Dal Paese
dei Tirreni
di Claudio de Palma
Nuove letture di iscrizioni
etrusche alto arcaiche
Tra
le molte migliaia di documenti scritti che testimoniano la meravigliosa
fioritura della maggiore e più nota espressione della civiltà tirrenica,
esamineremo qui una umile illustrazione di vita quotidiana in Etruria, pervasa
di affetti familiari e di profondo spirito religioso.
Si
tratta di una iscrizione graffita su un orciolo d’impasto nerastro (h cm 10,
diam cm 12 ca) rinvenuto nel 1898 entro un tumulo nella tenuta di San Giuliano,
a tre chilometri da Barbarano Romano, ed acquistato insieme ad un kàntharos di bucchero, pure iscritto e trovato nella medesima
tomba, da Bonifacio Falconi 1
L’iscrizione
sul kàntharos è destrorsa, e si
può così trascrivere: mi atiia. Il
senso è chiaro: ‘io [sono] di Ati'. Ati è prenome
femminile piuttosto diffuso in Etruria meridionale. Ati è però anche un nome comune, e significa ‘madre’.
La nostra breve iscrizione si potrebbe quindi leggere anche così: ‘ io [sono] della madre ’.
La
presenza già nel VII secolo (se questa datazione è, come pare, accettabile) di
questo lemma originariamente nome comune qui in forma di prenome, è confermata
dalla ben più complessa iscrizione che troviamo graffita sull’orciolo rinvenuto
nella medesima tomba.
Questa
iscrizione è graffita in caratteri regolari tracciati con una certa eleganza,
con andamento della scrittura sinistrorsa, consueta nella stragrande
maggioranza delle iscrizioni etrusche, ed a scriptio continua. Si tratta di settantaquattro lettere tracciate a
spirale intorno al collo dell’orciolo. Due segni di interpunzione sembrano
usati allo scopo di chiarire che la consonante che precede è quella finale di
una sillaba chiusa, non legata alla vocale iniziale della parola che segue. Si
tratta evidentemente di una finezza che può discendere solo dall’esistenza di
scuole scribali già nel primo secolo di adozione della scrittura in Etruria.
Una
particolarità grafica inusitata è la presenza in questa iscrizione di Barbarano
del grafema B, che si trova negli
alfabeti modello creati in Etruria utilizzando le lettere dell’alfabeto
calcidese di Cuma, ma è altrimenti assente dalle iscrizioni. Ciò depone per
l’alta arcaicità della nostra iscrizione, in quanto agli 1
inizi
dell’uso della scrittura comprensibilmente v’era esitazione fra l’adozione
dell’uno o dell’altro grafema per esprimere un suono che si poteva rendere con
la labiale tenue (p) ma anche con la
media (b) o infine con la fricativa
spirante (v). Ne troviamo un’eco nella
resa grafica in latino di nomi propri come tihvarie/Tiberio e vipina/Vibenna.
Trattandosi
di un’iscrizione a scriptio continua, le possibilità di lettura dipendono dalle cesure
che si possono praticare a
dividere le possibili parole del testo. Le possibilità di soluzione sono quindi
non infinite, ma certamente molte, e ne
vediamo il risultato nelle varie letture proposte finora dagli studiosi. 2
In
base a un’analisi combinatoria, sintattica e comparativa con altri testi
etruschi confrontabili geograficamente e temporalmente (ad es. l’iscrizione
sull’ aryballos Poupé) possiamo
proporre la trascrizione seguente:
eth avaithi zusuzai limuna
atiuthnath akarai sinia serinla man aizaruva alqu mazba vanaia h
La
lettura che proponiamo è la seguente:
In questo orciolo versò [succo di] limone/ cedro/ bergamotto
acarai [della gens] attia [figlia] di sinu/a
giovinetta dono [per] gli
dei inferi consacrante h (Hastia?, Husa?) figlia
di vana
Il
primo lemma, eth, è una variante del
pronome dimostrativo eta, e in questa
forma introduce il discorso anche in altri testi, come la Tabula Cortonensis, con un significato pregnante vicino al nostro
‘ecco’, latino hoc est.3 Lo ritroviamo infatti nella Tabula Capuana ai righi 11, 12, 25, 27, a Tarquinia (ET 5.7; ET
8.2), nell’ Ager Vulcensis (ET
4.1, lato A e lato B), a Perugia, ipogeo di San Manno (ET 5.2.).
Segue
il lemma avaithi. Dovrebbe trattarsi di
una forma derivata dalla radice indeuropea ap/av: ‘acqua’. La lunga
coesistenza su suolo anatolico prima e italico poi della nazione tirrenica con ethnoi indeuropei ha portato a numerosi prestiti dell’i.e.
in etrusco e viceversa. In antico indiano avatàh significa ‘sorgente’ e ‘cisterna’; in Italia abbiamo idrònimi ed
orònimi quali ‘àvena’, ‘àune’, ‘àvesa’ e il toponimo ‘àbano’, tutti nel Veneto,
forse l’idronimo ‘sàvena’ in Emilia, l’idronimo ‘avens’ in Sabina e forse anche
il colle ‘aventino’ a Roma. L’infisso i
indica pertinenza, es.: zus-le-va-i: ‘pertinente a libagioni’, felz-na-i: ‘di Velzna’ (Volsini o Fèlsina), elina-i: ‘di
Elena’. ava-i sta
Nel
lemma zusuzai, possiamo riconoscere un
verbo attivo in terza persona singolare del perfetto: tema zusu, infisso fra terminazione in vocale del tema e
suffisso verbale in vocale: z, in luogo
del più comune s. Si potrebbe pensare a un’armonia consonantica, in
aggiunta all’armonia vocalica ampiamente presente nella lingua etrusca e
confrontata con quella tipica della famiglia linguistica ugrofinnica. Il
suffisso verbale è ai, forma ancora
arcaica che conserva il dittongo perso invece nella monottongazione delle
iscrizioni recenti che hanno e. Questa
forma originaria in –ai si ritrova
nelle due iscrizioni sulla stele di Kaminia (Lemno), ascrivibile alla prima
metà del VI secolo ma in area periferica e conservativa.
Il
tema zusu è riscontrabile anche nella
parola iniziale dell’altrettanto antica iscrizione dell’ aryballos Poupé, pure proveniente dall’Etruria meridionale: zus-atunina. Un composto è il lemma molto frequente zusle, presente nella Tegola di Capua ai righi 9, 11, 23
e nella forma zusle-i al rigo 26. Nel derivato zusleva è presente, sempre nella Tegola, ai righi 15 e 25,
e nella forma zuslevai al rigo 11.
Anche
questa radice sembra essere indeuropea: vedasi i.e. SEU/SU, lat. sucus, ital. ‘succiare’.
Il
Pittau traduce il lemma suci nel Liber
Linteus come ‘aroma’, ‘essenza’, ivi presente anche nella forma collettiva:
suci-va.
Ricordando
Teocrito, ‘Le Siracusane’, si potrebbe pensare, per l’inizio dell’iscrizione
sull’aryballos, a un profumo ‘di
Adone’. Teocrito descrive in proposito ‘le ampolle dorate contenenti aromi di
Siria’.
In
etrusco, zusle sembra significare
‘libagione’, e al collettivo zusle-va l’insieme delle offerte rituali basate sui liquidi.
4
Trattandosi
di una forma verbale, possiamo attribuire a zusuzai il significato di ‘versò’.
Segue
limuna, la cui interpretazione come
nome di un agrume profumato come il limone o il cedro o il bergamotto non
sarebbe fuori luogo pensando all’uso che delle essenze ottenute con questi
frutti si faceva anche in Anatolia, dove i testi ittiti ci raccontano dei
rituali di libagioni ittiti e hurriti, con uso appunto di tali essenze. 5
In
ittita troviamo infatti la parola limma,
una bevanda diversa sia dal vino, sia dalla birra, come si esprime il Chicago
University .
Hittite
Dictionary, parola presente in numerosi testi ittiti da Boghazkale. 6
Il
lemma seguente: atiuthnath presenta una
terminazione in –nath che potrebbe
rappresentare un gentilizio in –na e un
genitivo in –th, con l’alternanza -th/-s frequente in etrusco: larth/lars, huth/husina,
ecc.
Il
gentilizio atiusnas deriva dal prenome ati che troviamo in genitivo anche nell’iscrizione
dell’aryballos Poupé:
atiuth. Come abbiamo detto, ati in origine è nome comune, col significato di
‘madre’, ma verrà poi usato anche come nome di persona. Una ulteriore
determinazione dà atia per il prenome
femminile (atiia - atial al genitivo) e atiu per il
maschile. Analogamente vediamo sulla lamina plumbea da Pech Maho il prenome
maschile sinu mentre più oltre, nel
testo qui in esame, troveremo sina,
genitivo sinia, al femminile.
La
formazione di atiu e atia potrebbe essere dovuta alla necessità di indicare
l’appartenenza dei figli, maschi e femmine, alla madre, e cioè coloro che
l’amore legava alla genitrice. Questi si sarebbero trasformati in cognomina, cioè un secondo nome aggiunto al prenome, col
significato pregnante derivante dal nome comune originario. In italiano, potremmo
così tradurre: ‘figlio di mamma’ e ‘figlia di mamma’ rispettivamente.
La
forma che troviamo nel testo di Barbarano conduce ad un patronimico: atius, o matronimico: atial. Da atiuth deriva la forma del gentilizio in –na: atiusnas,
col suffisso in –s del genitivo. La
forma italiana potrebbe essere: ‘della famiglia (o ‘della gens’) degli Attii’.
Segue
il prenome femminile akarai, una donna
appartenente alla famiglia degli Atiuna.
Anche
questa parola si ritrova nell’iscrizione dell’aryballos Poupé, con la quale i confronti sono stringenti.
Ben sette lemmi sono comuni alle due iscrizioni. Una prosecuzione del presente
studio sarà dedicata alla esegesi anche di questa seconda iscrizione arcaica
sud-etrusca. Sull’aryballos, akarai viene immediatamente dopo il lemma zikh:\ si
tratta quindi della firma dell’autrice dell’iscrizione, ciò che conferma la
natura 6 di appartenenza al mondo femminile di ambedue i monumenti, e inoltre ci dà una nuova
attestazione della alfabetizzazione in Etruria delle classi colte in entrambi i
sessi, una situazione culturale della donna, cioè, invidiabile da molte società
nel mondo attuale.
La
terminazione in –ai è comune nell’area
etrusca meridionale della metà del VI secolo: ricordiamo le forme arant-ai, tet-ai, culn-ai, vern-ai, velkh-ai, artin-ai. Non si tratta però di un dittongo, come nelle
forme verbali del perfetto attivo terza sing. tipo zusuz-ai, ma
di una terminazione tematica in –a con
apposizione dell’identificativo del genere femminile in –i, quindi a+i.
L’onomastico
akarai usato come gentilizio è presente anche a Chiusi (ET 1.555,
1.563, 1.961) e a Perugia (ET 1.967), però qui in genitivo, come prenome
indicante matronimico: akarial. A Chiusi troviamo le forme ankhari,
akhari, ancaria, tutte usate come gentilizi
femminili (ET Cl 1.666, 667, 668).
Nell’Agro
Falisco troviamo il prenome
maschile anco (v. Ancus Marcius), che appare di derivazione dall’etrusco ankharie. Nell’iscrizione
‘A’ sulla stele di Kaminia (Lemno) troviamo il prenome aker (equivalente al diffusissimo etrusco akhle) parallelo al Lin. B da Knossòs akireu e al greco classico akhileus, cioè Achille.
Il
lemma seguente: sinia, è presente anche
nelle bende della Mummia, almeno dubitativamente, nella radice sin, riferita ad eiser e a vinum (col. IV, V, IX). In
NRIE 244 abbiamo:caini: sin.
Nella
lamina plumbea da Pech Maho abbiamo hinu
che corrisponde a sinu (lat. sentius,
etr. senti a Volsini) nome proprio nella formula bimembre hinu
tusna riferita al magistrato etrusco che
redasse l’atto. Ricordiamo che tusna è
l’ordinale di thu = ‘uno’, e significa
quindi ‘primo’, usato (come prenome) anche in italiano.
La
forma femminile di questo nome proprio: sina, si trova graffita in lettere arcaiche all’interno della ciotola in
bucchero documentata nell’archivio fotografico dell’Istituto Archeologico
Germanico a Roma (negativo n. 64564). Qui con sina abbiamo senza dubbio la forma dalla quale è
derivato il matronimico sinia del
nostro orciolo: ‘figlia di Sina’.
Il
lemma serinla presenta difficoltà interpretative
notevoli, non essendo attestato finora altrove in Etruria né fuori. Troviamo
nella Tegola di Capua ai righi 22 e 24 la forma seril sempre davanti a turza o tur(u)sa. Nelle
bende abbiamo la forma zeri in II, 2 –
IV, 2 (?) – V, 2 – VII, 21- IX, 1, 8; e la forma seri in X, 17.
Nella
stele di Kaminia abbiamo serona che
dovrebbe significare re, principe, e che ritroviamo nel filisteo seren proprio con questo significato, oltre che nel lidio
ser-li = ‘capo’, nell’ittita cuneiforme ser = ‘sopra’, ‘alto’.
Nelle
iscrizioni sulle stele tartessie (Iberia meridionale) nelle quali alcuni
ravvisano una lingua che presenta analogie con l’etrusco, si trova ripetuta più
volte la parola saronnah la quale
dovrebbe avere significato analogo al lemnio serona.
Una
ulteriore conferma al convicimento del Meriggi (SE XI, p. 181) che la radice ser indicasse il concetto di ‘signore’ la abbiamo
nell’iscrizione incisa su uno specchio di bronzo volterrano con le figure di
Uni che allatta Hercle e di Tin che tiene sollevata sul capo di Uni una tabella
che reca tra l'altro il lemma sren,
forse contrazione di seren, che
potrebbe essere riferito a Tin = Zeus, re dell’Olimpo.
Poiché
il suffisso –la indica in etrusco
l’accezione di diminutivo, potremmo leggere questa parola come indicante
una ‘giovinetta’, e infatti la
defunta, Akarai Sinia Atiusnas, non ha gamonimico, quindi doveva essere ancora
nubile.
L’espressione
seguente: man aizaruva dovrebbe
leggersi come ‘divinità infere’. In effetti, il lemma man che di nuovo è presente anche nell’aryballos Poupé,
è una ben nota radice dal significato connesso col mondo sotterraneo, e molto produttiva in etrusco.
Nella
forma man appare a Heba (TLE 359): …nesl man
…, a Perugia (TLE 579): … man sekhis …,
a Montaperti (TLE 431): ta suti man alcu …,
e in tutte queste iscrizioni
sembra confermata la lettura ‘infero’ o simile. In latino abbiamo manum col significato di ‘buono’, da cui manes = ‘anime buone’, ‘anime dei defunti’, per cui
potremmo anche attribuire in alcuni casi all’etrusco man il significato di ‘anima’.
Un
uso di questo lemma in latino a indicare il concetto di ‘profumo’ lo troviamo
in Phaedr. 3, 1, 5: anima
amphorae = ‘profumo del vino’. Lo
citiamo in quanto questa iscrizione inizia proprio con la illustrazione dell’atto di versare o spremere
un succo di agrume fragrante
nell’orciolo messo nella tomba accanto al corpo della defunta. Ne potrebbe conseguire una lettura
alternativa a quella già qui proposta, e cioè: ‘dono profumato per gli dèi’, anziché ‘dono per gli dèi
inferi’, riferendo cioè man ad alqu anziché ad aizaruva.
Il man alcu in una iscrizione parietale senese (CIE
216) sembra confermare piuttosto la interpretazione
‘infero’ in quanto si tratta della facciata di un sepolcro, quindi ‘dono agl’inferi’.
aizaruva procede chiaramente dal tema ais, aiser al
plurale, che significa ‘dio’/’dei’. La s
e la z , qui come altrove, si alternano
frequentemente. Nella Mummia abbiamo ais
nelle colonne IV, V e VIII. Il plurale aiser nella IV colonna.
Da Feltre proviene l’iscrizione: ki aiser
tinia … riferito a divinità celesti: ‘tre
divinità: Tinia, Ti….’. La seconda
divinità, dopo Tinia-Zeus, potrebbe essere tivr/tiv, e cioè : astri/
Luna-Selene. Sulla terza non
è utile fare congetture.
aizaru-va ha il suffisso
che indica l’idea del ‘collettivo’ e in greco potrebbe anche tradursi
con pantheon.
alqu va collegato senza dubbio a man aizaruva che precede, e indica il dono degli dèi inferi o
forse piuttosto il dono ‘per’ gli dèi inferi che viene posto nella tomba per
accompagnare la defunta nel suo viaggio
nell’oltretomba. Troviamo questo lemma anche nelle consuete varianti
di kh e di c in
luogo della q, ad es. : alkhu nella Tegola di Capua, righi 10 e 18, e alcu a Montaperti (TLE 431) ta suthi man alcu …, cioè: ‘questa tomba è dono (‘per’ o ‘a’ oppure
‘da’) [gli] inferi’.
Vi sono anche forme in k dalla radice verbale al: alke ma anche alce nella terza persona singolare (e plurale?) del
perfetto. In terza persona singolare sono certamente le iscrizioni ET Ta 3.5 (alce) e ET Fa 3.5.:alike. In quest’ultimo esempio si è conservata la vocale debole interna,
indice sicuro di arcaicità, in questo caso, probabilmente del VII secolo.
Il lemma mazba,
che leggiamo come unico lemma, diversamente da altri studiosi, presenta il
grafema b degli alfabeti modello che
ripresentano le lettere dell’alfabeto greco tale e quale, prima cioè che l’uso
prevalso nelle scuole scribali eliminasse quei grafemi che non corrispondevano
a fonemi realmente esistenti nella lingua etrusca, oppure non distinguibili da
altri fonemi vicini già resi da altri grafemi.
In questo caso possiamo ritenere che uno scriba di
epoca più recente avrebbe senz’altro usato un diverso grafema a rendere il
suono labiale b, in questo caso
evidentemente poco marcato come doveva esserlo in genere la b nella lingua etrusca. Un grafema che potremmo
indicare come v o anche come u breve (digamma greco).
Possiamo quindi considerare mazba come un comune derivato in –va o -ua, es. ET A.S. 1.4.: velia masua o ET Vt 4.01: arne masve ceicnei, o ET Vc 3.6: heph masuve … La radice è mas, e il derivato può indicare collettivo (ma non negli esempi sopra
dati) o derivazione/appartenenza.
La radice
mas in forma non derivata non appare in alcuna delle iscrizioni
etrusche ad oggi note. Abbiamo già notato alcuni derivati in –ua, -va, -ve. Un derivato importante, che appartiene
sicuramente, dati i contesti, alla categoria dei nomi, è il lemma masan.
Lo troviamo nella celeberrima terza lamina d’oro di Pyrgi (il porto di
Caere) nel seguente contesto: nac thefarie veliiunas thamuce cleva
etanal masan tiur unias …
Com’è noto, la maggior parte delle interpretazioni
concorda nel dare a masan il
significato di ‘nome di mese’, ritenendo che tiur che segue indichi appunto il concetto di ‘mese’ ( da
tiv che indica la ‘luna’, astro o
divinità astrale che sul Fegato di Piacenza fa coppia con usil, il sole). Si presume che nella colonna XXII delle
bende della Mummia di Zagabria il rituale descritto vada effettuato nel corso
del mese ‘masan’, come altri rituali in
altre colonne sono riservati ad altri mesi dell’anno dedicati ad altre
divinità. La colonna XXII, però, manca del rigo iniziale, ed era probabilmente
qui che si dava l’indicazione del nome del mese.
Un significato diverso di masan, collegato alla sfera del culto, potrebbe essere
quello di ‘tempio’, ‘casa della divinità’. Abbiamo visto che le iscrizioni
etrusche non ci hanno lasciato traccia del tema mas, ma solo dei derivati masva, masve, masua, masan. Nelle lingue asianiche tutavia possiamo
cercare un confronto, e in effetti lo troviamo nel lemma luvio massana, ittita massanami, che valgono: ‘funzionario del tempio’, cioè sacerdote o comunque una
particolare figura di ‘addetto al culto’, che potrebbe essere un ufficio
ricoperto anche da un ‘laico’
negli esempi in masua, masva, masuve che abbiamo citati nell’etrusco.
In licio (A) abbiamo mahana che significa ‘dio’. Nell’onomastica asianica molti
sono i nomi di re di Lidia chiamati masnes,
manes, nomi presenti anche in leggende
su monete lidie. Ancora troviamo in cario il nome proprio mesna, in sidetico masara, infine in miliaco masaiz (pl.).
Dando a masan
il significato di ‘casa del dio’, ‘tempio’, il senso del brano su riportato
dalla lamina di Pyrgi potrebbe suonare così: ‘Thefarie Velianas pose le
fondamenta di questo tempio di Uni Urania’ … Traduciamo in ‘Urania’ tiur che ci sembra evidente epiteto di Uni (diversamente
da quanto vedremo fra poco sull’altra lamina d’oro di Pyrgi in lingua etrusca).
L’Uni di Pyrgi è infatti chiaramente una divinità
celeste, e il santuario era dedicato a Thesan (l’Aurora) alla quale sembra
appartenere una bellissima testa femminile in terracotta, la greca Leucothea
e/o Eilithya, alle quali corrispondevano nel pantheon latino la Mater Matuta e
Juno Lucina, tutte collegate all’idea del nuovo giorno, della nuova vita che si
schiude.
Il significato di ‘Urania’ non è ingiustificato, se
si guarda alla base – comune alle lingue indeuropee – ti (deiwo
i.e.). Il tivr del Fegato è l’esito di
un protoetrusco ricostruibile in tivur
da cui deriva anche tiur di Pyrgi. Tivu / tiu è
l’esito del concetto di ‘luce riflessa’, proprio della luna e dei pianeti,
mentre tin è il concetto della luce
attiva, che dà luminosità e calore, attributi propri di tin/zeus (la luce di tiu è
passiva, come passive sono cesu, lupu e gli altri derivati verbali in –u. tiur è ovviamente il plurale in –r di tiu). Il passaggio da tivur a tiur è lo stesso di avele ad aule o di
theitur a tethu e tetu. Il
passaggio è lo stesso osservabile in Kaminia/B con toveronarom-tuvruna-turuna.
Uni-tiur
corrisponde pertanto ad ishtar/astar(te, la dea urania fenicia e punica la cui chioma è
ornata da un diadema di stelle. Il titolo tiur è al plurale (‘gli astri’) come è al plurale il teonimo fenicio: astarte. Corrispondenza quindi fra testo fenicio-cipriota
(o punico, secondo altri) e testo etrusco.
Nelle Bende II, 5 leggiamo: ethrse (tin)si
tiu-r-i-m avils
khis che possiamo di conseguenza così
interpretare: ‘brucia [la vittima sacrificale] a tin e agli astri ogni tre
anni’, oppure ‘tre volte in un anno’. La stessa frase viene ripetuta in III,
21; IV, 2; V, 4; VIII, 15; IX, 3; IX, 10. Abbiamo dato una traduzione possibile
di ethrse (verbo in modo imperativo)
confrontandolo col nome comune (da una glossa di Festo) e cioè verse
che, secondo Festo, significherebbe ‘fuoco’ in etrusco.
Una conferma della individuazione del significato di
masan in ‘tempio’ ci è data di nuovo
dal testo delle Bende. In XII, 10 abbiamo: vacltnam thunem cialkhus masn
unialti ursmnal. Traduzione proposta: ‘e il
rituale il ventinovesimo giorno nel tempio di Uni Ursumna’. La forma arcaica
del gentilizio è ursumenaies. Si tratta
della famiglia alla quale era affidata pro-tempore la cura del culto nel tempio
di Uni. 7
Torniamo alle lamine d’oro di Pyrgi. Questa volta
alla prima e più lunga iscrizione etrusca, proprio al suo inizio: ita
tmia icac heramsva vatiekhe unialastres themiasa mekhl thuta thefariei
velianas, che proponiamo di leggere così:
‘questo
santuario (tèmenos) e queste statue affidò sede del culto di Uni l’assemblea
popolare a Thefarie Velianas …’. 8
Qui era stata da vari esegeti prospettata, in
analogia col testo fenicio, l’idea che Unialastres fosse in realtà
l’abbinamento dei nomi etrusco e fenicio della Dea: Uni-Astarte. Questa tesi
non
pare a noi sostenibile, sia perché il periodo del sincretismo
ellenistico è ancora lontano, sia perché un mercante fenicio di passaggio nel
porto di Pyrgi non avrebbe certamente compreso chi fosse questa Uni che veniva
abbinata, forse sacrilegamente, alla sua Dea Astarte. In ogni caso, un
abbinamento di fatto esisteva, reso necessario dalla natura di porto
cosmopolita di Pyrgi, il maggiore dei porti di quella che era allora la più
ricca e potente città marinara etrusca: Caere-Kisra.
Secondo noi, la terminazione –stres sta a indicare semplicemente appartenenza a un
gruppo, a un insieme di persone
e/o cose. Abbiamo diversi esempi di questo suffisso in iscrizioni etrusche: hali-s-tres (nome proprio = ‘appartenente al clan degli Hali’);
spurestres (‘appartenente alla città’)
e sacnistres (‘appartenente ad sacra’)
nelle Bende in II, 4; III, 21; V, 3; VIII, 14; IX, 3 e 10. 9
Per tornare al nostro testo sull’orciolo di
Barbarano, modesto ma toccante
cimelio fra monumenti epigrafici tanto più importanti e solenni, ci pare
che tradurre mazba/ masva/ masua come
‘consacrante’ ovvero ‘officiante’ sia congruo al quadro che si è venuto
delineando e anche ai risultati del metodo combinatorio che abbiamo cercato di
utilizzare.
Il testo termina con la firma praticamente della
protagonista della cerimonia (di nuovo in genere femminile), anche se qui non
si tratta espressamente di una firma (zikh)
come nell’aryballos Poupé.
Vanaia è il nome proprio di genere femminile, che abbiamo
già trovato nell’iscrizione A di
Kaminia nella forma del diminutivo vanala.
Anche qui è in genitivo, o meglio una forma di possessivo in –ia che diventa nell’uso genitivo sia maschile, sia
femminile, almeno in periodo arcaico. Si tratta verosimilmente di un
matronimico riferito al grafema h che
segue, abbreviazione del prenome femminile hastia o husa o hatha (forma
ricavabile dal gentilizio hathelnas o hathisnas
in ET Vs 1.12 e ET OA 3.3.).
L’iscrizione dell’orciolo di Barbarano può essere
considerata esemplare di una società ancora arcaica, permeata di affetti
familiari e di religiosità, pur essendo al tempo stesso una società complessa e
stratificata nella quale la scrittura non è già più un mezzo di dominio di
pochi su molti, ma un mezzo di comunicazione fra gli uomini e tra essi e gli
dèi, utilizzato anche dalle classi poco abbienti di un livello che oggi chiameremmo
di piccoli proprietari terrieri, mercanti o marinai e sopratutto anche dalle
donne, che attraverso questi documenti ci danno testimonianza del livello
culturale e dello status sociale di cui esse godevano nella società etrusca
arcaica.
Forse però il sapore più profondo di questo testo
risiede nel suo essere permeato di echi ancestrali che chiamano in causa
l’oriente in un contesto non pubblico, come quello delle lamine di Pyrgi, ma
squisitamente privato. 10
NOTE
1 per tutti, basti citare Etruscologia di M.Pallottino, Milano, Hoepli 1942 con numerosissime edizioni successive.
2 oltre al LATTES, ricordiamo TORP e GOLDMANN.
3 il lemma lidio et indica ‘prescrizione’.
4 in hurrico suzo significa ‘vaso’. Nel rituale di libagioni conservato in Kbo 21.33 ecc., il sacerdote dice in hurrico: zu-uz-zu… (M.C.TREMOUILLE in Civiltà degli Hurriti, p.169, Napoli, Macchiaroli, 2000.
5 M.C.TREMOUILLE loc.cit., nota 6: ‘la parola cedro ricorre quattro volte nel testo di rituale hurrico-hittita in Kbo 21.33, KUB 32.49 a+b, Kbo 2312, Kbo 35.77 .
6 Hittite Dictionary of the Oriental Institute of the Chicago University, vol. L – N, 1989, p. 62.
7H.RIX: Das Etrruskische Cognomen, Wiesbaden, Otto Harrassowitz, 1963; v. anche S.MARCHESINI: Studi onomastici e sociolinguistici sull’Etruria arcaica: il caso di Caere, Firenze, Olschki, 1997.
8 secondo C.DE SIMONE, la terminazione verbale in –khe indicherebbe la forma passiva del preterito, e il suffisso –tra, -tres una specie di caso agentivo, cioè ‘da parte di…’; se così fosse, dovremmo tradurre ‘il santuario e queste statue furono consacrate da parte di Uni che ha affidato l’assemblea popolare di Caere a Thefarie Velianas’, ma questa lettura non ci pare sostenibile.
9 M.DURANTE paragona il suffisso etrusco a quello latino –ster in silve-ster, terre-ster, campe-ster (SE XXXI, 2519.
10 Il
rituale funerario di offerte di libagioni è attestato anche dal ritrovamento in
contesti sepolcrali di kernoi e di altarini a cuppelle (per libagioni multiple,
evidentemente) di età arcaica, ma già anche in epoca villanoviana. Officiante di questi rituali è
solitamente una donna, per età ed esperienza in grado di offrire una conoscenza
adeguata delle forme e modalità da seguire (v. TREMOUILLE, op.cit., 156).
Questa persona firmava anche la formula che veniva iscritta sull’oggetto (vaso
o altro) usato per la funzione, ed era denominata ‘la Vecchia’ sia nel Paese
dei Hurriti, sia in Kizzuwatna (op.cit, 161). Una situazione analoga è rilevata
nel mondo ittita, ma le donne officianti riti magici o funerari sono qui
principalmente straniere, provenienti dal Paese di Arzawa o dalla Siria
settentrionale (R.Lebrun, Considérations sur la femme dans la société
hittite, in Hethitica, III, Louvain,
Institut de Linguistique de l’Univetrsité, 1979, p.109)