martedì 16 aprile 2013

Claudio De Palma


Dal Paese dei Tirreni 

di Claudio de Palma

Nuove letture di iscrizioni etrusche  alto arcaiche

Tra le molte migliaia di documenti scritti che testimoniano la meravigliosa fioritura della maggiore e più nota espressione della civiltà tirrenica, esamineremo qui una umile illustrazione di vita quotidiana in Etruria, pervasa di affetti familiari e di profondo spirito religioso.
Si tratta di una iscrizione graffita su un orciolo d’impasto nerastro (h cm 10, diam cm 12 ca) rinvenuto nel 1898 entro un tumulo nella tenuta di San Giuliano, a tre chilometri da Barbarano Romano, ed acquistato insieme ad un kàntharos di bucchero, pure iscritto e trovato nella medesima tomba, da Bonifacio Falconi 1
L’iscrizione sul kàntharos è destrorsa, e si può così trascrivere: mi atiia. Il senso è chiaro: ‘io [sono] di Ati'Ati è prenome femminile piuttosto diffuso in Etruria meridionale. Ati è però anche un nome comune, e significa ‘madre’. La nostra breve iscrizione si potrebbe quindi leggere anche così: ‘ io [sono] della madre ’.

La presenza già nel VII secolo (se questa datazione è, come pare, accettabile) di questo lemma originariamente nome comune qui in forma di prenome, è confermata dalla ben più complessa iscrizione che troviamo graffita sull’orciolo rinvenuto nella medesima tomba.
Questa iscrizione è graffita in caratteri regolari tracciati con una certa eleganza, con andamento della scrittura sinistrorsa, consueta nella stragrande maggioranza delle iscrizioni etrusche, ed a scriptio continua. Si tratta di settantaquattro lettere tracciate a spirale intorno al collo dell’orciolo. Due segni di interpunzione sembrano usati allo scopo di chiarire che la consonante che precede è quella finale di una sillaba chiusa, non legata alla vocale iniziale della parola che segue. Si tratta evidentemente di una finezza che può discendere solo dall’esistenza di scuole scribali già nel primo secolo di adozione della scrittura in Etruria.
Una particolarità grafica inusitata è la presenza in questa iscrizione di Barbarano del grafema B, che si trova negli alfabeti modello creati in Etruria utilizzando le lettere dell’alfabeto calcidese di Cuma, ma è altrimenti assente dalle iscrizioni. Ciò depone per l’alta arcaicità della nostra iscrizione, in quanto agli 1 
inizi dell’uso della scrittura comprensibilmente v’era esitazione fra l’adozione dell’uno o dell’altro grafema per esprimere un suono che si poteva rendere con la labiale tenue (p) ma anche con la media (b) o infine con la fricativa spirante (v). Ne troviamo un’eco nella resa grafica in latino di nomi propri come tihvarie/Tiberio e vipina/Vibenna.

Trattandosi di un’iscrizione a scriptio continua, le possibilità di lettura dipendono dalle cesure che si possono praticare  a dividere le possibili parole del testo. Le possibilità di soluzione sono quindi non infinite, ma certamente molte, e ne vediamo il risultato nelle varie letture proposte finora dagli studiosi. 2
In base a un’analisi combinatoria, sintattica e comparativa con altri testi etruschi confrontabili geograficamente e temporalmente (ad es. l’iscrizione sull’ aryballos Poupé) possiamo proporre la trascrizione seguente:

eth avaithi zusuzai limuna atiuthnath akarai sinia serinla man aizaruva alqu mazba vanaia h

La lettura che proponiamo è la seguente:

In questo orciolo versò [succo di] limone/ cedro/ bergamotto acarai [della gens] attia [figlia] di sinu/a giovinetta dono [per] gli dei inferi consacrante h (Hastia?, Husa?) figlia di vana

Il primo lemma, eth, è una variante del pronome dimostrativo eta, e in questa forma introduce il discorso anche in altri testi, come la Tabula Cortonensis, con un significato pregnante vicino al nostro ‘ecco’, latino hoc est.3 Lo ritroviamo infatti nella Tabula Capuana ai righi 11, 12, 25, 27, a Tarquinia (ET 5.7; ET 8.2), nell’ Ager Vulcensis (ET 4.1, lato A e lato B), a Perugia, ipogeo di San Manno (ET 5.2.).
Segue il lemma avaithi. Dovrebbe trattarsi di una forma derivata dalla radice indeuropea ap/av: ‘acqua’. La lunga coesistenza su suolo anatolico prima e italico poi della nazione tirrenica con ethnoi indeuropei ha portato a numerosi prestiti dell’i.e. in etrusco e viceversa. In antico indiano avatàh significa ‘sorgente’ e ‘cisterna’; in Italia abbiamo idrònimi ed orònimi quali ‘àvena’, ‘àune’, ‘àvesa’ e il toponimo ‘àbano’, tutti nel Veneto, forse l’idronimo ‘sàvena’ in Emilia, l’idronimo ‘avens’ in Sabina e forse anche il colle ‘aventino’ a Roma. L’infisso i indica pertinenza, es.: zus-le-va-i: ‘pertinente a libagioni’, felz-na-i: ‘di Velzna’ (Volsini o Fèlsina), elina-i: ‘di Elena’. ava-i sta  
Nel lemma zusuzai, possiamo riconoscere un verbo attivo in terza persona singolare del perfetto: tema zusu, infisso fra terminazione in vocale del tema e suffisso verbale in vocale: z, in luogo del più comune s.  Si potrebbe pensare a un’armonia consonantica, in aggiunta all’armonia vocalica ampiamente presente nella lingua etrusca e confrontata con quella tipica della famiglia linguistica ugrofinnica. Il suffisso verbale è ai, forma ancora arcaica che conserva il dittongo perso invece nella monottongazione delle iscrizioni recenti che hanno e. Questa forma originaria in –ai si ritrova nelle due iscrizioni sulla stele di Kaminia (Lemno), ascrivibile alla prima metà del VI secolo ma in area periferica e conservativa.
Il tema zusu è riscontrabile anche nella parola iniziale dell’altrettanto antica iscrizione dell’ aryballos Poupé, pure proveniente dall’Etruria meridionale: zus-atunina. Un composto è il lemma molto frequente zusle, presente nella Tegola di Capua ai righi 9, 11, 23 e nella forma zusle-i al rigo 26. Nel derivato zusleva è presente, sempre nella Tegola, ai righi 15 e 25, e nella forma zuslevai al rigo 11.
Anche questa radice sembra essere indeuropea: vedasi i.e. SEU/SU, lat. sucus, ital. ‘succiare’.

Il Pittau traduce il lemma suci nel Liber Linteus come ‘aroma’, ‘essenza’, ivi presente anche nella forma collettiva: suci-va.
Ricordando Teocrito, ‘Le Siracusane’, si potrebbe pensare, per l’inizio dell’iscrizione sull’aryballos, a un profumo ‘di Adone’. Teocrito descrive in proposito ‘le ampolle dorate contenenti aromi di Siria’.
In etrusco, zusle sembra significare ‘libagione’, e al collettivo zusle-va l’insieme delle offerte rituali basate sui liquidi. 4
Trattandosi di una forma verbale, possiamo attribuire a zusuzai il significato di ‘versò’.
Segue limuna, la cui interpretazione come nome di un agrume profumato come il limone o il cedro o il bergamotto non sarebbe fuori luogo pensando all’uso che delle essenze ottenute con questi frutti si faceva anche in Anatolia, dove i testi ittiti ci raccontano dei rituali di libagioni ittiti e hurriti, con uso appunto di tali  essenze.  5  
In ittita troviamo infatti la parola limma, una bevanda diversa sia dal vino, sia dalla birra, come si esprime il Chicago University .
Hittite Dictionary, parola presente in numerosi testi ittiti da Boghazkale. 6
Il lemma seguente: atiuthnath presenta una terminazione in nath che potrebbe rappresentare un gentilizio in –na e un genitivo in –th, con l’alternanza  -th/-s frequente in etrusco: larth/lars, huth/husina, ecc.
Il gentilizio atiusnas deriva dal prenome ati che troviamo in genitivo anche nell’iscrizione dell’aryballos Poupé: atiuth. Come abbiamo detto, ati in origine è nome comune, col significato di ‘madre’, ma verrà poi usato anche come nome di persona. Una ulteriore determinazione dà atia per il prenome femminile (atiia  - atial al genitivo) e atiu per il maschile. Analogamente vediamo sulla lamina plumbea da Pech Maho il prenome maschile sinu mentre più oltre, nel testo qui in esame, troveremo sina, genitivo sinia, al femminile.
La formazione di atiu e atia potrebbe essere dovuta alla necessità di indicare l’appartenenza dei figli, maschi e femmine, alla madre, e cioè coloro che l’amore legava alla genitrice. Questi si sarebbero trasformati in cognomina, cioè un secondo nome aggiunto al prenome, col significato pregnante derivante dal nome comune originario. In italiano, potremmo così tradurre: ‘figlio di mamma’ e ‘figlia di mamma’ rispettivamente.
La forma che troviamo nel testo di Barbarano conduce ad un patronimico: atius, o matronimico: atial.  Da atiuth deriva la forma del gentilizio in –na: atiusnas, col suffisso in –s del genitivo. La forma italiana potrebbe essere: ‘della famiglia  (o ‘della gens’) degli Attii’.
Segue il prenome femminile akarai, una donna appartenente alla famiglia degli Atiuna.
Anche questa parola si ritrova nell’iscrizione dell’aryballos Poupé, con la quale i confronti sono stringenti. Ben sette lemmi sono comuni alle due iscrizioni. Una prosecuzione del presente studio sarà dedicata alla esegesi anche di questa seconda iscrizione arcaica sud-etrusca. Sull’aryballos, akarai viene immediatamente  dopo il lemma zikh:\  si tratta quindi della firma dell’autrice dell’iscrizione, ciò che conferma la natura 6 di appartenenza al mondo femminile di ambedue  i monumenti, e inoltre ci dà una nuova attestazione della alfabetizzazione in Etruria delle classi colte in entrambi i sessi, una situazione culturale della donna, cioè, invidiabile da molte società nel mondo attuale.
La terminazione in –ai è comune nell’area etrusca meridionale della metà del VI secolo: ricordiamo le forme arant-ai, tet-ai, culn-ai, vern-ai, velkh-ai, artin-ai. Non si tratta però di un dittongo, come nelle forme verbali del perfetto attivo terza sing. tipo zusuz-ai, ma di una terminazione tematica in –a con apposizione dell’identificativo del genere femminile in –i, quindi a+i.
L’onomastico akarai usato come gentilizio  è presente anche a Chiusi (ET 1.555, 1.563, 1.961) e a Perugia (ET 1.967), però qui in genitivo, come prenome indicante matronimico: akarial.  A Chiusi troviamo le forme ankhari, akhari, ancaria, tutte usate come gentilizi femminili (ET Cl 1.666, 667, 668).
Nell’Agro Falisco troviamo il prenome  maschile anco (v. Ancus Marcius),  che appare di derivazione dall’etrusco ankharie.  Nell’iscrizione ‘A’ sulla stele di Kaminia (Lemno) troviamo il prenome aker (equivalente al diffusissimo etrusco akhle) parallelo al Lin. B da Knossòs akireu e al greco classico akhileus, cioè Achille.
Il lemma seguente: sinia, è presente anche nelle bende della Mummia, almeno dubitativamente, nella radice sin, riferita ad eiser e a vinum (col. IV, V, IX). In NRIE 244 abbiamo:caini: sin.
Nella lamina plumbea da Pech Maho abbiamo hinu che corrisponde a sinu (lat. sentius, etr. senti a Volsini)  nome proprio nella formula bimembre hinu tusna riferita al magistrato etrusco che redasse l’atto. Ricordiamo che tusna è l’ordinale di thu = ‘uno’, e significa quindi ‘primo’, usato (come prenome) anche in italiano.
La forma femminile di questo nome proprio: sina, si trova graffita in lettere arcaiche all’interno della ciotola in bucchero documentata nell’archivio fotografico dell’Istituto Archeologico Germanico a Roma (negativo n. 64564). Qui con sina abbiamo senza dubbio la forma dalla quale è derivato il matronimico sinia del nostro orciolo: ‘figlia di Sina’.

Il lemma serinla presenta difficoltà interpretative notevoli, non essendo attestato finora altrove in Etruria né fuori. Troviamo nella Tegola di Capua ai righi 22 e 24 la forma seril sempre davanti a turza o tur(u)sa. Nelle bende abbiamo la forma zeri in II, 2 – IV, 2 (?) – V, 2 – VII, 21- IX, 1, 8; e la forma seri in X, 17.
Nella stele di Kaminia abbiamo serona che dovrebbe significare re, principe, e che ritroviamo nel filisteo seren proprio con questo significato, oltre che nel lidio ser-li = ‘capo’, nell’ittita cuneiforme ser = ‘sopra’, ‘alto’.
Nelle iscrizioni sulle stele tartessie (Iberia meridionale) nelle quali alcuni ravvisano una lingua che presenta analogie con l’etrusco, si trova ripetuta più volte la parola saronnah la quale dovrebbe avere significato analogo al lemnio serona.
Una ulteriore conferma al convicimento del Meriggi  (SE XI, p. 181) che la radice ser indicasse il concetto di ‘signore’ la abbiamo nell’iscrizione incisa su uno specchio di bronzo volterrano con le figure di Uni che allatta Hercle e di Tin che tiene sollevata sul capo di Uni una tabella che reca tra l'altro il lemma sren, forse contrazione di seren, che potrebbe essere riferito a Tin = Zeus, re dell’Olimpo.
Poiché il suffisso –la indica in etrusco l’accezione di diminutivo, potremmo leggere questa parola come indicante una  ‘giovinetta’, e infatti la defunta, Akarai Sinia Atiusnas, non ha gamonimico, quindi doveva essere ancora nubile.
L’espressione seguente: man aizaruva dovrebbe leggersi come ‘divinità infere’. In effetti, il lemma man che di nuovo è presente anche nell’aryballos  Poupé, è una ben nota radice dal significato connesso col mondo sotterraneo, e molto produttiva in etrusco.
Nella forma man  appare a Heba (TLE   359): …nesl man …, a Perugia (TLE 579): … man sekhis …, a Montaperti (TLE 431): ta suti man alcu …, e in tutte queste iscrizioni                    sembra confermata la lettura ‘infero’ o simile. In latino abbiamo manum col significato di ‘buono’, da cui manes = ‘anime buone’, ‘anime dei defunti’, per cui potremmo anche attribuire in alcuni casi all’etrusco man il significato di ‘anima’.
Un uso di questo lemma in latino a indicare il concetto di ‘profumo’ lo troviamo in Phaedr.  3, 1, 5: anima amphorae = ‘profumo del vino’. Lo citiamo in quanto questa iscrizione inizia  proprio con la illustrazione dell’atto di versare o spremere un  succo di agrume fragrante nell’orciolo messo nella tomba accanto al corpo della defunta.  Ne potrebbe conseguire una lettura alternativa a quella già qui proposta, e cioè:  ‘dono profumato per gli dèi’, anziché ‘dono per gli dèi inferi’, riferendo cioè man ad alqu anziché ad aizaruva.
Il man alcu  in una iscrizione parietale senese (CIE 216)   sembra  confermare piuttosto la interpretazione ‘infero’ in quanto si tratta della facciata di un sepolcro, quindi ‘dono agl’inferi’.
aizaruva procede chiaramente dal tema ais, aiser al plurale, che significa ‘dio’/’dei’. La s e la z , qui come altrove, si alternano frequentemente. Nella Mummia abbiamo ais nelle colonne IV, V e VIII. Il plurale aiser nella IV colonna.
Da Feltre proviene l’iscrizione: ki aiser tinia … riferito a divinità celesti: ‘tre divinità: Tinia, Ti….’.  La seconda divinità, dopo Tinia-Zeus, potrebbe essere tivr/tiv, e cioè : astri/ Luna-Selene.   Sulla terza non è utile fare congetture.
aizaru-va  ha il suffisso  che indica l’idea del ‘collettivo’ e in greco potrebbe anche tradursi con  pantheon.
alqu va collegato senza dubbio a man aizaruva che precede, e indica il dono degli dèi inferi o forse piuttosto il dono ‘per’ gli dèi inferi che viene posto nella tomba per accompagnare la defunta nel suo viaggio  nell’oltretomba. Troviamo questo lemma anche nelle consuete varianti di  kh e di c in luogo della q, ad es. : alkhu nella Tegola di Capua, righi 10 e 18, e alcu a Montaperti (TLE 431) ta suthi man alcu …, cioè: ‘questa tomba è dono (‘per’ o ‘a’ oppure ‘da’)  [gli] inferi’.
Vi sono anche forme in k dalla radice verbale al: alke  ma anche alce nella terza persona singolare (e plurale?) del perfetto. In terza persona singolare sono certamente le iscrizioni ET Ta 3.5 (alce) e ET Fa 3.5.:alike. In quest’ultimo esempio si è conservata la vocale debole interna, indice sicuro di arcaicità, in questo caso, probabilmente del VII secolo.
Il lemma mazba, che leggiamo come unico lemma, diversamente da altri studiosi, presenta il grafema b degli alfabeti modello che ripresentano le lettere dell’alfabeto greco tale e quale, prima cioè che l’uso prevalso nelle scuole scribali eliminasse quei grafemi che non corrispondevano a fonemi realmente esistenti nella lingua etrusca, oppure non distinguibili da altri fonemi vicini già resi da altri grafemi.
In questo caso possiamo ritenere che uno scriba di epoca più recente avrebbe senz’altro usato un diverso grafema a rendere il suono labiale b, in questo caso evidentemente poco marcato come doveva esserlo in genere la b nella lingua etrusca. Un grafema che potremmo indicare come v o anche come u breve (digamma greco).
Possiamo quindi considerare mazba come un comune derivato in –va o  -ua, es. ET A.S. 1.4.: velia masua o ET Vt 4.01: arne masve ceicnei, o ET Vc 3.6: heph masuve … La radice è mas, e il derivato può indicare collettivo (ma non negli esempi sopra dati) o derivazione/appartenenza.
La radice  mas in forma non derivata  non appare in alcuna delle iscrizioni etrusche ad oggi note. Abbiamo già notato alcuni derivati in –ua, -va, -ve. Un derivato importante, che appartiene sicuramente, dati i contesti, alla categoria dei nomi, è il lemma masan. Lo troviamo nella celeberrima terza  lamina d’oro di Pyrgi (il porto di Caere) nel seguente contesto: nac thefarie veliiunas thamuce cleva etanal masan tiur unias
Com’è noto, la maggior parte delle interpretazioni concorda nel dare a masan il significato di ‘nome di mese’, ritenendo che tiur che segue indichi appunto il concetto di ‘mese’ ( da tiv che indica la ‘luna’, astro o divinità astrale che sul Fegato di Piacenza fa coppia con usil, il sole). Si presume che nella colonna XXII delle bende della Mummia di Zagabria il rituale descritto vada effettuato nel corso del mese ‘masan’, come altri rituali in altre colonne sono riservati ad altri mesi dell’anno dedicati ad altre divinità. La colonna XXII, però, manca del rigo iniziale, ed era probabilmente qui che si dava l’indicazione del nome del mese.
Un significato diverso di masan, collegato alla sfera del culto, potrebbe essere quello di ‘tempio’, ‘casa della divinità’. Abbiamo visto che le iscrizioni etrusche non ci hanno lasciato traccia del tema mas, ma solo dei derivati masva, masve, masua, masan.  Nelle lingue asianiche tutavia possiamo cercare un confronto, e in effetti lo troviamo nel lemma luvio massana, ittita massanami, che valgono: ‘funzionario del tempio’, cioè sacerdote o comunque una particolare figura di ‘addetto al culto’, che potrebbe essere un ufficio ricoperto anche da un  ‘laico’ negli esempi in masua, masva, masuve che abbiamo citati nell’etrusco.
In licio (A) abbiamo mahana che significa ‘dio’. Nell’onomastica asianica molti sono i nomi di re di Lidia chiamati masnes, manes, nomi presenti anche in leggende su monete lidie. Ancora troviamo in cario il nome proprio mesna, in sidetico masara, infine in miliaco masaiz (pl.).
Dando a masan il significato di ‘casa del dio’, ‘tempio’, il senso del brano su riportato dalla lamina di Pyrgi potrebbe suonare così: ‘Thefarie Velianas pose le fondamenta di questo tempio di Uni Urania’ … Traduciamo in ‘Urania’ tiur che ci sembra evidente epiteto di Uni (diversamente da quanto vedremo fra poco sull’altra lamina d’oro di Pyrgi in lingua etrusca).
L’Uni di Pyrgi è infatti chiaramente una divinità celeste, e il santuario era dedicato a Thesan (l’Aurora) alla quale sembra appartenere una bellissima testa femminile in terracotta, la greca Leucothea e/o Eilithya, alle quali corrispondevano nel pantheon latino la Mater Matuta e Juno Lucina, tutte collegate all’idea del nuovo giorno, della nuova vita che si schiude.
Il significato di ‘Urania’ non è ingiustificato, se si guarda alla base – comune alle lingue indeuropee – ti (deiwo i.e.). Il tivr del Fegato è l’esito di un protoetrusco ricostruibile in tivur da cui deriva anche tiur di Pyrgi. Tivu / tiu è l’esito del concetto di ‘luce riflessa’, proprio della luna e dei pianeti, mentre tin è il concetto della luce attiva, che dà luminosità e calore, attributi propri di tin/zeus (la luce di tiu è passiva, come passive sono cesu, lupu e gli altri derivati verbali in –u.  tiur è ovviamente il plurale in –r di tiu).  Il passaggio da tivur a tiur  è lo stesso di avele ad aule o di theitur a tethu e tetu. Il passaggio è lo stesso osservabile in Kaminia/B con toveronarom-tuvruna-turuna.
Uni-tiur corrisponde pertanto ad ishtar/astar(te, la dea urania fenicia e punica la cui chioma è ornata da un diadema di stelle. Il titolo tiur è al plurale (‘gli astri’) come è al plurale il teonimo fenicio: astarte. Corrispondenza quindi fra testo fenicio-cipriota (o punico, secondo altri) e testo etrusco.
Nelle Bende II, 5 leggiamo: ethrse (tin)si tiu-r-i-m avils khis che possiamo di conseguenza così interpretare: ‘brucia [la vittima sacrificale] a tin e agli astri ogni tre anni’, oppure ‘tre volte in un anno’. La stessa frase viene ripetuta in III, 21; IV, 2; V, 4; VIII, 15; IX, 3; IX, 10. Abbiamo dato una traduzione possibile di ethrse (verbo in modo imperativo) confrontandolo col nome comune (da una glossa di Festo) e cioè  verse che, secondo Festo, significherebbe ‘fuoco’ in etrusco.
Una conferma della individuazione del significato di masan in ‘tempio’ ci è data di nuovo dal testo delle Bende. In XII, 10 abbiamo: vacltnam thunem cialkhus masn unialti ursmnal. Traduzione proposta: ‘e il rituale il ventinovesimo giorno nel tempio di Uni Ursumna’. La forma arcaica del gentilizio è ursumenaies. Si tratta della famiglia alla quale era affidata pro-tempore la cura del culto nel tempio di Uni. 7
Torniamo alle lamine d’oro di Pyrgi. Questa volta alla prima e più lunga iscrizione etrusca, proprio al suo inizio: ita tmia icac heramsva vatiekhe unialastres themiasa mekhl thuta thefariei velianas, che proponiamo di leggere così:

 ‘questo santuario (tèmenos) e queste statue affidò sede del culto di Uni l’assemblea popolare a Thefarie Velianas …’. 8
Qui era stata da vari esegeti prospettata, in analogia col testo fenicio, l’idea che Unialastres fosse in realtà l’abbinamento dei nomi etrusco e fenicio della Dea: Uni-Astarte. Questa tesi
non  pare a noi sostenibile, sia perché il periodo del sincretismo ellenistico è ancora lontano, sia perché un mercante fenicio di passaggio nel porto di Pyrgi non avrebbe certamente compreso chi fosse questa Uni che veniva abbinata, forse sacrilegamente, alla sua Dea Astarte. In ogni caso, un abbinamento di fatto esisteva, reso necessario dalla natura di porto cosmopolita di Pyrgi, il maggiore dei porti di quella che era allora la più ricca e potente città marinara etrusca: Caere-Kisra.
Secondo noi, la terminazione –stres sta a indicare semplicemente appartenenza a un gruppo, a un insieme  di persone e/o cose. Abbiamo diversi esempi di questo suffisso in iscrizioni etrusche: hali-s-tres (nome proprio = ‘appartenente al clan degli Hali’); spurestres (‘appartenente alla città’) e sacnistres (‘appartenente ad sacra’) nelle Bende in II, 4; III, 21; V, 3; VIII, 14; IX, 3 e 10.  9
Per tornare al nostro testo sull’orciolo di Barbarano, modesto ma toccante  cimelio fra monumenti epigrafici tanto più importanti e solenni, ci pare che tradurre mazba/ masva/ masua come ‘consacrante’ ovvero ‘officiante’ sia congruo al quadro che si è venuto delineando e anche ai risultati del metodo combinatorio che abbiamo cercato di utilizzare.
Il testo termina con la firma praticamente della protagonista della cerimonia (di nuovo in genere femminile), anche se qui non si tratta espressamente di una firma (zikh) come nell’aryballos Poupé.
Vanaia è il nome proprio di genere femminile, che abbiamo già trovato nell’iscrizione  A di Kaminia nella forma del diminutivo vanala. Anche qui è in genitivo, o meglio una forma di possessivo in –ia che diventa nell’uso genitivo sia maschile, sia femminile, almeno in periodo arcaico. Si tratta verosimilmente di un matronimico riferito al grafema h che segue, abbreviazione del prenome femminile hastia o husa o hatha (forma ricavabile dal gentilizio hathelnas o hathisnas in ET Vs 1.12 e ET OA 3.3.).

L’iscrizione dell’orciolo di Barbarano può essere considerata esemplare di una società ancora arcaica, permeata di affetti familiari e di religiosità, pur essendo al tempo stesso una società complessa e stratificata nella quale la scrittura non è già più un mezzo di dominio di pochi su molti, ma un mezzo di comunicazione fra gli uomini e tra essi e gli dèi, utilizzato anche dalle classi poco abbienti di un livello che oggi chiameremmo di piccoli proprietari terrieri, mercanti o marinai e sopratutto anche dalle donne, che attraverso questi documenti ci danno testimonianza del livello culturale e dello status sociale di cui esse godevano nella società etrusca arcaica.
Forse però il sapore più profondo di questo testo risiede nel suo essere permeato di echi ancestrali che chiamano in causa l’oriente in un contesto non pubblico, come quello delle lamine di Pyrgi, ma squisitamente privato.  10


NOTE


1 per tutti, basti citare Etruscologia di M.Pallottino, Milano, Hoepli 1942 con numerosissime edizioni successive.
2  oltre al LATTES,  ricordiamo TORP e GOLDMANN.
3 il lemma lidio et indica ‘prescrizione’.
4       in hurrico suzo significa ‘vaso’. Nel rituale di libagioni conservato in Kbo 21.33 ecc., il sacerdote dice in hurrico: zu-uz-zu… (M.C.TREMOUILLE in Civiltà degli Hurriti, p.169, Napoli, Macchiaroli, 2000.
5       M.C.TREMOUILLE loc.cit., nota 6: ‘la parola cedro ricorre quattro volte nel testo di rituale hurrico-hittita in Kbo 21.33, KUB 32.49 a+b, Kbo 2312, Kbo 35.77 .
6 Hittite Dictionary of the Oriental Institute of the Chicago University, vol. L – N,  1989, p. 62.
7H.RIX: Das Etrruskische Cognomen, Wiesbaden, Otto Harrassowitz, 1963; v. anche S.MARCHESINI Studi onomastici e sociolinguistici sull’Etruria arcaica: il caso di Caere, Firenze, Olschki, 1997.
8       secondo C.DE SIMONE, la terminazione verbale in –khe indicherebbe la forma passiva del preterito, e il suffisso –tra, -tres  una specie di caso agentivo, cioè ‘da parte di…’; se così fosse, dovremmo tradurre ‘il santuario e queste statue furono consacrate da parte di Uni che ha affidato l’assemblea popolare di Caere a Thefarie Velianas’, ma questa lettura non ci pare sostenibile.
9    M.DURANTE paragona il suffisso etrusco a quello latino –ster in silve-ster, terre-ster, campe-ster (SE XXXI, 2519. 



10  Il rituale funerario di offerte di libagioni è attestato anche dal ritrovamento in contesti sepolcrali di kernoi e di altarini a cuppelle (per libagioni multiple, evidentemente) di età arcaica, ma già anche in epoca villanoviana.  Officiante di questi rituali è solitamente una donna, per età ed esperienza in grado di offrire una conoscenza adeguata delle forme e modalità da seguire (v. TREMOUILLE, op.cit., 156). Questa persona firmava anche la formula che veniva iscritta sull’oggetto (vaso o altro) usato per la funzione, ed era denominata ‘la Vecchia’ sia nel Paese dei Hurriti, sia in Kizzuwatna (op.cit, 161). Una situazione analoga è rilevata nel mondo ittita, ma le donne officianti riti magici o funerari sono qui principalmente straniere, provenienti dal Paese di Arzawa o dalla Siria settentrionale (R.Lebrun, Considérations sur la femme dans la société hittite, in Hethitica, III, Louvain, Institut de Linguistique de l’Univetrsité, 1979, p.109)