Nell’antichità,
fu evidentemente ben chiaro ai primi "medici", che l’unico sistema
per disostruire il condotto uretrale era quello di introdurvi qualche cosa (di
naturalmente cavo o scanalato) che fosse atto a restituire al lume uretrale la
sua precedente pervietà.
Viene da tremare
al pensiero di che cosa abbiano potuto sperimentare, sapendo che il metodo da
sempre usato è quello del tentativo ed errore.
Non molti anni
fa, la medicina popolare prevedeva l’uso di sottili rami di ginestra.
Possiedono la qualità di essere lisci, sottili, rettilinei, di calibro
gradatamente variabile in maniera costante: tutte doti utili, in un catetere.
Assomigliano realmente ad alcuni cateteri che usiamo tuttora.
Appena inventata
la lega del bronzo, fu usato un catetere di quel materiale (nel 3.000 circa
a.C.), che non presentava il rischio di frammentarsi e che, in più, poteva
essere lavato e riusato.
L’abilità e la
tecnica e perfino la conoscenza del catetere fu persa e ritrovata più volte
(come è successo per molte altre invenzioni). Nel papiro egizio di Ebers (1.565
a.C.) si parla nuovamente di sonde uretrali.
Ma nella
raccolta di scienza medica che ci è noto col nome di Corpus Hippocraticum non
vengono neanche ricordate, forse perché avevano prodotto danni inenarrabili, in
assenza di sufficienti conoscenze e soprattutto di antibiotici.
Molti sanno che Epicuro
(Samo,
341 a.C. – Atene, 271 a. C.), figlio di un maestro e di una maga, il cui nome
significa letteralmente "salvatore" si uccise, suicidandosi con
il ‘taglio delle vene dei polsi’ a 72 anni (più probabilmente, si recise le
arterie radiali: la sezione delle vene non uccide). Ciò che è molto meno noto é
Epicureo s’uccise dopo che per più di due settimane non era riuscito ad urinare
(sia Seneca sia Tito Livio lo riportano).
Evidentemente si
trattava di un caso grave di ritenzione acuta d’urina, per occlusione
dell’uretra da ipertrofia prostatica.
Noi, oggi,
chiamiamo questa malattia Ipertrofia Prostatica Benigna (IPB), ma evidentemente
essa non fu troppo benigna per il povero Epicuro, che non trovò altro rimedio
ai propri terribili dolori se non l’estrema soluzione finale: la morte…
Ma
infine era stato proprio lui a sostenere, in tempi migliori: “La morte non è
niente, per noi. Ciò che si dissolve non ha più sensibilità e ciò che non ha
sensibilità non è niente per noi”.
La
malattia lo pose senz’altro di fronte alla vanità di alcuni altri pensieri che
aveva espresso: “Non dura ininterrottamente il dolore della carne; il suo
culmine dura anzi un tempo brevissimo; e ciò che di esso appena oltrepassa il
piacere non si protrae molti giorni nella nostra carne. Le lunghe malattie poi
arrecano alla carne più piacere che dolore”.
Ma
soprattutto, egli scoprì – alla fine – che il suo Tetrafarmaco (il rimedio filosofico sicuro contro paura degli
dei, paura della morte,
convinzione che la felicità sia difficile da raggiungere e che il dolore
sia intollerabile), almeno in uno dei punti, divenuto allora estremamente
determinante per lui, non funzionava.