NEUROARCHEOLOGIA
Mi chiedi ora – seriamente? – che cosa sia la
NeuroArcheologia. Cercherò d’essere serio nel parlartene, amico mio, ma non è
facile: lo scherno mi verrebbe più naturale....
Fino ad oggi la cosa è stata (volutamente) spiegata alla
gente comune e ai non addetti in modo per essi oscuro e complesso, con sontuoso
impiego di tecnicismi pseudoscientifici (‘network corticali e sottocorticali’,
‘plasticità neurale’), ricorrendo a difficili contorsioni esistenziali (‘come
emerge il pensiero simbolico?’) e a paroloni incomprensibili (‘complessità
dell’architettura cognitiva della mente
umana’): si è fatto di tutto, cioè, pur di non spiegarlo affatto… Questo è un
noto ed abusato metodo per trasmettere al volgo non l’argomento di cui si
parla, bensì il concetto: ‘Io scienziato, tu popolo bue’.
Funziona con i pirla senz’arte né parte che ci cascano e fa
inc…uietare chi fa uso della logica, invece che dell’ideologia.
La neuroarcheologia comprenderebbe con il proprio ampio
respiro un campo di ricerche interdisciplinari, “che focalizzano le problematiche emergenti tra encefalo e
Cultura, percorrendo le traiettorie del divenire umano”.
E alla fine – invece di dare risposte – si sono solo poste
altre domande, naturalmente, sottointendendo che la NeuroArcheologia potrebbe
rispondere ad esse, quali ad es.: “Com’è possibile identificare le tracce
materiali delle capacità simboliche nei reperti archeologici? Quale legame esiste tra la struttura funzionale
del cervello e le tracce comportamentali osservabili
archeologicamente, considerando
l’inestricabile relazione tra il binomio cervello/corpo e l’ambiente?”
Ma alla fine, dato che qualche cosa si deve pur proporre,
eccola qui: “La neuroarcheologia si propone di comprendere i meccanismi di
sviluppo nel lungo termine della sinergica co-evoluzione del cervello con la
cultura e il mondo materiale”.
Chiarissimo, quindi, anche preciso, se ci si pensa bene: un
atteggiamento fastidiosamente parolaio, per spiegare qualche cosa che è ancora
indefinito, fin da quando fu – furbescamente – architettato. [1]Una
cervellotica ipotesi di lavoro (niente di più), che la logica rifiuta del
tutto.
Una volta si ricorreva al Latino, per sembrare saggi ed
istruiti e riuscire ad essere incomprensibili all’uditorio. Oggi si ricorre
preferibilmente all’Inglese (facci caso: è il motivo per cui la ‘rotazione con
tiranti’ della ‘Concordia’ si definisce ‘Parbuckling’. Tutta la faccenda diventa molto più difficile ed
interessante!).
Si ammoniscono persino gli archeologi (che si suppone siano
smidollati e praticoni materialisti, che
forse anche indulgono nella deboscia più turpe) che essi “potrebbero
imparare molto dai metodi delle
Neuroscienze per stabilire legami ‘testabili’ empirici e
concettuali tra struttura cerebrale, funzioni cognitive e comportamenti
archeologicamente osservabili”. E anche:
“… gli studi sulle demenze possono dare un notevole contributo alla
comprensione dei meccanismi evolutivi della mente dell’uomo moderno, partendo dall’indagine di quella che nella
progressiva perdita di moduli corticali può essere definita “ancient mind”.
In parole povere (e quindi comprensibili a tutti), si
sostiene che la regressione della mente di un paziente singolo (affetto da una
demenza, quindi una malattia degenerativa che ‘spegne’ gradatamente ma
ineluttabilmente sempre più numerose unità funzionali del cervello, dette
neuroni) ne riduce ovviamente le prestazioni, conducendo alla semplificazione
in tutte le espressioni dell’individuo: eloquio, comprensione di immagini e
parole, capacità di concentrazione, profondità di analisi, scrittura (è questo
è lapalissiano, non è certamente nuovo, ma almeno è chiaro, spero).
Ma oltre a ciò si sostiene che questa regressione del
singolo ad uno stadio ‘più primitivo’
sia uno stadio identico ad uno stadio che – in passato – è stato uno stadio comune
a tutta l’umanità e non solo a quel
paziente: è quindi un ritorno ad una fantomatica “mente antica” di tutti gli uomini del mondo.
Questo non è
affatto credibile: non credo sia scientifico. In Inglese (così sembrerò anche io più colto!) è quello che si chiama ‘wishful thinking’. Il che significa la formulazione di pensieri e la scelta di decisioni effettuate più secondo quanto è gradito all’autore, che non secondo evidenza, razionalità, o realtà. È il procedimento per cui si ritengono ottimisticamente probabili esiti positivi che non quelli negativi.
(Non è affatto da confondere con il ‘positive thinking’, il pensiero pratico e fondato, che influenza positivamente il comportamento tanto da permettere realmente risultati migliori).
Che i ‘segni’ siglati dai pazienti malati di una demenza
diventino ‘primitivi’ nel senso di rudimentali risponde certamente al vero: il
paziente non riesce a fare di più, perché i mezzi per un migliore risultato
sono venuti meno.
Se vogliamo, è il motivo per cui – dopo molti anni che non
andiamo in bicicletta, oppure sui pattini – non riusciamo più a farlo. Il
motivo è che abbiamo perso, col tempo, i neuroni preposti a quelle attività
motorie e di controllo dell’equilibrio. Non avendo proseguito nell’esercizio,
non è stato possibile ad altri neuroni sopperire alla mancanza dei primi,
vicariandone la funzione. Risultato: la nostra mente ricorda perfettamente
quello che dobbiamo fare, ma il nostro corpo non riesce assolutamente ad
eseguire l’esercizio, perché gli mancano le connessioni neuromuscolari per compierlo.
Quest’ultimo è un fenomeno fisiologico d’invecchiamento, che comporta la
perdita giornaliera di numerosi neuroni. La malattia degenerativa è invece un
fenomeno molto più devastante e rapido.
Ma che quei segni, tracciati con difficoltà dai malati,
corrispondano a quelli di un passato che dovrebbe interessare gli archeologi è
umoristico.
Equivale a sostenere che i malati di demenza Turchi oggi
scrivano in Ittita e che gli Alzheimeriani
Egiziani scrivano in antico Egizio e così via...
Gli antichi abitanti di un qualunque paese del mondo non
hanno mai fatto ‘segni’ simili a quelli di un’altra località.
Infatti, la teoria ‘Neuroarcheologica’ ha convinti avversari
anche tra gli addetti ai lavori, oltre che tra i debosciati archeologi. [2]
Fino ad oggi, la teoria non ha fatto molta strada, infatti è
arenata nelle posizioni di partenza e secondo alcuni non se ne sentirà parlare
gran che in futuro.
Ma – naturalmente – coloro che hanno puntato su di essa per
promuoversi devono atteggiarsi a conoscitori esperti e vanno in giro proprio come il re
nudo della favola, pavoneggiandosi con nulla addosso. Essi dichiarano di capire i difficili
concetti della Neuroarcheologia, mentre gli altri non ci arrivano, poveretti.
La verità è che non c’è nulla da capire.
Fuffa: la Neuroarcheologia ed i lavori che ad essa si appoggiano per sembrare "scientificamente" fondati.
[1] Lambros
Malafouris: My research interest is in the archaeology of mind and the
anthropology of the brain artefact-interface (BAI) – covering topics extending
from early stone tools and the ‘exographic’ symbolic technologies of more
recent periods, to the latest developments in neuro-prosthetics and cognitive
enhancement. My research aims at developing ways to understand the long-term
implications and causal efficacy of material culture in the functional
architecture of the human brain and the evolution of human intelligence (especially with reference to human capacities
related to self awareness, memory, theory of mind, agency and the body schema).
For the last few years I have been working on the Material Engagement approach
to the study of mind and the archaeology of extended and distributed cognition.
I also participate in the European Platform for Life Sciences, Mind Sciences,
and the Humanities (Volkswagen Stiftung).
[2] Thomas
Donaldson: “Solving the problem of neural archaeology is like curing or
preventing all diseases. It won’t happen”.