Quello che vorrei da una politica culturale in Sardegna
Sul Corriere della Sera del 26 maggio scorso Gianarturo Ferrari
argomentava come la produzione culturale oggi abbia preso il posto
della industria pesante di un tempo.
Un tempo la capacità industriale dell’industria pesante significava poter fare le guerre e vincerle, oggi è la produzione industriale a fare penetrazione fra le linee del nemico e a sfaldarlo dall’interno.
Produzione culturale da esportare come fosse industria pesante significa esportare la propria maniera di leggere il mondo, i propri principi e la propria cultura. Questo crea la possibilità che i mercati che ricevono la produzione culturale siano poi pronti a ricevere i prodotti del mercato della cultura esportatrice.
Il mondo è ancora diviso in due: chi produce la cultura e chi la subisce. La produzione culturale è fatta di libri, di film, di telefilm, di musica, di teatro, di arte figurativa, di danza e di altro ancora.
Le culture dominanti sono quelle delle economie dominanti, quelle che riescono a esportare la propria produzione di cultura. Le culture in via di estinzione sono quelle che non riescono più a esportare la propria lettura della contemporaneità e che si nutrono solo di cultura prodotta altrove.
Va da sé che i produttori di cultura, come un tempo i produttori di industria pesante, appartengono in massima parte a culture dominanti di economie dominanti. Quando non sono originari di quei paesi, è comunque a queste culture che appartengono e entro le quali si muovono. Pensiamo al caso Zaha Hadid, l’architetto iraqena che però ha sempre vissuto e studiato fra Londra e gli USA.
Lo strapotere economico giapponese negli anni ottanta fu preparato da anni di esportazione di cartoni animati, musiche e design.
Il caso Sardegna è oggi emblematico: dopo la grande stagione degli anni terminati con i settanta dello scorso secolo (qualcosa degli ottanta forse) in Sardegna la produzione culturale è diventata residuale. Non esistono più esperienze come quelle che portarono all’emersione di personaggi come Zappareddu, esperienze che portarono alla creazione del Teatro di Sardegna, non abbiamo più poeti come Francesco Masala o Cambosu, capaci di rappresentare il pungolo costante di un impegno sociale dell’intellettuale veramente universale.
Non abbiamo più un Fabio Masala che fece dell’Umanitaria una coniugazione concreta e autenticamente rivoluzionaria della alfabetizzazione critica delle classi operaie e contadine.
Da qualche decennio la Sardegna non riesce più a esportare una idea di realtà che possa essere autenticamente rivoluzionaria e universale. Da qualche decennio in Sardegna coloro che producono cultura sono stati lasciati soli e impediti nel loro ruolo e funzione.
Un tempo le compagnie giovani come il Teatro di Sardegna obbligavano la politica a creare strumenti legislativi a loro sostegno.
Oggi i nostri registi cinematografici sono costretti a umiliarsi facendo questue miserabili nei salottini degli assessori per avere due lire inutili e insufficienti a produrre qualcosa.
E non servono a nulla le leggine che danno soldi alle radio per fare trasmissioni in lingua sarda appiccicando a sputo una finta cultura che è quasi sempre lettura di altri contenuti stranieri e alieni, solo detti in sardo. Recitare in sardo la divina commedia non è produrre cultura sarda, leggere in sardo una agenda cittadina degli appuntamenti dicendo “zizzigorru gmail punto com” anziché “chiocciola gmail.com” non è produrre la cultura sarda e non è diffondere la cultura sarda.
Il giro del mondo degli spettacoli di Zappareddu o le otto lingue nelle quali veniva tradotto Cicito Masala era esportazione di cultura sarda. Le contaminazioni struggenti di Elena Ledda e le sapienti acrobazie di Rossella Faa sono cultura sarda autentica perché produzione originale di cultura. Così come è produzione di cultura sarda l’opera di Antonio Marras come quella dei tanti costumisti teatrali sardi che operano in giro per il mondo. Per fare degli esempi.
Ma anche la produzione di rock e jazz che ha avuto origine nella nostra terra è una testimonianza della produzione di cultura importante della nostra terra, e così i tanti artisti visuali che si fanno largo nei panorami dei cinque continenti. Come Giorgio Casu, per dire.
E allora quello che mi piacerebbe per la mia terra sarebbe una vera politica di sostegno alla cultura, ma alla produzione di cultura. Perché è questo il settore che autenticamente ci permetterà di uscire dalla residualità culturale nella quale siamo caduti. Mi piacerebbe una politica che agevolasse la produzione, la collaborazione e lo scambio fra artisti di ogni luogo del pianeta perché si potesse riconoscere dovunque la nostra terra come fucina accogliente di produzione culturale.
Perché tutti sono lì a riempirsi la bocca della Catalogna e tutti dimenticano una cosa: che la storia della Catalogna sin dagli inizi del secolo scorso è fatta di sperimentazione nella produzione culturale, di apertura di avanguardia alle tendenze più innovative. Perché quello che si chiamò Jugendstil in austria e Germania o Art Nouveau o Liberty in Francia e in Italia, in Catalogna fu ribattezzato Modernismo perché fu proprio la Catalogna uno dei laboratori di confronto internazionale di produzione d’arte e cultura del novecento. la tradizione stessa della cultura catalana è l’essere presente appieno nel dibattito culturale internazionale, l’essere luogo di incontro, non di chiusura.
Quindi sento un’urgenza vera: quella che si debba dotare la Sardegna di una vera politica di sostegno e di sviluppo culturale. Quello che mi piacerebbe davvero per la terra alla quale appartengo e dove vivo, sarebbe un vero e grande sostegno economico alle fabbriche di cultura presenti in Sardegna. Sia quelle piccole (i singoli), che quelle grandi (i teatri stabili, le compagnie, le accademie). Vorrei vedere registi sardi produrre testi e letture nei teatri di prosa, in quelli lirici, nelle tv italiane e internazionali. Vorrei un sostegno ai giovani musicisti di tutto il mondo per comporre su temi nostri autentici delle variazioni contaminate, vorrei dei testi basati sui nostri miti e sulla nostra terra.
Insomma vorrei una politica che sostiene la produzione di cultura viva e non solo il sostegno alla fruizione museale di cose morte. Vorrei una nuova politica conscia del ruolo che la cultura e le fabbriche di cultura hanno nell’affermare e tutelare la nostra cultura. Francamente non vorrei più sentire delle idiozie come il chiamare “privilegiati” i lavoratori della cultura o metterli in contrapposizione con i “veri lavoratori” che sono solo quelli con la tuta blu. Mi piacerebbe avere una nuova classe politica che non fosse così idiota.
Così come mi piacerebbe una politica che avesse come obiettivo il dare sostegno alle piccole realtà di intervento culturale e di spettacolo sul territorio, agevolando le loro attività, spesso basate sul volontariato ma sempre di intervento autentico sul territorio.
Perché oggi esportano cultura nata in Sardegna le Lucido Sottile, anche se non fanno spettacoli in LSC, più che non le piazze da Sardegna Canta. Giusto per fare un esempio. Perché oggi è testimonianza viva della nostra produzione culturale un Paolo Fresu che si esibisce alla Cantina Bentivoglio a Bologna, quanto una installazione di Casu a TriBeCa, o una esibizione alla TV olandese di Elena Ledda con Mauro Palmas.
La produzione e la testimonianza della cultura sarda non possono esaurirsi nell’uso della lingua o dei quarti di tono del canto a tenore o delle launeddas. Quella è base e radice, sono cose che devono essere tutelate e studiate, ma la cultura non può essere cristallizazione di schemi e stilemi. Sono sardo anche io che non parlo la lingua sarda, sono sarde le Lucidosottile che concepiscono i loro spettacoli in italiano, è sardo Fresu o Gavino Murgia quando suonano con artisti del resto del mondo.
Sogno una politica sarda che si occupi di Sardegna anche se sogna in italiano. Sogno una politica di sostegno alla produzione culturale che nasca nella nostra terra, anche se progettata in inglese.
Gianluca Floris
Un tempo la capacità industriale dell’industria pesante significava poter fare le guerre e vincerle, oggi è la produzione industriale a fare penetrazione fra le linee del nemico e a sfaldarlo dall’interno.
Produzione culturale da esportare come fosse industria pesante significa esportare la propria maniera di leggere il mondo, i propri principi e la propria cultura. Questo crea la possibilità che i mercati che ricevono la produzione culturale siano poi pronti a ricevere i prodotti del mercato della cultura esportatrice.
Il mondo è ancora diviso in due: chi produce la cultura e chi la subisce. La produzione culturale è fatta di libri, di film, di telefilm, di musica, di teatro, di arte figurativa, di danza e di altro ancora.
Le culture dominanti sono quelle delle economie dominanti, quelle che riescono a esportare la propria produzione di cultura. Le culture in via di estinzione sono quelle che non riescono più a esportare la propria lettura della contemporaneità e che si nutrono solo di cultura prodotta altrove.
Va da sé che i produttori di cultura, come un tempo i produttori di industria pesante, appartengono in massima parte a culture dominanti di economie dominanti. Quando non sono originari di quei paesi, è comunque a queste culture che appartengono e entro le quali si muovono. Pensiamo al caso Zaha Hadid, l’architetto iraqena che però ha sempre vissuto e studiato fra Londra e gli USA.
Lo strapotere economico giapponese negli anni ottanta fu preparato da anni di esportazione di cartoni animati, musiche e design.
Il caso Sardegna è oggi emblematico: dopo la grande stagione degli anni terminati con i settanta dello scorso secolo (qualcosa degli ottanta forse) in Sardegna la produzione culturale è diventata residuale. Non esistono più esperienze come quelle che portarono all’emersione di personaggi come Zappareddu, esperienze che portarono alla creazione del Teatro di Sardegna, non abbiamo più poeti come Francesco Masala o Cambosu, capaci di rappresentare il pungolo costante di un impegno sociale dell’intellettuale veramente universale.
Non abbiamo più un Fabio Masala che fece dell’Umanitaria una coniugazione concreta e autenticamente rivoluzionaria della alfabetizzazione critica delle classi operaie e contadine.
Da qualche decennio la Sardegna non riesce più a esportare una idea di realtà che possa essere autenticamente rivoluzionaria e universale. Da qualche decennio in Sardegna coloro che producono cultura sono stati lasciati soli e impediti nel loro ruolo e funzione.
Un tempo le compagnie giovani come il Teatro di Sardegna obbligavano la politica a creare strumenti legislativi a loro sostegno.
Oggi i nostri registi cinematografici sono costretti a umiliarsi facendo questue miserabili nei salottini degli assessori per avere due lire inutili e insufficienti a produrre qualcosa.
E non servono a nulla le leggine che danno soldi alle radio per fare trasmissioni in lingua sarda appiccicando a sputo una finta cultura che è quasi sempre lettura di altri contenuti stranieri e alieni, solo detti in sardo. Recitare in sardo la divina commedia non è produrre cultura sarda, leggere in sardo una agenda cittadina degli appuntamenti dicendo “zizzigorru gmail punto com” anziché “chiocciola gmail.com” non è produrre la cultura sarda e non è diffondere la cultura sarda.
Il giro del mondo degli spettacoli di Zappareddu o le otto lingue nelle quali veniva tradotto Cicito Masala era esportazione di cultura sarda. Le contaminazioni struggenti di Elena Ledda e le sapienti acrobazie di Rossella Faa sono cultura sarda autentica perché produzione originale di cultura. Così come è produzione di cultura sarda l’opera di Antonio Marras come quella dei tanti costumisti teatrali sardi che operano in giro per il mondo. Per fare degli esempi.
Ma anche la produzione di rock e jazz che ha avuto origine nella nostra terra è una testimonianza della produzione di cultura importante della nostra terra, e così i tanti artisti visuali che si fanno largo nei panorami dei cinque continenti. Come Giorgio Casu, per dire.
E allora quello che mi piacerebbe per la mia terra sarebbe una vera politica di sostegno alla cultura, ma alla produzione di cultura. Perché è questo il settore che autenticamente ci permetterà di uscire dalla residualità culturale nella quale siamo caduti. Mi piacerebbe una politica che agevolasse la produzione, la collaborazione e lo scambio fra artisti di ogni luogo del pianeta perché si potesse riconoscere dovunque la nostra terra come fucina accogliente di produzione culturale.
Perché tutti sono lì a riempirsi la bocca della Catalogna e tutti dimenticano una cosa: che la storia della Catalogna sin dagli inizi del secolo scorso è fatta di sperimentazione nella produzione culturale, di apertura di avanguardia alle tendenze più innovative. Perché quello che si chiamò Jugendstil in austria e Germania o Art Nouveau o Liberty in Francia e in Italia, in Catalogna fu ribattezzato Modernismo perché fu proprio la Catalogna uno dei laboratori di confronto internazionale di produzione d’arte e cultura del novecento. la tradizione stessa della cultura catalana è l’essere presente appieno nel dibattito culturale internazionale, l’essere luogo di incontro, non di chiusura.
Quindi sento un’urgenza vera: quella che si debba dotare la Sardegna di una vera politica di sostegno e di sviluppo culturale. Quello che mi piacerebbe davvero per la terra alla quale appartengo e dove vivo, sarebbe un vero e grande sostegno economico alle fabbriche di cultura presenti in Sardegna. Sia quelle piccole (i singoli), che quelle grandi (i teatri stabili, le compagnie, le accademie). Vorrei vedere registi sardi produrre testi e letture nei teatri di prosa, in quelli lirici, nelle tv italiane e internazionali. Vorrei un sostegno ai giovani musicisti di tutto il mondo per comporre su temi nostri autentici delle variazioni contaminate, vorrei dei testi basati sui nostri miti e sulla nostra terra.
Insomma vorrei una politica che sostiene la produzione di cultura viva e non solo il sostegno alla fruizione museale di cose morte. Vorrei una nuova politica conscia del ruolo che la cultura e le fabbriche di cultura hanno nell’affermare e tutelare la nostra cultura. Francamente non vorrei più sentire delle idiozie come il chiamare “privilegiati” i lavoratori della cultura o metterli in contrapposizione con i “veri lavoratori” che sono solo quelli con la tuta blu. Mi piacerebbe avere una nuova classe politica che non fosse così idiota.
Così come mi piacerebbe una politica che avesse come obiettivo il dare sostegno alle piccole realtà di intervento culturale e di spettacolo sul territorio, agevolando le loro attività, spesso basate sul volontariato ma sempre di intervento autentico sul territorio.
Perché oggi esportano cultura nata in Sardegna le Lucido Sottile, anche se non fanno spettacoli in LSC, più che non le piazze da Sardegna Canta. Giusto per fare un esempio. Perché oggi è testimonianza viva della nostra produzione culturale un Paolo Fresu che si esibisce alla Cantina Bentivoglio a Bologna, quanto una installazione di Casu a TriBeCa, o una esibizione alla TV olandese di Elena Ledda con Mauro Palmas.
La produzione e la testimonianza della cultura sarda non possono esaurirsi nell’uso della lingua o dei quarti di tono del canto a tenore o delle launeddas. Quella è base e radice, sono cose che devono essere tutelate e studiate, ma la cultura non può essere cristallizazione di schemi e stilemi. Sono sardo anche io che non parlo la lingua sarda, sono sarde le Lucidosottile che concepiscono i loro spettacoli in italiano, è sardo Fresu o Gavino Murgia quando suonano con artisti del resto del mondo.
Sogno una politica sarda che si occupi di Sardegna anche se sogna in italiano. Sogno una politica di sostegno alla produzione culturale che nasca nella nostra terra, anche se progettata in inglese.
Gianluca Floris