martedì 2 aprile 2013

Lettera del prof. Massimo Pittau


FENICI E CARTAGINESI IN SARDEGNA (3)

Egregio Amico dott. Maurizio Feo

La ringrazio vivamente per il fatto di aver accettato di pubblicare il mio studio «Fenici e Cartaginesi in Sardegna» e La ringrazio anche per i rilievi che mi ha mosso per il mio scritto in maniera rispettosa e perfino benevola. Però mi sembra che non tutti i Suoi rilievi siano veramente azzeccati, come ora Le espongo brevemente.

1) Lei ha fatto riferimento a una Sua recente opera relativa ai “Popoli del Mare”, pubblicata nel 2012, che io purtroppo dichiaro di non conoscere ancora. Ma è un fatto che Lei mi ha mosso le Sue obiezioni mostrando di ignorare la mia opera Gli antichi Sardi fra i “Popoli del mare” (Domus de Janas edit., Selargius), la quale è comparsa un anno prima della Sua, cioè nel 2011.

2) Nell’altra mia precedente opera Storia dei Sardi Nuragici, (Selargius 2007) io avevo mostrato di essere ben al corrente della difficoltà di chiamare “Nuragici” gli antichi Sardi o Protosardi o Paleosardi costruttori dei nuraghi. Ma mi sono adattato a una usanza ormai largamente diffusa e prevalente.

3) Io non mi sento in obbligo di dimostrare chi fossero i Fenici e i Punici o Cartaginesi, dato che di questo popolo hanno parlato a lungo molti storici antichi e parlano molti storici moderni.

4) Sono in pieno accordo con Lei sulla tesi che i bronzetti sardi siano di epoca piuttosto recente. Ma io dico di più: per me è del tutto errata la tesi corrente secondo cui i Nuragici avrebbero interrotto la costruzione dei nuraghi quando nell’Isola arrivarono i Cartaginesi. Secondo me la costruzione dei nuraghi cessò quando in Sardegna arrivò la nuova religione cristiana e quando essi, prima dedicati alle varie divinità nuragiche, cominciarono a essere dedicati a santi cristiani, col noto fenomeno del sincretismo pagano-cristiano. Infatti ben 278 nuraghi sono tuttora dedicati a santi cristiani e quasi tutti hanno vicina una chiesa cristiana. Io sfido chiunque a indicare una differente e migliore spiegazione di questo macroscopico fenomeno archeolinguistico.

5) Non sono d’accordo con Lei quando nega che sia mai esistita una “flotta” dei Nuragici. Considerato infatti che i Nuragici erano chiamati anche “Tirreni” (come testimonia Strabone, V 2,7), siccome “Tirreni” significava propriamente “costruttori di torri” (e nessun altro popolo antico meritava questo nome più e meglio dei Nuragici), non deve essere privo di significato il fatto che nel Mar Egeo la presenza anche saltuaria dei Tirreni è testimoniata in ben 20 località e inoltre che i Cartaginensi probabilmente ostacolarono il possesso da parte dei Nuragici di un’isola dell’Atlantico (forse Madera) (StSS 238). Ma in quelle località i Tirreni/Nuragici evidentemente andavano e si muovevano col le loro navi.

6) Nella lingua italiana - e credo anche in altre lingue di cultura - il verbo "dimostrare" significa «presentare argomentazioni a favore di una tesi, che costringono l'ascoltatore o lettore (se è sano di mente e in buona fede) a dare il suo assenso». Esiste questo "dimostrare costrittivo o cogente" in quelle scienze della natura, che sono la fisica e la chimica: in queste è possibile il "dimostrare cogente" in virtù dell'«esperimento», quello che "ripete", in condizioni volutamente artefatte e inoltre significative, un certo fenomeno fisico o chimico tutte le volte che lo scienziato vuole e inoltre lo ripete in condizioni ideali di semplicità per gli elementi studiati e di univocità per i risultati da ottenere. Senonché questo "dimostrare cogente" della fisica e della chimica non è affatto possibile nel campo della linguistica, soprattutto di quella
buttata nella direzione diacronica o storica. Il linguista storico o glottologo infatti non è assolutamente in grado di far "ripetere" un certo fenomeno linguistico che risulti documentato per il passato, né può pertanto sottoporlo a "esperimento". Se tutto questo è vero, noi linguisti ci dobbiamo convincere che nella linguistica storica o glottologia non esiste la "dimostrazione" vera e propria. Però non c’è nulla di allarmante né di mortificante per questa situazione, perché essa si determina tale e quale anche nel campo della storia (da intendersi qui come "storiografia") in generale e in tutte le discipline storiche in particolare. Ciò premesso, se il linguista storico non presenta mai "dimostrazioni cogenti", che cosa fa quando prospetta etimologie, cioè "storie di vocaboli", che pure egli ritiene fornite del carattere della scientificità? Io ritengo che egli prospetti tesi che non hanno mai il carattere e il valore della "certezza", mentre hanno solamente il carattere e il valore della "probabilità" o della "verosimiglianza", della maggiore o minore probabilità o verosimiglianza. (E da questo mio fermo convincimento deriva il fatto che in tutti i miei scritti di linguistica storica io faccio largo uso dell’avverbio “probabilmente”). Tutto questo implica in maniera necessaria che l'operare del glottologo sia caratterizzato da una sostanziale nota di "incertezza" o di "aleatorietà" generale, nella quale il fare obiezioni e il sollevare dei dubbi è una operazione perfino troppo facile. Ovviamente non saranno queste considerazioni metodologiche - che sono certamente pessimistiche - a indurre noi glottologi a non tentare più etimologie di appellativi, antroponimi e toponimi. A queste nostre etimologie più o meno probabili o verosimili, a mio giudizio, non si debbono tanto contrapporre difficoltà od obiezioni, quanto si debbono contrapporre altre etimologie, le quali abbiano la dote di essere più verosimili e più probabili di quelle respinte. Premessa questa mia difesa del mestiere del linguista storico, dico e assicuro che non mi danno alcun fastidio le frasi da Lei, dott. Feo, adoperate per indicare un certo nostro modo di operare: «mondo etereo delle ipotesi», «fantasia romanzata più selvatica». Qualsiasi studioso che sia cultore di una delle “discipline storiche” opera sempre in codesto modo. Ma dico di più: noi “storici” in effetti siamo altrettanti “romanzieri”, posto che dalle poche testimonianze storiche di cui siamo in possesso, molto spesso traiamo tutto un “romanzo” relativo a un certo personaggio o avvenimento o periodo storico. In effetti noi storici molto spesso ci troviamo nella identica situazione in cui si trova un archeologo quando è di fronte ai resti di un antico mosaico: di fronte ai tasselli rimasti la sua abilità consiste nell’ipotizzare gli altri tasselli mancanti, e questo egli fa con la sua “fantasia”, quella medesima importantissima facoltà della mente umana che serve anche per scrivere i “romanzi”. Dunque noi storici siamo spesso altrettanti “scrittori di romanzi”, talvolta neppure convincenti; ma la cosa non ci dispiace, dato che in essi sentiamo un “profumo di umanità” più intenso di quello che si sente nelle discipline naturalistiche.

7) Però non è di certo un romanzo la considerazione che ho presentato e sottolineato: nell'intero atrimonio della odierna lingua sarda sono stati trovati appena 7 (sette) vocaboli e 3 (tre) toponimi che derivano direttamente dalla lingua fenicio-punica dei Cartaginesi. Il che ha fatto giustamente dire al linguista Emidio De Felice che in Sardegna «l'apporto fenicio e cartaginese è insignificante». E così pure Paul Swiggers e M. L. Wagner. Questa importante e sostanziale considerazione di carattere linguistico ne implica un'altra di carattere demografico od antropico generale: l'apporto antropico dell'elemento semitico in Sardegna - prima fenicio e dopo cartaginese - sarà stato molto ridotto in tutti i tempi. Una immigrazione notevole di individui di stirpe fenicia e punica nell’Isola è da escludersi con decisione. Al fine di sostenere le Sue tesi e per criticare le mie, Lei fa frequente riferimento alla “genetica”. Ma evidentemente a Lei è sfuggito quanto io Le avevo obbiettato su questo tema qualche anno addietro:
- a) Nella mia opera «Storia dei Sardi Nuragici» (pg. 291) ho citato il fatto che il dott. Giuseppe Mulas di Olbia e la sua équipe, su invito della «Società Ital. di Immunoematologia», ha condotto uno studio, nel quale si è espresso in questo modo: «Non sappiamo se la similarità genetica tra Sardi ed Etruschi sia dovuta ad un movimento dei Sardi verso la regione abitata dagli Etruschi o viceversa». E allora io concludo con un invito: «Mettetevi d’accordo Lei, il dott. Mulas e i genetisti in genere» e dopo noi storici e linguisti vedremo di ascoltarvi e di trarre le dovute conclusioni.
- b) Io ho già avuto modo di segnalare che anche altri genetisti  hanno espresso opinioni contrastanti circa l’affinità genetica tra i Sardi e gli Etruschi e fra questi e gli Anatolici o nativi dell’Asia Minore. Siccome è lontanissima dalla mia mente l’idea di contestare il “valore scientifico della genetica”, mi è venuto il dubbio che quelle vostre numerose divergenze dipendano da quella che Voi chiamate “campionatura”; cioè che quelle divergenze dipendano dal fatto che si facciano errori nello scegliere i soggetti su cui fare le ricerche. Ed io ho prospettato questo dubbio: probabilmente è errato andare alla ricerca del DNA delle popolazioni che sono vissute e vivono nella Penisola Italiana, in quella Anatolica e anche in Sardegna. È indubitabile, per chiare prove geografiche e storiche, che la Penisola Italiana è la “terra più trafficata del nostro pianeta”, nella quale sono passati per millenni innumerevoli flussi migratori dall’Oriente all’Occidente mediterraneo, dall’Africa all’Europa e viceversa. E analogamente avevo già avuto modo di scrivere che la Penisola Anatolica ha costituito nell’antichità il punto di sutura e di incontro di tre interi continenti, Africa, Asia ed Europa, ragion per cui attraverso di essa sono avvenute, nei secoli e nei millenni, innumerevoli migrazioni di popoli. L’Asia Minore è stata definita un “crogiolo” di numerose e differenti etnie, stirpi, culture e lingue, le quali vi si sono incontrate, mescolate, confuse e fuse. E pure la Sardegna è stata attraversata da molti flussi migratori e soprattutto è stata “scombussolata” nei suoi fattori genetici dalla conquista romana. Io di recente ho pubblicato un’ampia opera, in cui risultano analizzati e studiati 20.000 toponimi sardi: I toponimi della Sardegna – Significato e origine, 2 Sardegna centrale (Sassari 2011, EDES), con lo stupefacente risultato finale di 83/% di toponimi (neo) latini e di soli 12/% prelatini. In virtù di questi risultati mi sono convinto che i Romani hanno importato nell’Isola, per lavorarvi nei campi, nelle miniere, nelle saline migliaia di schiavi provenienti da tutte le zone della vasta area mediterranea, con risultati di miscugli genetici indescrivibili. Oltre a questi di certo si sono fermati in Sardegna e perfino in Barbagia centinaia di militari romani, come dimostrano chiaramente gli odierni cognomi e toponimi barbaricini: Calvisi, Creschentina, Curreli, Doschiane, Mameli, Marcheddine, Masuri, Monni, Oppiane, Useli, Valeri, Verachi, i quali sono da riportare ai gentilizi o cognomina latini Calvisius, Crescentinus, Currelius, Tuscianus, Mamelius, Marcellinus, Masurius, Monnius, Oppianus, *Uselius, Valerius, Veracius, tutti nella forma del vocativo.

8) Termino dicendo che io non sono riuscito a trovare in internet critiche mosse al mio saggio da parte di qualcuno. Pertanto, dott. Feo, Le chiedo il grande favore di segnalarmele e possibilmente di mandarmele. Chiudo ringraziandola ancora per l’attenzione che dimostra per i miei scritti e inoltre assicurando la mia alta stima per Lei e per i Suoi studi

Massimo Pittau