L’isola in un mare di simboli.
Inizialmente creato per essere creduto, il mito è
talvolta basato su elementi reali, ma non è, di fatto, la verità. Ne può
rappresentare, anzi, di volta in volta una distorsione, una proiezione onirica,
una rappresentazione simbolica, una trasposizione fantastica, un’evasione
escapistica, oppure una trasformazione peggiorativa o migliorativa, funzionale
ad una tesi di parte. Si deve ammettere che la Sardegna, in verità, non riceve
un buon trattamento dalla mitogenesi, antica e recente, che la riguarda.
A
qualcuno piace raccontarla così, su opuscoli per turisti, o persino sui libri:
“Gli antichi Sardi erano guerrieri giganteschi e bellicosi, che vivevano in
tribù separate, ognuna con il proprio Re-Pastore, sempre in guerra tra loro per
il primato. Essi costruirono tombe enormi per i propri eroi (tombe dei
giganti), splendidi templi ipogei per le divinità ctonie (i pozzi sacri) e
robuste fortezze a tronco di cono (i nuraghi) per reclamare la propria autorità
sui rivali. Eruditissimi d’Astronomia, orientarono le loro costruzioni secondo
i principali eventi celesti (i solstizi e via dicendo), utili per la loro già
florida agricoltura e per le loro multiple attività sociali. Sistemarono enormi
catapulte sulle sommità dei nuraghi, con cui lanciavano levigati proiettili
sferici, alcuni dei quali sono osservabili al Museo Sanna di Sassari.
Dall’interno del nuraghe, a mezzo anguste feritoie semicieche, scoccavano
abilmente frecce, da una posizione accosciata, con una traiettoria rasoterra.
Una sola sentinella, appostata nella penombra della garitta di guardia, era
sufficiente a scoraggiare l’ingresso degli eventuali aggressori. Così, l’entroterra dell’isola non fu
mai violato, né dai Romani, né tanto meno dai Cartaginesi, ed ecco perché Nuoro
si staglia orgogliosa, come una vera “Atene Sarda” al centro dell’indomita
Barbagia. La marineria Sarda era efficiente e molto progredita per i tempi:
possedeva navi sicure e veloci, munite d’alettoni stabilizzatori che
permettevano di planare, come si può osservare nei bronzetti che le
rappresentano. Sulle loro navi, i Sardi procedettero a campagne commerciali e
di conquista: circumnavigarono l’Africa per procurarsi lo stagno, che – assente
nel Mediterraneo – gli serviva per realizzare la loro famosa lega del bronzo.
Ciò è dimostrato dal fatto che, nel sud dell’Africa esistono costruzioni simili
ai nuraghi, che in lingua locale sono chiamate Zimbabwe e che danno perfino il
nome ad uno stato. Le campagne di
conquista condussero i Sardi nel medio Oriente, dove si rinvengono tuttora
alcuni nuraghi presso Al Awat e sul delta del Nilo, dove elessero anche alcuni
Faraoni. La truce espressione dei guerrieri sardi divenne presto nota come Riso
Sardonico, di cui parla persino Omero nell’Odissea, descrivendo il sorriso di
vendetta d’Ulisse: egli inoltre si riferisce ai Sardi come Feaci e all’isola
sarda come Scherìa. Infine, l’avanzatissima e splendida civiltà Nuragica fu
spazzata via quasi del tutto da un maremoto, il che originò l’affascinante mito
d’Atlantide, cui solo erroneamente sono attribuite altre sedi. In attesa di
studi stratigrafici che dimostrino questa tesi, l’unica suggestiva prova è data
dal fatto che tutti gli elementi di crollo dei nuraghi del Campidano, la
regione più gravemente interessata dal fenomeno, si trovano a sud est, proprio
sul lato che fu colpito dall’enorme onda marina distruttiva…”.
Si potrebbe giungere fino alla Sardegna dei giorni
nostri, mantenendo lo stesso elevato tenore d’inattendibilità scientifica.
Qualcuno, infatti, lo fa.
Nel Mito, in generale, confluisce una varia e vasta
congerie d’elementi, di diversissime dimensioni, valenza ed importanza, creando
le leggende, la fantascienza, la fantarcheologia, i luoghi comuni, le favole
morali. Vicende storiche lontane, a lungo romanzate nel passare per generazioni
di bocche, entrano nel calderone: gli eroi di Troia, Atlantide, il Diluvio,
Dracula. Alcune componenti sono
pregiudizi razziali, oppure spunti d’orgoglio nazionalistico (“I sardi sono
tutti piccoli”, “la Barbagia non fu mai conquistata”). Altri elementi
provengono da antiche tradizioni o credenze popolari, come il ballo dell’Argia;
altri da credenze religiose, come le maschere del carnevale sardo, la
proibizione islamica di mangiare la carne di maiale, l’uso sardo di mangiare
carne cruda, il fuoco della “tuva”,
per S. Antonio. Alcuni elementi sono riconoscibili in usi e costumi trascorsi,
ormai dimenticati e ridotti a livello di dicerie, come l’uso di cuocere sotto
la cenere, travisato come il forno dell’abigeatario, invece che dell’antico
nomade orientale. Altri elementi sono prestiti culturali, ottenuti in vario
modo, come ad esempio sono la Sartiglia ed il Vessillo dei quattro mori. Osservazioni naturalistiche malintese
creano i piccoli miti dello struzzo che nasconde la testa nella sabbia, della
capra “già condita” di Baunei, della salamandra che sopravvive al fuoco, del
geco che è freddo, ma egualmente ustiona la pelle, al contatto. La Fisica
Quantistica spiegata al volgo rende credibile la possibilità del viaggio nel tempo,
titillando il sempiterno desiderio umano di sconfiggere lo spietato trascorrere
degli anni. Facendo leva sui desideri e la credulità umana, entrano in gioco
anche scherzi d’ingegno, le “favole metropolitane” (i coccodrilli ciechi nelle
fogne di New York; il consiglio dell’arabo immigrato, al passante che gli ha
restituito il portafogli smarrito, di non prendere la metropolitana nei giorni
successivi, per la sua incolumità), le esagerazioni dei cacciatori (il narvalo,
spacciato per un Unicorno equino) ed invenzioni fantasiose (la
circumnavigazione nuragica dell’Africa e lo Zimbabwe sardo[1]). Per essere credute, le leggende che vanno a
comporre i miti devono essere gradite all’uditorio. Così, spesso si tratta di
costruzioni simili, che seguono copioni prestabiliti, esportati un po’
dovunque: tra queste s’annoverano le leggende degli assedi risolti con
l’arguzia.
Il mito primitivo si afferma, se incontra i gusti
della popolazione per cui/da cui è stato creato. Quindi cresce. Subisce
modificazioni che dipendono dal progressivo cambiare dei gusti e dei costumi.
Alcuni aspetti particolarmente sgradevoli o cruenti di esso possono divenire
elementi criptici, solo per gli iniziati di quelli che diventano riti
misterici. La vasta diffusione
territoriale di un mito è funzione, oltre che del suo grado di palatabilità per
il pubblico, anche della sua vetustà. I meccanismi per mezzo dei quali essa
avviene sono il trasferimento demico, oppure l’imposizione culturale che segue
un’invasione militare, oppure un semplice contatto culturale per contiguità.
Giunto su nuovi lidi, il mito può essere sostanzialmente modificato, per
esigenze culturali o linguistiche (Melqart / Herakles), oppure essere
cancellato da cognizioni avverse e conoscenze superiori (oggi non crediamo più che
la Fenice rinasca dalle proprie ceneri). Il mito può essere invece conservato,
per motivi di gradimento politico religioso (il Graal, i Cavalieri erranti, il
castello della Fava, la “punica fides” della propaganda romana, il riso
sardanio). Un altro motivo per conservare il mito si ha, infine, quando
attecchisce tra popolazioni isolate e poco esposte a continui nuovi apporti
(l’Irlanda, i Paesi Baschi, la Sardegna). Quasi tutto ciò che riguarda la
Sardegna, in ogni campo, è stato o è tuttora oggetto d’affabulazioni
romantiche, di franche mistificazioni interessate, d’involontari
fraintendimenti, di superficiali imprecisioni. Il fenomeno non è distintivo
della Sardegna, bensì mondiale. Infatti, la creazione di miti è connaturata
all’uomo: egli ne crea in ogni campo instancabilmente di nuovi e aggiornati,
spesso senza rinnegare quelli più antichi.
Qualche volta, esiste un certo
fondamento di verità, nel mito. La Sindrome di Williams (descritta da un cardiologo neozelandese nel 1961), è
determinata da una delezione di un segmento del cromosoma 7, che a sua volta
causa una stenosi aortica sopravalvolare di vario grado. La malattia,
naturalmente, esiste da molto prima degli studi genetici che hanno permesso
d’inquadrarla in modo scientifico. Alcuni genetisti pensano, forse a ragione,
che questa sindrome sia stata ispiratrice di fiabe: i pazienti hanno corpi
piccoli, per un ritardo di crescita.
Possiedono veri volti da gnomo,
con nasi piccoli, labbra
carnose, mento sfuggente. Il loro QI è inferiore alla norma, essi necessitano
di ordine e prevedibilità ambientale, ma hanno anche una grande capacità
narrativa, (specialmente marcata
nell’Inglese, che è morfologicamente più povero del Francese e dell’Italiano) molta
sensibilità, doti musicali singolari: tutte caratteristiche corrispondenti al
“Piccolo popolo” degli elfi e dei folletti nordici. Le attuali favole
metropolitane per adulti, i racconti per bambini accanto al focolare, le
filosofie e le religioni, i pettegolezzi e le superstizioni e perfino alcune
tesi scientifiche sono i diversi livelli espressivi dell’instancabile genio
dell’uomo per la mitogenesi. Un esempio, su tutti, è la leggenda dei Ciclopi,
d’origine probabilmente greca. Recentemente, ne è stata data un’interessante
spiegazione: strati geologici anche molto superficiali contenevano i resti
numerosi d’elefantini nani[2], spesso affioranti e quindi esposti alla vista
dell’uomo, anche senza alcuna attività di scavo. Privato dei tessuti molli, lo
scheletro incompleto di un grosso mammifero può, a prima vista, assomigliare
molto a quello di un bipede. In particolare, il cranio di un elefante presenta
piccole cavità orbitarie laterali, che possono passare inosservate. Invece, il
grosso forame centrale per la proboscide dà proprio la forte impressione di
un’enorme orbita, fatta apposta per un unico grande occhio rotondo (= ciclope),
nella testa di un uomo gigantesco. Si tratta di un mito grande e potente, radicato nella fraintesa
evidenza oggettiva dei resti effettivamente visti da alcuni testimoni.
Affascinò varie culture, giungendo fino a noi anche per l’alta risonanza dei
versi omerici. Questa ricostruzione del mito, così riportata,
potrebbe forse non essere completamente veritiera, ma appare verosimile e
possiede il pregio di restituire una motivazione diretta ed umana ad una
creazione ingenua e fantastica, altrimenti priva d’ogni logica consequenziale
che la giustifichi. Un medico di Cagliari[3], ha da poco formulato un’altra ipotesi. Egli sostiene
che, nel caso dei cosiddetti ciclopi,
non si trattasse altro che di soggetti malati d’OPA (oloprosencefalia), una
malformazione su base tossica (da alcaloidi del veratro), che potrebbe essere
stata presente già ai tempi d’Omero, dando inizio al mito d’uomini mostruosi e
deformi, talvolta con un solo occhio. La Sardegna è terra fertile di miti e
leggende: alcuni molto antichi, a riprova della vetustà del bagaglio delle
prime popolazioni sarde[4]; altri, più recenti, sono frutto d’incredibili
errori, d’ingiustificabili incomprensioni o altro: tutti, in ogni modo,
interessanti. V’è solamente l’imbarazzo della scelta, a volere portare soltanto
alcuni tra i numerosissimi esempi sardi.
Nomi. E’ stato molto bene illustrato[5] che sia i toponimi, sia i fitonimi, sia gli
antroponimi sardi richiedano spesso approfondite spiegazioni non solo
etimologiche, (talvolta anche antropologiche, storiche o altro), perché i nomi
possano essere interamente compresi, nel lungo percorso che dalla prima origine
ne ha segnato lo sviluppo. Il nome dell’Ossidiana costituisce un buon esempio di ciò. Trattasi di una
pietra effusiva d’aspetto vetroso e di colore nerastro, più comunemente nota
sotto il nome di Liparite,
dall’isola siciliana in cui è abbondantissima. In Sardegna è facilmente
reperibile nella zona di Monte Arci. In epoca neolitica ebbe grande successo –
insieme alla selce dell’Anglona – per la sua facilità a scheggiarsi fornendo
raschiatoi, lame di coltello e di bisturi, punte di freccia o di lancia alla
vicina Corsica, che ne è priva, e a tutto il bacino del Mediterraneo. Orbene,
il termine deriva dal francese obsidienne, ricavato da un’erronea trascrizione del termine latino “obsiana
lapis”, con cui Plinio rendeva merito
al suo presunto scopritore, Obsio. Secondo Plinio, Obsio avrebbe scoperto il
vetro vulcanico in Etiopia. Senza
quell’anonimo errore di trascrizione, oggi parleremmo di “obsiana”, oppure di
“ossiana”. Si noti come, in ciascun caso, (Lipari o Etiopia) la paternità della
pietra sia aprioristicamente negata alla Sardegna. Invece, la storia di tutto
il Mediterraneo antico fu fortemente influenzata dalle rotte dei cercatori
d’ossidiana sarda, che divennero poi quelle dei cercatori di metalli… La storia
dei nomi imparentati con quello proprio dell’isola è altrettanto tormentata
quanto quella dell’isola stessa e dei suoi abitanti.
“Sardina”
indica un pesce clupeiforme commestibile, molto frequente nei nostri mari,
insieme a “sarda” (uno scombride,
di dimensioni maggiori) e “sardella”
(che oggi si attribuisce, spesso, al prodotto in scatola). Si pensa che i pesci
abbiano derivato il loro nome
da quello dell’isola, almeno, etimologicamente: pesce della Sardegna. Carta
Raspi[6] ha elaborato ipotesi sull’attività di pesca, salatura
e commercio, particolarmente favorite dall’ambiente sardo, forse addirittura
effettuate dai nativi stessi nei numerosi stagni costieri, non diversamente da
come avviene oggi. Può anche darsi che questo abbia originato l’attribuzione
del nome, pur se non vi sono prove circostanziate a dimostrarlo. La portanza
etimologica del vocabolo ha prodotto numerosi derivati. Nell’Adriatico,
l’acciuga si chiama ‘sardone’; ‘sardàra’ è il nome d’una rete per sardine del
tipo della menaide; ‘sardena’ è detto un piccolo clupeide, del Garda, simile
alla sardina; infine, il ‘sardenaro’ è una rete a strascico per la pesca dei
lucci, sempre sul Garda[7]. Ma, nel trarre le deduzioni, si deve prestare
attenzione. Anche una danza popolare, che si chiama Sardana e che si ballava in Catalogna (in passato, più
frequentemente d’oggi), andando in circolo, con movimento rapido e tenendosi per mano, è stata correlata
all’antico popolo dei Sardi. Talvolta si è addirittura attribuito tanto alla
migrazione demica (del popolo sardo), quanto a quella dell’elemento culturale,
(la danza in tondo), un senso inverso a quello est/ovest, che sembra storicamente più
verosimile. Però, la Sardana
sembra attestata in Spagna da circa il XVI secolo soltanto e non prima: troppo tardi, quindi, per attribuirla ad una
colonizzazione Shardana, come verrebbe istintivamente da pensare. Naturalmente,
perciò, la danza Sardana non può
essere usata neppure come dato probante dell’origine dei Sardi dalla Spagna,
quest’ultima tesi sicuramente smentita dalla Genetica, anche se presente nei
miti di fondazione[8]. Il termine sardegnolo (anche sardagnolo e sardignolo e, più anticamente, sardesco)
è motivo d’attrito tra isolani e turisti disinformati, per l’improprio uso che
questi ultimi ne fanno e che è sentito come spregiativo. Andrebbe riferito ad
animali (cavallo, asino di piccola taglia = musmo) per indicarne l’origine o la tipicità sarda. Alla
sardesca era detto un tipo di
matrimonio che riconosceva alla moglie l’assoluta proprietà dei propri beni,
anche dopo la celebrazione delle nozze[9]. Di diritto, invece, sardegnolo è l’attributo descrittivo dell’ormai raro asinello
sardo, proprio quello che la ditta Walt Disney prese a modello per il suo ormai
ben più famoso cartone animato, di fatto appropriandosene, forse anche
involontariamente[10]. Il destino comune delle cose sarde sembra infatti
propri questo: esistere, se non da sempre, certamente da molto prima delle
rispettive copie spurie di successo, e poi cadere nell’oblio e
nell’indifferenza di tutti. I mediocri biscotti industriali che il Regno di
Piemonte diffuse come “savoiardi” sul proprio territorio ed in seguito estese a
tutto il Regno d’Italia, derivano dalla semplice e ben più genuina ricetta del
gustoso “pistoccu”, semplice, antico, mispronunciato e disconosciuto (talvolta
venduto come “savoiardo sardo”!).
Analogo destino ha subito il Pecorino Sardo, che ufficialmente non
sarebbe preesistente al Pecorino Romano, ma anzi ne sarebbe derivato, per
essere stato introdotto dai Romani in Sardegna. Subire il furto di un tratto
culturale, ferisce forse anche di più che un furto materiale. Le guide
ricordano ai turisti che alcune colonne del Pantheon romano provengono dalla
scogliera granitica di Capo Testa. Riconoscimento dovuto, anche se costituisce
ormai una semplice curiosità. Ora, si può anche ammettere che i Sardi Pelliti
non avrebbero saputo costruire il Pantheon, con quel loro granito. Ma se i
Romani avessero davvero insegnato ai Sardi a fare il formaggio, ci sarebbe
allora da chiedersi di che cosa questi ultimi abbiano vissuto, per lunghi
secoli, prima dell’invasione. Sappiamo che alcuni dei cibi più antichi mai
prodotti al mondo sono latticini conservati. Nulla è più cagionevole del latte:
con temperature alte va rapidamente a male, se troppo basse gela e si scompone.
L’uomo preistorico fu costretto a sperimentare a lungo, prima di trovare un
valido sistema di conservazione per quella sua labile ricchezza. Naturalmente,
non disponeva di tecniche più avanzate (pastorizzazione, irradiazione,
conservazione in gas inerti), pertanto usò quello che aveva: il sale. “Il
latte, dice Columella, può essere fatto rapprendere con caglio d’agnello o di
capretto, anche se si può usare il fiore di cardo o il lattice di fico… va
tenuto al caldo, ma non vicino al fuoco… appena comincia a rapprendersi, va
posto in cesti, sotto pesi che ne facciano uscire il siero. Quindi, estratto
dalle forme, va messo in ambiente fresco e buio, su tavole pulite e cosparso di
sale tritato, in modo da trasudare il proprio umore acido”. Si pensava che i primi derivati del latte fossero
quelli Sumeri, di 4500 anni fa. Recentemente, però, sono state rinvenute tracce
di latte, yogurt di mucca e formaggio di capra in ciotole di 14 siti in Gran
Bretagna, risalenti a 6000 anni fa[11].
Columella, nel suo ‘De re rustica’, asseriva che il Pecorino può anche
attraversare il mare. Il che, nel I secolo a.C. ed in assenza di frigoriferi,
non è poco e parla a favore della nota “serbevolezza” del pecorino. Virgilio
racconta che un’oncia di quel cacio (30 grammi) entra nella razione totale del
soldato romano, insieme con una libbra e mezzo di farro (500 grammi), per fare
il ‘puls’, progenitore della polenta. I Romani ne hanno parlato e scritto
indubbiamente di più, ma i Sardi erano lì fin da prima e senza dubbi
conoscevano molto bene le tecniche casearie. Ufficialmente, dato che la
Sardegna offre pascoli e pecore adatte alla specifica ricetta del Pecorino
Romano, nel XIX secolo la Società
Casearia Romana addirittura si trasferì a Macomer in Sardegna, portandovi in
seguito anche macchinari moderni ed esperti delle tecniche casearie.
Adesso, l’80% della produzione avviene
nell’isola, su ricetta attribuita
ai romani. In realtà, si dovrebbe ammettere che essa è sarda: nessuno di noi
era lì a testimoniarlo direttamente, ma esistono prove indirette. Infatti,
molti termini che si rifanno al mondo dell’agricoltura e dell’allevamento,
dimostrano che il movimento del know-how tecnico-scientifico relativo avveniva, inizialmente, dalla Sardegna in
direzione della penisola e non viceversa[12]. Al
riguardo, è sicuramente utile fare una considerazione, per analogia, ad uso
degli scettici. Anche per il formaggio, appare più probabile un processo simile
a quello della diffusione dell’arco edilizio a tutto sesto, detto “arco
romano”. Quest’ultimo già faceva
parte del repertorio costruttivo di tutte le popolazioni italiche (e non solo
di esse), ma il potente e ricco
stato romano lo adottò, lo fece suo per praticità e bellezza e lo diffuse in
modo intensivo nel mondo, che gliene attribuì l’invenzione. Similmente avviene per il cosiddetto “coppo
romano”, per niente romano in
origine. Quest’ultimo, anzi, fu poi introdotto in Nord-America dagli Spagnoli,
che lo usarono per le loro famose missioni cattoliche. Perciò è conosciuto
laggiù con il termine inglese “spanish tile”, cioè coppo spagnolo, proseguendo la catena delle
errate attribuzioni. Ma c’è di più. E’ perlomeno curioso il fatto che, accanto
a verbi latini, quali intellego o
intelligo (intendere) e sentio (avvedersi), esista il verbo latino sardare (sardo, -as, are. Intrans, usato da Nevio e altri), con il significato di comprendere, forse comprendere rapidamente. Si è ipotizzato che si tratti di un vocabolo coniato
in seguito all’osservazione della grande propensione dei sardi per la lingua dei conquistatori latini. M. Pittau, per motivi di precedenza
temporale e predominanza culturale, spiega la cosa con il fatto che il Latino
abbia molto ricevuto dall’Etrusco. Sostiene inoltre che Etrusco e Paleosardo
fossero lingue imparentate tra loro e che, pertanto, la lingua dei
conquistatori latino-parlanti dovesse essere di facile apprendimento per i
Sardi[13]. Con
la sardonia, o sardonica, entriamo nel vivo del discorso sul mito: si tratta
di un’erba delle ranuncolacee, (Ranunculus sceleratus, ranuncolo palustre, apiu burdu, erba de ranas) dai fiori piccoli e gialli,
velenosissima e non esclusivamente sarda, bensì panmediterranea. Le sue
proprietà erano già note in tempi antichi da Romani e Greci. Il nome deriva dal
latino sardonia, che viene dal
greco sardònion, derivato di sardò. Sembra indiscutibile l’antico e stretto rapporto tra
il nome del popolo e quello della pianta, forse rintraccibile nell’etimologia[14]. E’ ovvio che il pensiero corra al vocabolo sardonico, attribuito al riso amaro e di scherno, che
conferisce al volto un’espressione cattiva e beffarda, offensiva e
provocatoria. Fazio degli Uberti, nel suo Dittamondo, descrisse così in terzine
quello che si riteneva fosse l’effetto singolare e malefico dell’erba sardonia:
“Un’erba
v’è, spiacevole e villana:
questa,
gustata, senza fallo uccide;
e,
s’ella è rea, è ancora molto strana
che
in forma propria d’un uom quando ride
gli
cambia il volto e gli dispone i denti:
siffatto
mostro giammai non si vide.”
Un medico senese del XVI secolo, Pietro Andrea
Mattioli, racconta che in Sardegna si ricorreva ad una varietà di ranuncolo (Apio
rustico o Apium Risum), mescolata a cicuta, per uccidere gli anziani:
“Si crede che ridendo muoiono coloro
che se lo mangiano…Mangiato questo Apio di Sardegna, fa ritirare tutti i nervi
e però in tal modo fa slargare et distendere la bocca, che morendosine chi ne
mangia si rassembra nell’aspetto a uno che ride”.
La Medicina s’appropriò il famigerato termine “riso
sardonico”, per meglio descrivere quella contrattura spasmodica che l’infezione
tetanica può determinare già nei suoi primi stadi, più propriamente detta
“trisma” tetanico[15]. Il termine è ripreso dal Vittorini e dal Manzoni, ma
già s’incontra in Omero[16] e solo in seguito fu messo in relazione con l’herba
sardonia. Il riso sardonico è stato
associato a riti di geronticidio praticati - per necessità, forse -
nell’antichità. L’ipotesi è che esso rappresentasse l’espressione (obbligata, o
generata da orrore spontaneo) durante il rito e che i progenitori dei Sardi lo
avessero adottato, impressionando gli osservatori greci con i quali furono a
contatto nell’Egeo[17]. In toscano, si dà lo stesso nome ad una pianta delle
ombrellifere simile al sedano selvatico (Oenanthe Crocata, in sardo: apiu areste, fenugu de acqua,
turgusone, lua), anch’essa velenosa e
d’origine esclusivamente
sardo-corsa[18]. Nella realtà, però, non sappiamo come stessero le
cose. Chi rideva del riso sardanio? I vecchi padri sardi, in sprezzo del
proprio morire? I figli mentre li uccidevano, precipitandoli con raccapriccio
rituale dalle rupi? I bimbi cartaginesi, immolati nel fuoco del fantomatico e
probabilmente inesistente Molk? Il gigante di bronzo, Talo, nel bruciare le
proprie vittime appena sbarcate a Creta? Le vittime di Talo, ustionate dal suo corpo bronzeo
arroventato? L’incertezza è aggravata dai confusi e velleitari tentativi di
spiegazione degli scoliasti[19], che – globalmente – riescono soltanto a dimostrare
di non avere già più alcuna precisa memoria dell’origine del mito.
Ciononostante, essi hanno avuto buon giuoco cercando connessioni credibili tra
il verbo sairein e la forma
perfettiva seserenai ed il
vocabolo sardanion, tra i Sardi e
Creta, tra i Sardi ed i Cartaginesi. La Farmacopea Popolare sarda è da sempre
piuttosto ricca: molti sardi sono in grado tuttora di riconoscere l’euforbia (sa
lua), la scilla, la digitalis
purpurea ed altre erbe o arbusti con
attività tossiche, o mediche, o alimentari. Il riso sardonico, però, forse non
ha mai avuto – in origine, almeno – alcun vero rapporto con i Sardi e la
Sardegna. Lo dimostrerebbero anche altre espressioni meno note, ma del tutto
simili.
Il termine “lino sardonico” è riferito alla lavorazione del lino della Colchide,
simile a quella egiziana[20]. E’ in ogni modo evidente che non si può attribuire
di diritto alla Sardegna ogni vocabolo apparentemente corradicale. Per
coincidenza, però, altre omonimie si trovano nella stessa zona: ad esempio,
l’Olbia del Mar Nero[21]. Gli scoliasti non hanno cercato una correlazione
convincente tra Lino sardonico e Sardegna, anche perché l’argomento è di gran
lunga meno eccitante del riso terribile e mortifero. Inoltre, che i Nuragici
fossero circoncisi si potrebbe forse crederlo[22], ma che producessero lino egiziano in un’Olbia sul
Mar Nero e fossero addirittura negri, è davvero troppo. Il termine “sardonica” definisce una varietà d’agata, pietra preziosa che
presenta un’alternanza di zone chiare ad altre, scure, usata come gemma; deriva
dal latino Sardonyx, a sua volta
dal greco “Onice di Sardi”, riferendosi però – in questo caso - all’antica
città Lidia, non all’isola del Mediterraneo. La Sarda è anche un’altra pietra preziosa Lidia, usata
anticamente per sigilli, che consiste in un calcedonio marrone rossastro, che
si rinviene associata alla corniola.
Origine dei Sardi e della loro
Lingua. Di questo già si è detto per
esteso[23] in precedenza. Tra le numerose ipotesi vecchie e
nuove, alcune semplicistiche e fantasiose, sembra più verosimile quella che
ricostruisce a ritroso il percorso degli antichi Sardi fino al mare Egeo,
all’isola di Creta e all’odierna Turchia[24], i cui attuali abitanti nulla hanno in comune con
quelli antichissimi (né i tratti genetici, né la lingua, che ha la sua culla in
una zona centro asiatica). Qualche ipotesi più azzardata si spinge fino a
considerare le zone sud Caucasiche, forte anche delle numerose similitudini –
su base culturale popolare - tuttora vigenti tra questa zona e l’isola sarda[25]. Gli eventi che hanno portato i Sardi ad essere
quelli che vediamo, non sono di facile lettura. I Sardi antichi non uscirono
dalla loro ‘culla’ già identici ai Sardi d’oggi, è evidente. In realtà, poi, vi
furono più verosimilmente diverse ondate successive, in epoche differenti. Di
alcune non è rimasto alcunché, a parte qualche resto osseo archeologico. Una di
queste ondate fu più importante, perché dette inizio ad un processo economico,
demico e sociale fondamentale, che caratterizza tuttora l’isola. Era composta
di un gruppo d’agricoltori e pastori, che possedeva alcuni tratti culturali e genetici (non
ancora unici, allora), riconducibili a zone precise. Questo equivale a dire che
allora i Sardi erano in tutto simili alle popolazioni dalle quali si erano
separati, partendo per il loro destino; non avevano ancora alcunché di unico e
distintivo, salvo forse la volontà ed il coraggio d’intraprendere il viaggio.
Giunti che furono sull’isola, andarono incontro a quegli eventi geografici,
biologici e storici che li trasformarono in quelli che oggi chiamiamo,
impropriamente, i Nuragici. Oltre a non essere pienamente dimostrata, questa
tesi si presta a qualche critica metodologica. Tra le conseguenze delle
continue tensioni e guerre in Turchia, Cecenia, Georgia, Iraq ed Afghanistan vi
è, infatti, (oltre a tutto il resto) la chiusura delle frontiere ad ogni tipo
di studio e di ricerca sul campo. L’interesse elettivo internazionale si è
conseguentemente focalizzato da anni sulla Siria, come nuovo provvisorio paradiso
di ricerca archeologica, paleoantropologia, genetica e storica. Non è quindi un
caso che i più recenti risultati, in tutti quei campi specialistici di ricerca
provengano in misura preponderante da una zona piuttosto ristretta, che
potrebbe non essere sufficientemente rappresentativa del quadro totale.
Inoltre, le vicende delle popolazioni e dell’ambiente di tutta una vasta area
mediorientale sono state così perversamente complesse, da costituire ormai un
rebus irrisolvibile.
Un popolo spezzato. Alcuni descrivono così i sardi, dopo la conquista
straniera. Tale affermazione, d’indubbio effetto, deve essere rifiutata, per
molti motivi. È vero che la conquista mise fine alla storia ed allo sviluppo
indipendente dell’isola, così come sarebbe potuta essere e come noi non sapremo
mai. Ma è altrettanto vero che i sardo-nuragici furono autori di un singolare
miracolo, in una terra che, pur essendo molto diversa da come la vediamo oggi, non
offriva quasi nulla. E’ noto che
certi ambienti forniscono più materiale, con cui far partire (e condizioni più
favorevoli, con cui continuare) il processo agricoltura - tecnologia -
ricchezza - scrittura - armi - conquista - sviluppo. In alcune zone del mondo,
non si sono mai raggiunti i traguardi dei Nuragici. Ad esempio, la Nuova
Guinea, che è estesa come Francia ed Italia insieme, offre molto di più della
Sardegna ed è stata popolata molto prima. Infatti, in Guinea approdarono i
primi uomini che inventarono, nel mondo, le barche: essi v’introdussero la
ceramica, l’allevamento d’animali da cortile e la manifattura dei metalli, ma
il progresso, semplicemente, non s’innescò. Analogamente, si può dire di molte
altre zone e dei loro popoli, alcuni dei quali furono sterminati, pur vivendo
in terre più ricche e fortunate dei Nuragici. A volte, le fortune d’intere
masse sono determinate dal capriccio dei pochi che sono al comando, come
avvenne per la Cina[26], oppure per il Giappone[27]. Scelte sbagliate possono derivare da motivi
religiosi, tradizioni radicate, oppure semplici errori. I sardi furono
sconfitti, è vero, ma unicamente dal tempo, o per meglio dire, dalla mancanza di esso, in relazione alla lentezza di sviluppo che
l’isolamento e l’ambiente imponevano. Resta loro, comunque, un merito che è al
contempo un primato indiscusso: essi dettero inizio alla prima, grande Civiltà
della Penisola Italiana, definita da tempo e con merito come “la Perla
dell’Occidente Mediterraneo[28]”.
[1] Il Great
Zimbabwe assomiglia ad un nuraghe, costruito con piccole pietre, ma è stato
costruito attorno al 900 d.C.
[2] È il
Dinotherium Gigantisimum, risalente a 7 milioni d’anni fa, rinvenuto anche in
Turchia e a Creta: era un quadrupede più basso di un metro e mezzo,
probabilmente erbivoro, si suppone capace di nuotare.
[3] Il
tossicologo dott. A. Varcari.
[4] Nel 1867, lo
Spano giunse ad offrire (inutilmente) la somma di 1000 lire a chiunque gli
portasse uno di questi enormi teschi, di cui anche in Sardegna si parlava e di
cui anche G.A Masala scrisse (1803). Da Sard Antica N° 9, 1996: “Il mito dei
giganti e il nuragico”, di G. Manca.
[5] M. Pittau,
[6] Storia della
Sardegna,
[7] Inoltre, il
Greco sardones si riferisce a reti da
caccia; il francese sardun a reti
da pesca (Pittau, OPSE, 1995, Delfino).
[8] Secondo
Pausania e Solino, Norace avrebbe fondato in Sardegna Nora, provenendo da
Tartesso in Iberia. Era figlio d’Erizia, nata da Gerione. S’interseca
curiosamente con il mito dell’Occidente mitico e di Eracle, che avrebbe rubato
le famose mandrie del re iberico e, in un’altra impresa, mirato ai pomi dorati
custoditi dalle Esperidi, una delle quali aveva nome Erizia (“La Rossa”).
[9] L’uso più
diffuso nella Sardegna barocca sembra essere stato quello di derivazione dal
diritto canonico Spagnolo, che dava al marito la proprietà della dote della
moglie. L’uso sardo era più sicuro, in caso di fallimento del marito e dava
grande importanza alla donna (da Michele Carta, lettura sul periodo barocco
nella Baronia, Orosei, 2003).
[10] Il
Sardegnolo è comparso per la prima volta in “Pinocchio”: è molto vivace, di
piccola taglia, dal dorso grigio e con ventre chiaro, molto diverso, pertanto,
dall’asino albino con occhi azzurri dell’isola di Caprera, a maggior rischio
d’estinzione.
[11] Richard
Evershed, biochimico dell’Università di Bristol, 2001.
[12] Ad es.: da
“camu” – il bastoncino/museruola usato per svezzare gli agnelli, deriva
“camuso”, per l’aspetto più tozzo che assume il musetto dell’animale. Il Lat. Asinus deriva da Ainu, etc.
[13] Insomma, il
Neosardo sarebbe il risultato della romanzizzazione di una lingua Paleosarda che, almeno in alcune sue
parti, attraverso l’Etrusco, aveva precedentemente contribuito a formare, o
almeno influenzato, il Latino stesso.
[14]
Specialmente l’antichità di questo
legame sembra legittimare quelle connessioni della Sardegna con l’Egeo e Creta,
con il mito di Talo, con il racconto Erodoteo della migrazione, con le
vicissitudini dei misteriosi Pelasgi, etc. più autorevolmente descritte in
dettaglio altrove (Pittau,).
[15] Si tratta
di una contrattura spasmodica dei muscoli masticatori (masseteri, temporali e
pterigoidei), con impossibilità di aprire la bocca. Il tetano, o rigor
nervorum è una malattia tossinfettiva
causata dalla tossina del clostridium tetani, generalmente in seguito a contaminazione di ferite
lacero-contuse. La malattia è oggi rara, ma di prognosi tuttora gravissima.
[16] Odissea,
XX, 302. Omero, in verità, non fa mai menzione alla Sardegna. È vero che, in
seguito, parla di Feaci e della loro terra, la Scherìa, (Od. VI, 204, 270; VII,
36, 81-102,108,328; VIII, 120,247, 253, 262, 380, 390), ma il Mediterraneo
offre varie località che possono identificarsi con i luoghi omerici.
[17] M. Pittau:
“Origine e parentela dei Sardi e degli Etruschi” Delfino Ed. 1995. Vi sono
illustrati gli stretti rapporti tra Kronos, (cui sacrificavano i Sardi),
Saturno (i Romani), Satre (gli Etruschi) e la corrispondenza con santu Sadurru.
[18] Come Erba
Sardonia, pertanto, è maggiormente indiziata della prima, che è relativamente
rara in Sardegna.
[19] Una schiera
disomogenea di chiosatori di testi antichi e famosi, alcuni dei quali perduti
in originale. Gli “scolii” risalgono ad un lungo periodo che va dal I sec d. C.
al XV secolo. Contengono errori degli amanuensi, omissioni, interpretazioni
personali, etc.
[20] Storie, II,
105. Erodoto descrive i Colchi come probabili discendenti di militari egiziani,
di pelle scura e con capelli crespi, rimasti in quelle terre dopo la conquista
di Sesostri, dando per scontato che ne hanno conservato nel tempo memoria, usi
e costumi, tra cui la pratica della circoncisione.
[21] Ne esiste
anche una in Gallia, fondata dai coloni greci Massalioti. Olbìa, significa in greco: “ la Felice”. Un nome d’uso
comune per un fondaco greco, come adesso “la bella Napoli” per una pizzeria.
[22] La
circoncisione ebbe una grande diffusione rituale religiosa, come patto
d’alleanza tra uomo e divinità, nel lontano passato. In seguito, fu sostituita
da altre cerimonie religiose non mutilanti (ad esempio, il battesimo): oggi è
limitata ad ebrei e musulmani e, nella medicina, ai casi clinici che la
richiedono (fimosi prepuziale, frenulo breve etc).
[23] Vedi S.A. # 18 e
19. “Orizines”.
[24] In cui si
trovava l’antica Lidia, con capitale Sardi. La cui pronuncia, però, (sfard) non
era omofona con Sardegna.
[25] Alcune sono
state descritte in “Orizines”, molte altre sono direttamente note a chi abbia
visitato il nord dell’Iran. Le abitudini alimentari, in specie il pane, molto
simile al “caresatu”, ma anche la
presenza d’altre specialità (formaggi, dolciumi), che non possono essere frutto
di mera e semplice improvvisazione, ad es.: “sa corda”, del cui passaggio in Grecia il “cocorezzi” costituisce una prova.
[26] Motivi di
potere interni interruppero la navigazione della marineria più avanzata. Distrutta
la flotta, anche il commercio e lo sviluppo della società intera ne soffrirono.
[27] La
distruzione di tutte le armi da fuoco, voluta per motivi di prestigio personale
dagli spadaccini Sho-gun, durò fino a quando gli eventi costrinsero alla loro
reintroduzione, per evitare alla nazione di soccombere.
[28] G. Patroni,
La preistoria, 1951.