzi sembrato che il ragazzo stesse quasi profetizzando, preve­dendo qualche orribile evento futuro. Sentì un brivido corrergli lungo tutto il corpo: e subito, inspiegabilmente, gli tornò in mente una passata esperienza spiacevole che aveva vissuto qualche tempo prima, quando aveva voluto spiare di nascosto - contro ogni legge - la processione sacra e segreta dei sacerdoti e degli iniziati...




La massiccia figura nera - ricordò Hanys -  un po’ inciampava ed un po’ correva sul terreno diseguale, cadendo talvolta e forse singhiozzando in una voce stranamente gutturale. Il suo procedere non era affatto veloce, dato che non distanziava mai nemmeno di un passo la piccola torma di inseguitori, anch’essi lenti in modo del tutto snervante. Era quindi uno strano tipo di lentissimo, inesorabile inseguimento, con una preda designata nera, lenta e goffa ed apparentemente malsicura sulle gambe, seguita da cacciatori apparentemente svogliati: essi procedevano insieme in una strana marcia sincrona, fatta di alcuni passi sgraziati e lenti, zoppicanti e di traverso, seguiti da una serie di passi identici ai primi, ma più veloci, che comunque non li portavano più vicini alla loro preda; essi non cercavano di accerchiarla, ma anzi, seguivano il suo medesimo percorso. 

L’effetto di tutto ciò però - Hanys lo ricordava bene - confondeva e metteva a disagio: ai carnefici non sfuggiva un movimento della loro preda, ma non uscivano di un passo dai ranghi; alla vittima sembrava non importare affatto di dover essere sacrificata; i pochi spettatori autorizzati ad assistere alla scena guardavano il tutto con gravi facce di pietra, senza prestare il minimo aiuto, illuminando lo spettacolo con le loro torce. Gli spietati inseguitori, anch’essi figure nere, orribili nei loro costumi di pelli di pecora rivoltate (in evidente segno di morte), portavano maschere di legno annerite col nerofumo, che li rendevano ancora più spaventosi, ma indossavano anche sul capo, a coprirlo, veli femminili, che, pur essendo neri a loro volta, certamente contrastavano con le loro figure tozze e virili.
Tutta la scena - nera, in simbolo di morte - sembrava seguire un piano convenuto in anticipo tra inseguitori ed inseguito, come secondo una recita obbligata, già mille altre volte tenutasi uguale, nelle stesse immutabili sequenze: si rispettava rigorosamente il silenzio delle voci, muovendosi tutti insieme secondo quegli sgraziati e zoppicanti mezzi passi di traverso, in uno spettacolo senza senso, senza tempo, senza scampo: solo occasionalmente si poteva udire, o forse più propriamente immaginare, il pesante respiro degli attori, man mano che l’orribile, opprimente ed ambiguo rito proseguiva, secondo il suo copione antico, ineffabile e solenne.




Ma per la maggior parte del tempo, l’unico suono - oltre a quello della strana orrida marcia sul terreno - era quello monotono, intermittente e ritmico, ossessionante, dei numerosi, grossi e pesanti campanacci che gli inseguitori portavano appesi di traverso sul torace e sulla schiena: un altro inconfondibile simbolo di lutto imminente. Ogni tanto gli inseguitori raggiungevano l’inseguito, oppure, secondo quanto stabilito, la vittima predestinata rallentava o cadeva: allora pungoli e lance venivano impietosamente conficcati più volte nel suo corpo; un’enorme quantità di liquido rosso qualche volta sprizzava fuori con violenza da quelle ferite, spargendosi in abbondanza sul terreno sacro, ma diffondendo tutt’intorno il gradevole e rassicurante profumo del vino rosso generoso non tagliato.
Altre volte però accadeva che le lame non tagliavano baldanzosamente attraverso un otre pieno di vino, né si fermavano per fortuna contro un pezzo protettivo di corteccia: allora un quasi impercettibile lamento sfuggiva al folle tra le labbra bavose e poteva essere udito dagli spettatori più vicini; gli occhi angosciati della vittima brillavano appena di una disperata scintilla, forse nella tardiva coscienza dell’approssimarsi della morte.
Si sarebbe potuto pensare che i torturatori mirassero con volontaria cattiveria proprio alle parti del corpo non protette del loro succubo ormai frenetico, spinto sistematicamente al di là del limite della pazzia dall’esperienza della lacerazione delle proprie carni. Quindi, rotolandosi qua e là sul suolo, inarcando il corpo sudato e contorcendosi tutto, soffiando e rantolando negli ultimi dolorosi spasmi, infine il povero pazzo riusciva a morire, per giacere una buona volta immobile.
Ed ecco che proprio allora gli occhi degli astanti, prima freddi ed impietosi, si riempivano finalmente di partecipe ansia e di smarrimento, luccicavano di lacrime, ed una danza accorata e triste si chiudeva, lentamente, in cerchio intorno al povero corpo della vittima folle, doverosamente immolata alla terra.
I torturatori ora piangevano il povero folle sacro agli dei, che essi avevano appena immolato. Gemendo e lamentandosi, lo chiamavano Iacco!
Ma il lutto durava soltanto un breve tempo simbolico.
Il morto riprendeva subito vita , con un espressione felice e radiosa, si univa a tutti gli altri nella danza: spogliandosi tutti delle maschere brutte e ridendo contenti nelle loro sembianze terrene, la danza - sostenuta dai tamburelli, dai flauti e dai timpani - diveniva trionfante, liberatoria e vitale. Essa sprigionava energia e sensualità, riusciva a conciliare la pazzia sacra e irresponsabile con la morte misteriosa e poi di nuovo con la gioia consapevole della vita.



Baki - il dio che si beve e che sa dare da dentro il calore dell’ebbrezza sacra - era impazzito e morto ancora una volta, lacerato, dilaniato, ma aveva fecondato come sempre la terra col proprio fertilissimo sangue - che è vino -  quindi era risorto, più forte, a promettere una nuova vita migliore...

Malgrado la precisa e completa spiegazione del rito (che Hanys aveva saputo strappare, in seguito, ad un giovane sacerdote del culto), quel macabro spettacolo aveva impresso un persistente e sgradito marchio nella sua fantasia, per cui la sua memoria vi tornava malvolentieri e soltanto in momenti di strano ed incomprensibile disagio, proprio come adesso...
Si scrollò di dosso il torpore della memoria e guardò di nuovo verso Norax. No, il giovane sacerdote Norax non era certo il Nato due volte Iacco, né aveva i suoi poteri; non era certo un Dio... Che cosa c’era, allora? Pensò tra sé che il ragazzo gli aveva dato per un attimo quello strano, oscuro brivido che sapevano dargli - più piacevolmente, però - le can­zoni ed i gesti di Larthy.
Eh, sì, Larthy...
Hanys aveva provato una spiacevole dolorosa fitta nell’apprendere che era proprio lei la giovane donna per cui Norax lo stava accompagnando. Ma - nel contempo - si trovava costretto ad ammettere che in qualche curioso modo, gli sembrava normale che quei due giovani, così diversi da tutti gli altri si cercassero l’un l’altra.
Eppure, Hanys molto soffriva all’idea che Larthy potesse infine decidere di non cantare più alle feste per la sua gente e forse anche - possibile? - di abbandonarla per sempre. E non per un eroe, che la pro­teggesse e la illuminasse con la propria valentia, bensì per un giovane sacerdote, che aveva funesti incubi notturni di distruzione! Ben altro compagno sarebbe stato lui - Hanys - ma egli non era mai riuscito ad interessarla con le sue prove di forza, con i suoi ricchi trofei di caccia, con la sua decisione, con il suo nome di messaggero divino di tem­pesta.  Gli sembrava impossibile che fosse così.
Ed invece quel giovane, Norax, aveva qualche cosa, ammetteva tra sé, con riluttanza.
Egli sapeva parlare in modo convincente, dicendo puntualmente al momento giusto le cose più appropriate. E seppure così giovane, sa­peva farsi ascoltare con rispetto dagli anziani saggi, dagli eroi del mare, da Larthy e perfino da lui, Hanys.
Sì, quel ragazzo aveva qualcosa di più di lui e di singolare.
Hanys non lo avrebbe confessato a nessuno, ma soffriva.
Hanys avrebbe facilmente potuto correre più veloce, certamente cavalcare più a lungo, cacciare con maggior profitto, mietere più grano, cantare più forte, uc­cidere più nemici in battaglia. E chissà quanto altro.
Ma Norax avrebbe avuto Larthy, perché in qualche oscuro modo, che Hanys non riusciva interamente a comprendere, egli la meritava e la voleva più di chiunque altro. Più di Hanys, che non lo avrebbe mai ammesso in pubblico, ma che dolorosamente lo accettava, tra sé.
In quel mo­mento, come ad interrompere il corso di quei pensieri, Norax si agitò nel sonno e si scoprì: Hanys vide brillargli sul petto il coltello sacro, e ciò gli fece tornare in mente gli ammirati commenti di Iolao e di Mandras circa la sua abilità nel maneggiarlo.
Si, quel ragazzo aveva qualcosa di più - decise Hanys - che non era concesso ad altri.
Allungò lentamente una mano verso di lui.
Esitò un attimo, nel vedere la propria mano ferma, illuminata da un sottile raggio lunare, sospesa sul petto di Norax, ignaro ed indifeso. 
Quindi, delicatamente, con un gesto quasi paterno - che non si addiceva certo al suo ruolo, nè tantomeno al suo nome - ricompose la rozza coperta sul ragazzo addormentato e si coprì a sua volta, per cerca­re un improbabile ristoro in qualche ora di sonno...  Quel che è disposto in cielo, convien che sia...
L’in­domani mattina, quando Hanys si svegliò, vide che Norax stava già pregando da tempo: egli teneva la mano un poco sollevata, all’altezza del petto, con il palmo rivolto da­vanti a sé - il viso che guardava verso il sole nascente.
Norax era pallido, gli occhi semichiusi, l’aspetto sofferente, assente. Hanys non lo disturbò, ed anzi volle unirsi al Pregante perché i voti avessero più forza e volassero sicuri come tranquillo veleggia l’Arak, quando cerca la preda destinata.
Anche gli altri uomini che erano già svegli e quelli che si andavano mano a mano destando, furono tutti egualmente catturati dall’obbligo antico della preghiera ed interruppero ognuno le proprie attività. Presto lo spiazzo del campo fu irto di braccia semi sollevate e uomini in piedi, con palmi di mano accesi dal sole, ed i volti degli uomini erano concentrati, assorti, nella silen­ziosa preghiera collettiva.
Di fatto, il gruppo riconosceva così come guida spirituale del viaggio il giovane Norax, l’allievo migliore del Grande Sacerdote, Lygmon di Tal-Ur.
Risuonarono infine per il campo le parole, dapprima esitanti, ma poi sempre più chiare: “Grande Madre Ennin! Ho conosciuto quale mone­ta sia stata stabilita. Tremando, ho visto come, al termine di questa luna, si é cominciato a pagare il prezzo, da parte dei tuoi figli. Non conosco la misura finale fissata, o Grande Madre, ma ti chiedo, a nome dei miei fratelli, tuoi figli, che esso non sia esoso, quando il pagamento sarà completo, alla fine della prossima luna. Da parte nostra, noi ci obblighiamo a portare abbondante il melograno agli altari, quando saremo nella nuova città. Porremo a fianco il pane, stampato con il simbolo del Sole, correttamente rivolto verso l’alto, per non recare offesa. Ci impegniamo ad adornare l’altare con l’alloro del Sole. Daremo il primo di ogni frutto a Te, Grande Madre, il primo alla terra, come è giusto, come fecero i nostri padri prima di noi. Ma io Ti chiedo, a nome dei fratelli, che il prezzo non sia esoso, quando la misura sarà colma, alla fine della prossi­ma luna. Che non debba essere troppo abbondante sugli altari il melograno dal triste sorriso che non si spegne mai, simbolo dei nostri cari che non sono più con noi. Areremo laboriosi la terra nuova e profonda, annerite fumeranno le fornaci in­daffarate e grande costruiremo - e in alto - il triplice altare, nascosto alla vista degli uomini: lunga sarà la scala, per portarlo vicino al cielo. Scolpiremo le alte pietre della fertilità ed innalzeremo un nuovo e maestoso Nurake. Ma io Ti chie­do, a nome dei fratelli, tuoi figli, che il prezzo non sia alto, quando la misura sarà colma, alla fine della prossima lu­na”.
Così pregò Norax, e tutti ne furono molto impressionati - non ultimo egli stesso, nell’assumersi per la prima volta un ruolo che fino a quel punto era sempre stato del suo Maestro.
Ciò che egli aveva profetizzato gli era curiosamente chiaro e certo.
Era un dono del cielo, come il pensiero ed il sorriso.
Come fosse giunto a quella certezza egli, per primo, lo ignorava.
Era un dono del cielo, come la nascita e la morte e tutto ciò che tra esse ci accade...
Il viaggio fu reso lungo e faticoso dal peggiorare del tempo - ormai Autm faceva rosseggiare e cadere le foglie - e ob­bligatoriamente fu più lento il laborioso trasporto. Ma fu anche un viaggio inquietante per lo stato quasi allucinato - febbricitante forse - in cui era costretto Norax.
Continue visioni - non più solo notturne - lo tormentavano.
La pre­ghiera che recitava ed i riti che officiava di giorno non riu­scivano più a ridargli la serenità perduta.
Le promesse che formulava per legare più strettamente la propria dignità alla benevolenza divina non sembravano appagare né lui, né la Dea.
Norax mangiava poco, dormiva poco e non parlava quasi più, se non per pregare. Hanys - che a suo tempo aveva mandato messaggeri a Lauchme per riferirgli prontamente della profezia di Norax - stava meditando ormai di mandarne altri per riferirgli del suo preoccupante stato di salute.
Nel terzo giorno di viaggio incontrarono due cavalieri, che - vestiti secondo la foggia Shardana - venivano loro incontro provenendo da Kar. Hanys si fece subito riconoscere con le parole convenute a suo tempo con Mandras, e chiese loro se si fossero avverate le temute novità. Dopo qualche insistenza, finalmente la loro riluttanza fu vinta, ma essi dissero soltanto: “Da due giorni siamo in viaggio e non abbiamo novità, se non che tutto é ormai pronto; nulla può vedere chi non deve sapere, che comunque é già stato riconosciuto da chi ci manda”.

Ha­nys sorrise, in parte perché sollevato dalle buone notizie, in parte divertito nel riconoscere in quella risposta, pur cauta e contorta, lo stile regalmente verboso del Grande Mandras.
Il messaggio significava che tutto procedeva senza ostacoli e secondo quanto programmato. Le difese convenute erano già state approntate in tutto segreto: gli appostamenti erano invisibili dal mare, le navi nascoste alla vista, in qualche vicina caletta.
Le sentinelle erano camuffate da pastori, da perdigiorno, da mendicanti.
Qualunque spia sarebbe stata fuorviata.
Alcuni informatori di Cartagine erano stati riconosciuti e abilmente ingannati; altri erano stati catturati, se ciò si poteva fare senza destare sospetti.
Hanys pregò i messaggeri di inoltrare a Tal-Ur anche le notizie - che affidò loro - sullo stato di Norax, in modo da potere risparmiare due dei propri uomini.
Essi in tutta ri­sposta dissero che accettavano di buon grado il nuovo compito, ma che lo avrebbero assolto soltanto dopo avere portato a termine la loro missione principale, che non li destinava a Tal-Ur.
Hanys non fu molto soddisfatto di ciò, ma non poté far altro che rispettare le loro più che buone ragioni. Essendo avvezzo al comando e all’organizzazione logistica - subito pensò ad una diversa possibile soluzione: probabilmente i due Shardana avrebbero incontrato i due messaggeri che Ha­nys stesso aveva spedito in precedenza, e che ormai dove­vano essere liberi sulla strada del ritorno. Se così fosse successo, il nuovo messaggio avrebbe potuto essere, a mezzo loro, trasmesso senza alcun ritardo, e prestissimo avrebbe avuto risposta.


Aveva fretta, Hanys: intendeva chiedere istru­zioni su come curare Norax, il cui stato di salute comin­ciava a preoccuparlo davvero. 
Non fu quello il mes­saggio che infine egli affidò ai due Shardana, perché Norax intervenne con autorevolezza.
Pallido, malfermo, ma con una vibrante certezza nella voce, Norax disse loro, in tono a metà fra l’ordine perentorio ed un consiglio confidenziale: “Se appartenete al Popolo del Mare voi sa­pete - fratelli - quanti uomini possono in un solo giorno tra­versare il mare. E quanto rapidamente una città diventare cenere, per mano loro. Ricordate come é stato conosciuto il nome degli Hyksos in tutto il Grande Mare e come é stato temuto dal popolo che costruisce le sue tombe reali con la punta verso il cielo. In nome degli Hyksos, io vi dico che dietro di voi altri messaggeri Shardana sono partiti per chiedere rinforzi, ma giungeranno tardi.

Perché la notte stessa della vostra partenza KarKar é stata attaccata, ma si é difesa bene sotto la guida attenta del Grande Mandras che vi manda. Altri attacchi subirà, molto sof­frendo, ma non soccomberà, se avrà i rinforzi che chiede.
Questo é dunque il messaggio che voi dovete portare alle città sul mare di Tarr e di Kur e che Mandras ha invia­to inutilmente - con altri messaggeri - alle vostre spalle...
Ma vi é un altro impor­tante messaggio che io stesso vi affido e di cui il Grande Lauchme di Tal-Ur é il destinatario.
Io so che fra tre, forse quattro giorni, sarà attaccata da molte navi una città sul mare, che giace sotto una rupe su cui é costruita una grande fortezza. Io non ho mai visto prima quei posti con i miei occhi, per cui penso che si tratti forse di Orwa e della fortezza di Capo delle Acque. Ma il Grande Sacerdote di Tal-Ur saprà di certo indovinare quale città sul mare quella sia, e le invierà subito l’aiuto necessario, perché minaccioso incombe sempre più su di essa il pericolo. Se porterete veloci questo messaggio, il vostro merito sarà grande e forse finalmen­te torneranno tranquilli i miei sonni...
L’alta Kur dai due porti - cui voi siete, io lo so, segretamente diretti - non soffrirà di un vostro breve ritardo, poiché essa é tranquilla nella propria forza e incrollabile nella propria fede. Essa non sarà presa da Cartagine in questa guerra, bensì cadrà in un’altra, molto più tardi, di fronte ad un popolo più forte che le cambierà il bel nome. La chiameranno - io vi dico - con il nome straniero di una conchiglia che risuona, se vi si soffia dentro. Ma questo non può riguardarci, adesso”.
Le parole di Norax impressionarono molto i due messaggeri Sharda­na, non solo per il contenuto di esse, circa gli avvenimenti accaduti, ma anche per le profezie sui fatti futuri e soprat­tutto perché Norax aveva dato lucida prova di conoscere con precisione la loro più segreta destinazione, avvalorando così la credibilità di tutto il resto della propria divinazione, per quanto oscuro, strano, allarmante ne fosse il significato...
Impres­sionato fu anche Hanys, che inoltre poté constatare come - proprio dopo questo incontro - cessarono del tutto gli incubi di Norax ed il suo strano comportamento...
Molto prima che giungessero in vista del nuovo villaggio della tribù di Hanys, furono in grado di indovinarne la tanto anticipata presenza. Colonne di fumo variegate salivano pigramente nel cielo. Alcune originavano dai mucchi di rami e tronchi tagliati che bruciavano lentamente e incompletamente, co­perti da uno strato di terra - per trasformarsi in carbone prezioso.
Altre colonne di fumo invece si sprigionavano dalle familiari sagome delle fornaci. Grandi, nuove, effi­cienti fornaci stavano infatti a guardarli raggruppate, tutte orien­tate insieme verso il vento.
In alcune di esse si procedeva a fondere il bronzo, ma questa volta non in forma di ricordi votivi o di zappe o di gingilli, bensì di spade. In altre ancora poi - secondo l’insegnamento preciso di Lauchme - stava fondendo il ferro, nelle più minacciose forme di guerra. Gli uomini che lavoravano intorno ai forni ed alle carbonaie erano sudati, sporchi, seminudi malgrado la già pungente temperatura della stagione.

Lavoravano in turni brevi, eppure alcuni si ammalavano egualmente, in quelle disumane condizioni di estrema eserzione, con una parte del corpo troppo calda e sudata e l’altra livida per il freddo. Una brutta tosse li scuoteva e la febbre li consumava. Per alcuni era la morte in pochi giorni.
Mucchi di armi gia­cevano raccolte per tipo: punte di lancia, di freccia, pu­gnali, spade, asce semplici e labrys bipenni: sarebbero state affidate ai carpentieri per finirle. Le fornaci - nere e ruggenti - avevano tutte la grande bocca rivolta fa­melica al vento, in modo che la fiamma bruciasse più viva e vorace. Erano in fasi diverse di preparazione: alcune bruciavano forte, da altre si stavano estraendo i crogioli incandescenti per travasarne il contenuto fuso negli stam­pi, dai quali già si scioglieva la cera. Altrove gli stampi venivano rotti, oppure - a seconda - aperti nelle due valve. La forma ruvida e bruna che ne usciva veniva subito ri­scaldata ad un fuoco più piccolo, corretta e martellata, per darle più robustezza o più equilibrio o più armonia, a se­conda del tipo di oggetto. In seguito sarebbe stato reso più liscio e lucente, rifinito secondo le esigenze con cuoio o con legno...
In alto, molto più in alto sul monte, vicino al cielo, stava nascendo la grande fortezza che avrebbe dife­so la città di Solki, posata sorniona - al di là di un piccolo braccio d’acqua - sul mare azzurro. La bella città si spec­chiava sull’acqua, volgendo quasi indifferente le spalle al vitale mare aperto, e stava adagiata sulla sua piccola isola sorridendo intrigante alla laboriosa terra prediletta del so­le.
Norax abbracciò con lo sguardo tutto questo al suo arrivo in quella nuova terra.
Procedeva lentamente, tra di­versi gruppi indaffarati, ognuno aveva il suo compito; chi portava nuovo metallo; chi ripuliva gli stampi di pietra; chi ne scolpiva altri; chi portava nuovo combustibile; chi ne curava la disposizione e l’accensione nei forni. Era una vista nuova e sconvolgente: uomini prima buoni e semplici, che avevano aperto le porte dell’Orco e scavato senza rispetto nelle viscere della terra. Avevano oscurato il cielo con il fumo dei loro empi fuochi - perché empio era il motivo finale di tutto questo, seppure necessario - ed erano essi stessi anneriti come creature uscite dal fuoco. Qart-Hadasht anche di questo era responsabile, anche per questo avrebbe dovuto pagare.
Aveva trasformato i miti pastori e contadini in crudeli guerrieri.
I caccia­tori ed i pescatori dovevano rivolgersi verso prede umane, o diventare a loro volta ineluttabilmente prede prigioniere. Questa - non solo le lacrime ed il sangue - era la moneta con cui si sarebbe pagato un prezzo ancora ignoto.  Ognuno avrebbe dato qualcosa, ognuno avrebbe ricevuto qualcosa. Che cosa avrebbe ricevuto, in cambio della propria vita?
Immerso in queste considerazioni era Norax, quando - d’un tratto - vide corrergli incontro una figuretta esile di donna che, ancora troppo lontana per distinguerla con gli occhi - egli subito riconobbe con il cuore: era Larthy. Spronando la propria bestia, allora, si staccò d’improvviso dal gruppo e percorse l’ultimo tratto correndo a piedi, sulla strada per la nuova città, mentre la piastra di rame gli rimbalzava sul petto mandando i suoi esultanti bagliori rossastri.
Il cuore gli batteva forte...
Hanys li guardò appena di lontano, mentre si abbracciavano e si carezzavano il viso ed i capelli: da lontano immaginò i loro occhi sorridenti e lucidi, le loro labbra, le parole, i corpi avvinghiati. Ed il resto.
Quindi si voltò e in tono asciutto diede disposizione ai propri uomini di scaricare il prezioso materiale portato dalla Fontana Raminosa, di accudire le bestie, di approntare gli alloggiamenti. Il suo occhio era fiero ed il suo braccio era forte; la voce dettava ordini secchi e precisi, che nessuno avrebbe osato disattendere.
Nessun artigiano vasaio, per quanto bravo, avrebbe saputo ricomporre quel che Hanys ora sentiva spezzarglisi nel petto: neppure tutte le arti del dio vasaio Khnum avrebbero potuto ricomporre quei frammenti. Un dolore è piccolo se permette il pianto, mentre i dolori grandi sono muti...
Dopo l’ultima fatica, con­cesse un poco di riposo agli uomini e si occupò subito, furio­samente, dei preparativi per la necessaria partenza per Kar...
____

Fallito? Avevano fallito lo sbarco a Kar! Quell’incapace di Meleck! Hiram non riusciva a capacitarsi. Ma Milkisapa e Baal Shamin erano lì a confermarglielo: era proprio successo così...
Hiram si agitava come una belva in gabbia. Sapere che nel Senato di Qart-Hadasht la sua opinione sarebbe stata tenuta in maggiore considerazione, da quel giorno in poi, non gli dava nessun sollievo... Pensare alla soddisfazione che gli avrebbe dato l’avere tra le mani il collo di Meleck era tempo perso. E lui non poteva perdere tempo. Tra l’altro, a quanto sembrava,  gli avevano già fatto il favore di toglierlo di mezzo, l’infame imbecille!
Doveva pensare in fretta. Presto, lì intorno ci sarebbero stati il ferro ed il fuoco: doveva andarsene il prima possibile e rendersi del tutto irreperibile.
Diede disposizioni ai due messaggeri: “Fate in modo che la distruzione sia la più grande possibile. Bruciate i boschi, bruciate i campi. Bruciate le case. Fate fuggire il più alto numero di persone. Dividetevi in gruppi. Spargetevi sulla zona più vasta che potete. Soprattutto, dovete fare in modo che Mandras non esca vivo da Kar. Se possibile, non fatevi prendere, né riconoscere: così potrete restare qui e servire ancora Qart-Hadasht, che saprà premiarvi. Io devo partire, perché ormai conoscono il mio ruolo e mi ucciderebbero, se mi trovassero qui quando i disordini saranno sedati. Vi manderò Elibaal ad organizzarvi, al posto mio”.
I due annuirono e si allontanarono subito nel buio...
Hiram prese la sua piccola Frine, la mise su di un carro, e con lei partì subito, sulla strada per Othoca, allontanandosi da quel cielo in fiamme. Sarebbero sembrati profughi dell’invasione - pensò - a meno di incontrare qualcuno dei guardiani che conoscevano il suo volto. Era rischioso, ma egli doveva rischiare, se voleva salvare ancora qualcosa, in quel disastro.
Andare alle città più vicine - Nure, Bithia e Solky - non era possibile. Tutti temevano certamente che anche lì vi sarebbe stato uno sbarco e nessuno può volere andare a cacciarsi nello stesso inferno da cui sta fuggendo. Pertanto, nessun profugo vi si sarebbe recato e la strada sarebbe rimasta deserta.  Sicuramente, poi, la strada e le città erano già puntigliosamente pattugliate dalla Guardia Shardana in allarme... In più, Solky era difesa da ingenti truppe shardana e pellite di stanza nella nuova fortezza voluta da quel giovane pellita, Norax.
Hiram si rammaricò molto tra sé di essere stato così male e tardivamente informato circa la pericolosità dei suoi antagonisti...
Tar e Kur erano troppo lontane e troppo fedeli alla causa shardana anche solo per infiltrarvi delle spie: non erano posti sicuri per lui.  Tibulat e Orwa erano assolutamente irragiungibili, via terra. Restavano soltanto Othoca e Nabui... In una di quelle due città Hiram avrebbe potuto nascondersi presso amici per il tempo necessario a preparare la sua fuga per nave...
Mentre il carro procedeva - molto più lento di come Hiram avrebbe voluto - egli aveva il tempo di fare il punto della situazione: Lauchme si sarebbe dovuto confrontare con difficoltà impreviste, che lo avrebbero distolto, forse anche a lungo, dalla lotta. La distruzione intorno a Kar avrebbe richiesto una lunga ed impegnativa ricostruzione. Lo sbarco di Orwa era ancora tutto da giocarsi. E questo significava che non tutto era ancora perduto. Certo, non era la vittoria brillante che Hiram aveva desiderato e per cui aveva tanto faticosamente lavorato, ma non era ancora una sconfitta totale e definitiva. Hiram aveva bruciato quasi tutte le sue fortune economiche personali e fortemente intaccato il patrimonio di famiglia. Non inutilmente: aveva ancora molte e valide risorse e nutriva qualche speranza.