giovedì 4 aprile 2013

IPB-2 Epicuro

Nell’antichità, fu evidentemente ben chiaro ai primi "medici", che l’unico sistema per disostruire il condotto uretrale era quello di introdurvi qualche cosa (di naturalmente cavo o scanalato) che fosse atto a restituire al lume uretrale la sua precedente pervietà.
Viene da tremare al pensiero di che cosa abbiano potuto sperimentare, sapendo che il metodo da sempre usato è quello del tentativo ed errore.

Non molti anni fa, la medicina popolare prevedeva l’uso di sottili rami di ginestra. Possiedono la qualità di essere lisci, sottili, rettilinei, di calibro gradatamente variabile in maniera costante: tutte doti utili, in un catetere. Assomigliano realmente ad alcuni cateteri che usiamo tuttora.
Appena inventata la lega del bronzo, fu usato un catetere di quel materiale (nel 3.000 circa a.C.), che non presentava il rischio di frammentarsi e che, in più, poteva essere lavato e riusato.
L’abilità e la tecnica e perfino la conoscenza del catetere fu persa e ritrovata più volte (come è successo per molte altre invenzioni). Nel papiro egizio di Ebers (1.565 a.C.) si parla nuovamente di sonde uretrali.

Ma nella raccolta di scienza medica che ci è noto col nome di Corpus Hippocraticum non vengono neanche ricordate, forse perché avevano prodotto danni inenarrabili, in assenza di sufficienti conoscenze e soprattutto di antibiotici.

Molti sanno che Epicuro (Samo, 341 a.C. – Atene, 271 a. C.), figlio di un maestro e di una maga, il cui nome significa letteralmente "salvatore" si uccise, suicidandosi con il ‘taglio delle vene dei polsi’ a 72 anni (più probabilmente, si recise le arterie radiali: la sezione delle vene non uccide). Ciò che è molto meno noto é Epicureo s’uccise dopo che per più di due settimane non era riuscito ad urinare (sia Seneca sia Tito Livio lo riportano).

Evidentemente si trattava di un caso grave di ritenzione acuta d’urina, per occlusione dell’uretra da ipertrofia prostatica.
Noi, oggi, chiamiamo questa malattia Ipertrofia Prostatica Benigna (IPB), ma evidentemente essa non fu troppo benigna per il povero Epicuro, che non trovò altro rimedio ai propri terribili dolori se non l’estrema soluzione finale: la morte…

Ma infine era stato proprio lui a sostenere, in tempi migliori: “La morte non è niente, per noi. Ciò che si dissolve non ha più sensibilità e ciò che non ha sensibilità non è niente per noi”.

La malattia lo pose senz’altro di fronte alla vanità di alcuni altri pensieri che aveva espresso: “Non dura ininterrottamente il dolore della carne; il suo culmine dura anzi un tempo brevissimo; e ciò che di esso appena oltrepassa il piacere non si protrae molti giorni nella nostra carne. Le lunghe malattie poi arrecano alla carne più piacere che dolore”.

Ma soprattutto, egli scoprì – alla fine – che il suo Tetrafarmaco (il rimedio filosofico sicuro contro paura degli dei, paura della morte,  convinzione che la felicità sia difficile da raggiungere e che il dolore sia intollerabile), almeno in uno dei punti, divenuto allora estremamente determinante per lui, non funzionava.