giovedì 18 aprile 2013

Mito: l'antica 'favola metropolitana'.




"Sotto un'onda di Kanagawa" (la più famosa delle opere della raccolta di xilografie dell'artista Hokusawa, intitolata "36 vedute del monte Fuji".
E' un onda di maremoto.

L’isola in un mare di simboli.

Inizialmente creato per essere creduto come verità di fede indimostrabile, il mito è talvolta basato su elementi reali, ma non è, di fatto, la verità. Ne può rappresentare, anzi, di volta in volta una distorsione, una proiezione onirica, una rappresentazione simbolica, un’evasione, oppure una trasformazione peggiorativa o migliorativa, funzionale ad una tesi di parte. Il mito è più spesso una costruzione tendente a spiegare il senso della vita, attraverso la creazione del mondo, divinità, eroiche imprese, animali fantastici, pratiche religiose. 

Già Evemero – filosofo ateo del III sec a. C. – spiegava la genesi del mito con la necessità umana di serbare il ricordo e gli insegnamenti d’uomini grandi e saggi del passato, chiamandoli “dei”. Si deve ammettere che la Sardegna, in verità, è piuttosto maltrattata dalla mitogenesi, antica e recente. A qualcuno piaceva raccontarla così, su opuscoli per turisti, o persino sui libri: “Gli antichi Sardi erano guerrieri giganteschi e bellicosi, che vivevano in tribù separate, ognuna con il proprio Re-Pastore, sempre in guerra tra loro per il primato. Essi costruirono tombe enormi per i propri eroi (tombe dei giganti), splendidi templi ipogei per le divinità ctonie (i pozzi sacri) e robuste fortezze a tronco di cono (i nuraghi) per reclamare la propria autorità sui rivali. Eruditissimi d’Astronomia, orientarono le loro costruzioni secondo i principali eventi celesti (i solstizi e via dicendo), utili per la loro già florida agricoltura e per le loro multiple attività sociali. Sistemarono enormi catapulte sulle sommità dei nuraghi, con cui lanciavano levigati proiettili sferici, alcuni dei quali sono osservabili al Museo Sanna di Sassari. Dall’interno del nuraghe, a mezzo anguste feritoie semicieche, scoccavano abilmente frecce, da una posizione accosciata, con una traiettoria rasoterra. Una sola sentinella, appostata nella penombra della garitta di guardia, era sufficiente a scoraggiare l’ingresso degli eventuali aggressori.  Così, l’entroterra dell’isola non fu mai violato, né dai Romani, né tanto meno dai Cartaginesi, ed ecco perché Nuoro si staglia orgogliosa, come una vera “Atene Sarda” al centro dell’indomita Barbagia. La marineria Sarda era efficiente e molto progredita per i tempi: possedeva navi sicure e veloci, munite d’alettoni stabilizzatori che permettevano di planare, come si può osservare nei bronzetti che le rappresentano. Sulle loro navi, i Sardi procedettero a campagne commerciali e di conquista: circumnavigarono l’Africa per procurarsi lo stagno, che – assente nel Mediterraneo – gli serviva per realizzare la loro famosa lega del bronzo. Ciò è dimostrato dal fatto che, nel sud dell’Africa esistono costruzioni simili ai nuraghi, che in lingua locale sono chiamate Zimbabwe e che danno perfino il nome ad uno stato. Le campagne di conquista condussero i Sardi nel medio Oriente, dove si rinvengono tuttora alcuni nuraghi presso Al Awat e sul delta del Nilo, dove elessero anche alcuni Faraoni. La truce espressione dei guerrieri sardi divenne presto nota come Riso Sardonico, di cui parla persino Omero nell’Odissea, descrivendo il sorriso di vendetta d’Ulisse: egli inoltre si riferisce ai Sardi come Feaci e all’isola sarda come Scherìa. Infine, l’avanzatissima e splendida civiltà Nuragica fu spazzata via quasi del tutto da un maremoto, il che originò l’affascinante mito d’Atlantide, cui solo erroneamente sono attribuite altre sedi. In attesa di studi stratigrafici che dimostrino questa tesi, l’unica suggestiva prova è data dal fatto che tutti gli elementi di crollo dei nuraghi del Campidano, la regione più gravemente interessata dal fenomeno, si trovano a sud est, proprio sul lato che fu colpito dall’enorme onda marina distruttiva…”. 
Si potrebbe giungere fino alla Sardegna dei giorni nostri, mantenendo lo stesso elevato tenore d’inattendibilità scientifica. Qualcuno, infatti, lo fa.

Uno dei Miti più popolari: il viaggio della nave Argo.

Nel Mito, in generale, confluisce una varia e vasta congerie d’elementi, di diversissime dimensioni, valenza ed importanza, creando le leggende, la fantascienza, la fantarcheologia, i luoghi comuni, le favole morali. Vicende storiche lontane, a lungo romanzate nel passare per generazioni di bocche, entrano nel calderone: gli eroi di Troia, Atlantide, il Diluvio, Dracula.  Alcune componenti sono pregiudizi razziali, oppure spunti d’orgoglio nazionalistico (“I sardi sono tutti piccoli”, “la Barbagia non fu mai conquistata”, etc). Altri elementi provengono da antiche tradizioni o credenze popolari, come il ballo dell’Argia; altri da credenze religiose, come le maschere del carnevale sardo, la proibizione islamica di mangiare la carne di maiale, l’uso sardo di mangiare carne cruda, il fuoco della “tuva”, per S. Antonio. Alcuni elementi sono riconoscibili in usi e costumi trascorsi, ormai dimenticati e ridotti a livello di dicerie, come l’uso di cuocere sotto la cenere, travisato come il forno dell’abigeatario, invece che dell’antico nomade orientale (tra l'altro, il forno sottoterra necessita di prese d'aria che non possono sfuggire ad un'ispezione). Altri elementi sono prestiti culturali, ottenuti in vario modo, come ad esempio sono la Sartiglia ed il Vessillo dei quattro mori.  Osservazioni naturalistiche malintese creano i piccoli miti dello struzzo che nasconde la testa nella sabbia, della capra “già condita” di Baunei, della salamandra che sopravvive al fuoco, del geco che è freddo, ma egualmente ustiona la pelle, al contatto. La Fisica Quantistica spiegata al volgo rende credibile la possibilità del viaggio nel tempo, titillando il sempiterno desiderio umano di sconfiggere lo spietato trascorrere degli anni. Facendo leva sui desideri e la credulità umana, entrano in gioco anche scherzi d’ingegno, le “favole metropolitane” (i coccodrilli ciechi nelle fogne di New York), le esagerazioni dei cacciatori (il dente del narvalo, spacciato per un Unicorno equino) ed invenzioni fantasiose (la circumnavigazione nuragica dell’Africa e lo Zimbabwe sardo[1]). 

Campione di Ossidiana (vetro vulcanico)
Le leggende che vanno a comporre i miti devono essere gradite all’uditorio, per potere essere credute. Così, spesso si tratta di costruzioni simili, che seguono copioni prestabiliti, esportati un po’ dovunque: tra queste s’annoverano le leggende degli assedi risolti con l’arguzia. Un mito “maturo” è una costruzione complessa, probabilmente scritta a più mani da autori anonimi e non coevi: nella storia del Vello d’oro e degli Argonauti, troviamo la simbologia di grandi viaggi realmente compiuti (per commercio e per conquista), delle grandi ricchezze orientali (oro, o grano), s’adombrano le vere ragioni per la guerra di Troia, s’incrociano altri miti di rigenerazione, d’origine e d’iniziazione dell’area mediterranea, insieme all’idea dell’ineluttabilità della morte e dell’orrore per la violenza, che spingono ad una catarsi. Aristea di Proconneso (675 a. C.) visitò gli Issedoni nomadi (attuale Kazachstan) ed apprese da loro che, a nord, i cavalieri monocoli Arimaspi rapivano l’oro che stava tra gli artigli dei Grifoni (Erodono, Storie, IV, 13 e III, 116). Nel 1994, A. Mayor formulò – su Archeology – l’ipotesi che il mito del grifone fosse nato dal frequente rinvenimento di resti e di nidi del Protoceratopo, un dinosauro di circa 4 metri, con un grosso becco d’aquila. L’oro della Cholchide era inoltre filtrato con pelli d’agnello, il cui vello unto tratteneva le pagliuzze d’oro: ogni cercatore certamente sognava un vello tutto coperto di quel materiale prezioso…

Il mito primitivo si afferma, se incontra i gusti della popolazione per cui/da cui è stato creato. Quindi cresce. Subisce modificazioni che dipendono dal progressivo cambiare dei gusti e dei costumi. Alcuni aspetti particolarmente sgradevoli o cruenti di esso possono divenire elementi criptici, solo per gli iniziati di ciò che diviene rito misterico. Si sviluppa una simbologia, che va interpretata, come ad esempio, il mito agricolo di Persefone e Proserpina. La vasta diffusione territoriale di un mito è funzione, oltre che del suo grado di palatabilità per il pubblico, anche della sua vetustà. I meccanismi per mezzo dei quali essa avviene sono il trasferimento demico, oppure l’imposizione culturale che segue un’invasione militare, oppure un semplice contatto culturale per contiguità tra due popoli. Giunto su nuovi lidi, il mito può essere sostanzialmente modificato, per esigenze culturali o linguistiche (Melqart / Herakles), oppure essere cancellato da cognizioni superiori (oggi non crediamo più che la Fenice rinasca dalle proprie ceneri). Il mito può essere invece conservato, per motivi di gradimento politico religioso (il Graal, il Vello d’oro, il castello della Fava, la “punica fides” della propaganda romana, il riso sardanio). Un altro motivo per conservare a lungo il mito si ha, infine, quando attecchisce nel Folklore di popolazioni isolate e poco esposte a continui nuovi apporti (l’Irlanda, i Paesi Baschi, la Sardegna). 
Quasi tutto ciò che riguarda la Sardegna, in ogni campo, è stato o è tuttora oggetto d’affabulazioni romantiche, di franche mistificazioni interessate, d’involontari fraintendimenti, di superficiali imprecisioni. Il fenomeno non è distintivo della Sardegna, bensì mondiale. Infatti, la genesi del mito è connaturata all’uomo: egli crea in ogni campo instancabilmente miti nuovi e aggiornati, spesso senza 

rinnegare quelli più antichi. Qualche volta, esiste un certo fondamento di verità. La Sindrome di Williams (descritta da un cardiologo neozelandese nel 1961), è determinata da una delezione di un segmento del cromosoma 7, che a sua volta causa una stenosi aortica sopravalvolare di vario grado. La malattia, naturalmente, esiste da molto prima degli studi genetici che hanno permesso d’inquadrarla in modo scientifico. Alcuni genetisti pensano, forse a ragione, che questa sindrome sia stata ispiratrice di fiabe: i pazienti hanno corpi piccoli, per un ritardo di crescita. Possiedono veri volti da gnomo, con nasi piccoli, labbra carnose, mento sfuggente. Il loro QI è inferiore alla norma, essi necessitano di ordine e prevedibilità ambientale, ma hanno anche una grande capacità narrativa[2], molta sensibilità, doti musicali singolari: tutte caratteristiche corrispondenti al “Piccolo popolo” degli elfi e dei folletti nordici. Le attuali favole metropolitane per adulti, i racconti per bambini accanto al focolare, le filosofie e le religioni, i pettegolezzi e le superstizioni e perfino alcune tesi scientifiche sono i diversi livelli espressivi dell’instancabile genio dell’uomo per la mitogenesi. Un esempio, su tutti, è la leggenda dei Ciclopi, d’origine probabilmente greca. Recentemente, ne è stata data un’interessante spiegazione: strati geologici anche molto superficiali contenevano i resti numerosi d’elefantini nani[3], spesso affioranti e quindi esposti alla vista dell’uomo, anche senza alcuna attività di scavo. Privato dei tessuti molli, lo scheletro incompleto di un grosso mammifero quadrupede può, a prima vista, assomigliare molto a quello di un bipede. In particolare, il cranio di un elefante presenta piccole cavità orbitarie laterali, che possono passare inosservate. Invece, il grosso forame centrale per la proboscide dà proprio la forte impressione di un’enorme orbita, fatta apposta per un unico grande occhio rotondo, nella testa di un 
Latrodectus tredecimguttatus, detto 'ragno volterrano'  o Argia.
uomo gigantesco. Si tratta di un mito grande e potente, radicato nella fraintesa evidenza oggettiva dei resti effettivamente visti da alcuni testimoni. Affascinò varie culture, giungendo fino a noi anche per l’alta risonanza dei versi omerici. Questa ricostruzione del mito, così riportata, potrebbe forse non essere veritiera, ma appare verosimile e possiede il pregio di restituire una motivazione diretta ed umana ad una creazione ingenua e fantastica, altrimenti priva d’ogni logica consequenziale che la giustifichi. Un medico sardo[4], ha formulato un’altra ipotesi. Egli sostiene che, nel caso dei cosiddetti ciclopi, non si trattasse altro che di soggetti malati d’Oloprosencefalia, una malformazione su base tossica (da alcaloidi del veratro), che potrebbe essere stata presente già ai tempi d’Omero, dando inizio al mito d’uomini mostruosi e deformi, talvolta con un solo occhio. La Sardegna è terra fertile di miti e leggende: alcuni molto antichi, a riprova della vetustà del bagaglio delle prime popolazioni sarde[5]; altri, più recenti, sono frutto d’incredibili errori, d’ingiustificabili incomprensioni o altro: tutti, in ogni modo, interessanti. V’è solamente l’imbarazzo della scelta, a volere portare soltanto alcuni tra i numerosissimi esempi sardi.
E’ stato molto bene illustrato[6] che sia i toponimi, sia i fitonimi, sia gli antroponimi sardi richiedano spesso approfondite spiegazioni, per essere interamente compresi. Il nome dell’Ossidiana costituisce un buon esempio di ciò. Trattasi di una pietra d’aspetto vetroso e di colore nerastro, più comunemente nota sotto il nome di Liparite, dall’isola siciliana in cui è abbondantissima. In Sardegna è facilmente reperibile nella zona di Monte Arci. In epoca litica ebbe grande successo – insieme alla selce dell’Anglona – per la sua facilità a scheggiarsi fornendo raschiatoi, lame di coltello e di bisturi, punte di freccia o di lancia alla vicina Corsica, che n’è priva, e a tutto il bacino del Mediterraneo. Orbene, il termine deriva dal francese obsidienne, ricavato da un’erronea trascrizione del termine latino “obsiana lapis”, con cui Plinio rendeva merito al suo presunto scopritore, Obsio. Secondo Plinio, Obsio avrebbe scoperto il vetro vulcanico in Etiopia. Senza quell’anonimo errore di trascrizione, oggi parleremmo di “obsiana”, oppure di “ossiana”. Si noti come, in ciascun caso, (Lipari o Etiopia) la paternità della pietra sia aprioristicamente negata alla Sardegna. Invece, la storia di tutto il Mediterraneo antico fu fortemente influenzata dalle rotte dei cercatori d’ossidiana sarda, che divennero poi quelle dei cercatori di metalli… La storia dei nomi, imparentati con quello proprio dell’isola, è altrettanto tormentata quanto quella dell’isola stessa e dei suoi abitanti.
Sardina” indica un pesce clupeiforme commestibile, molto frequente nei nostri mari, insieme a “sarda” (uno scombride, di dimensioni maggiori) e “sardella” (che oggi si attribuisce, spesso, al prodotto in 

Cranio di elefante, con grosso forame centrale (non un occhio, ma radice della proboscide): potrebbe sembrare quello di un enorme e mostruoso essere umano (il resto dello scheletro, privo dei tessuti molli, ulteriormente avvalora l'errore).
scatola). Si pensa che i pesci abbiano derivato il loro nome da quello dell’isola, almeno, etimologicamente: pesce della Sardegna. Raimondo Carta Raspi[7] ha elaborato ipotesi sull’attività di pesca, salatura e commercio, particolarmente favorite dall’ambiente sardo, forse addirittura effettuate dai nativi stessi nei numerosi stagni costieri, non diversamente da come avviene oggi. Può anche darsi che questo abbia originato l’attribuzione del nome, pur se non vi sono prove circostanziate a dimostrarlo. La portanza etimologica del vocabolo ha prodotto numerosi derivati. Nell’Adriatico, l’acciuga si chiama ‘sardone’; ‘sardàra’ è il nome d’una rete per sardine del tipo della menaide; ‘sardena’ è detto un piccolo clupeide, del Garda, simile alla sardina; infine, il ‘sardenaro’ è una rete a strascico per la pesca dei lucci, sempre sul Garda[8]. Ma, nel trarre le deduzioni, si deve prestare attenzione. Anche una danza popolare, che si chiama Sardana e che si ballava in Catalogna (in passato, più frequentemente d’oggi), andando in circolo, con movimento rapido e tenendosi per mano, è stata correlata all’antico popolo dei Sardi. Talvolta si è addirittura attribuito tanto alla migrazione demica (del popolo sardo), quanto a quella dell’elemento culturale, (la danza in tondo), un senso inverso a quello est/ovest, che sembra storicamente più verosimile. Però, la Sardana sembra attestata in Spagna da circa il XVI secolo soltanto e non prima: troppo tardi, quindi, per attribuirla ad una colonizzazione Shardana, come verrebbe istintivamente da pensare. Ne consegue, per converso, che la danza Sardana non può essere usata neppure come dato probante dell’origine dei Sardi dalla Spagna, quest’ultima tesi sicuramente smentita dalla Genetica, anche se presente nei miti di fondazione[9]. Gli antropologi attribuiscono alla danza ed al canto in tondo l’espressione della coscienza d’appartenenza al gruppo, d’ogni singolo che vi prende parte. Il circolo simboleggerebbe la disposizione a lavorare insieme. La particolare soddisfazione che deriva a tutti dalla cerimonia costituisce un efficace metodo d’autodeterminazione per ciascuno. Il tutto favorirebbe le capacità produttive (già agricoltura e allevamento!) attraverso l’armonia consolidata nel gruppo.  Il termine sardegnolo (anche sardagnolo e sardignolo e, più anticamente, sardesco) è motivo d’attrito tra isolani e turisti disinformati, per l’improprio uso che questi ultimi ne fanno e che è sentito come spregiativo. Andrebbe riferito ad animali (cavallo, asino di piccola taglia) per indicarne l’origine o la tipicità sarda. Alla sardesca era detto un tipo di matrimonio che riconosceva alla moglie l’assoluta proprietà dei propri beni, anche dopo la celebrazione delle nozze[10]. Di diritto, invece, sardegnolo è l’attributo descrittivo dell’ormai raro asinello sardo, proprio quello che la ditta Walt Disney prese a modello per il suo ormai ben più famoso cartone animato, di fatto appropriandosene, forse anche involontariamente[11]. Il destino comune delle cose sarde sembra infatti propri questo: esistere certamente da molto prima delle rispettive copie spurie di successo, e poi cadere nel generale oblio e nell’indifferenza. I mediocri biscotti industriali che il Regno di Piemonte diffuse come “savoiardi” sul proprio territorio ed in seguito estese a tutto il Regno d’Italia, derivano dalla semplice e ben più genuina ricetta del gustoso “pistoccu”, semplice, antico e disconosciuto (talvolta venduto come “savoiardo sardo”!).  Analogo destino ha subito l’originale formaggio pecorino sardo, che ufficialmente non sarebbe preesistente al Pecorino Romano, ma anzi ne sarebbe derivato, per essere stato introdotto dai Romani in Sardegna. Subire il furto di un tratto culturale, ferisce forse anche di più che un furto materiale. Le guide ricordano ai turisti che alcune colonne del Pantheon romano provengono dalla scogliera granitica di Capo Testa. Riconoscimento dovuto, anche se costituisce ormai una semplice curiosità. Ora, si può anche ammettere che i Sardi Pelliti non avrebbero saputo costruire il Pantheon, con quel loro granito. Ma se i Romani avessero davvero insegnato ai Sardi a fare il formaggio, ci sarebbe allora da chiedersi di che cosa questi ultimi abbiano vissuto, per lunghi secoli, prima dell’invasione. Sappiamo che alcuni dei cibi più antichi mai prodotti al mondo sono latticini conservati. Nulla è più cagionevole del latte: con temperature alte va rapidamente a male; se troppo basse, gela e si scompone. L’uomo preistorico fu costretto a sperimentare a lungo, prima di trovare un valido sistema di conservazione per quella sua labile ricchezza. Naturalmente, non disponeva di tecniche più avanzate (pastorizzazione, irradiazione, conservazione in gas inerti), pertanto usò quello che aveva: il sale. “Il latte, dice Columella, può essere fatto rapprendere con caglio d’agnello o di capretto, anche se si può usare il fiore di cardo o il lattice di fico… va tenuto al caldo, ma non vicino al fuoco… appena comincia a rapprendersi, va posto in cesti, sotto pesi che ne facciano uscire il siero. Quindi, estratto dalle forme, va messo in ambiente fresco e buio, su tavole pulite e cosparso di sale tritato, in modo da trasudare il proprio umore acido”. Si pensava che i primi derivati del latte fossero quelli Sumeri, di 4500 anni fa. Recentemente, però, sono state rinvenute tracce di latte, yogurt di mucca e formaggio di capra in ciotole di 14 siti in Gran Bretagna, risalenti a 6000 anni fa[12].  Columella, nel suo ‘De re rustica’, asseriva che il Pecorino può anche attraversare il mare. Il che, nel I secolo a.C. ed in assenza di frigoriferi, non è poco. Virgilio racconta che un’oncia di quel cacio (30 grammi) entra nella razione totale del soldato romano, insieme con una libbra e mezzo di farro (500 grammi), per fare il ‘puls’, progenitore della polenta. Si vede bene che i Romani ne hanno parlato e scritto indubbiamente di più, ma i Sardi erano lì fin da prima e senza dubbi conoscevano molto bene le tecniche casearie. Ufficialmente, dato che la Sardegna offre pascoli e pecore adatte alla specifica ricetta del Pecorino Romano, nel XIX secolo la Società Casearia Romana addirittura si trasferì a Macomer, portandovi in 

Rielaborazione poetica e polemica della bandiera sarda dei 4 mori, includente pescatori, boscaioli, agricoltori e operai.
seguito anche macchinari moderni ed esperti delle tecniche casearie. Adesso, l’80% della produzione avviene nell’isola, su ricetta attribuita ai romani. In realtà, si dovrebbe ammettere che essa è sarda: nessuno di noi era lì a testimoniarlo direttamente, ma esistono prove indirette. Infatti, molti termini che si rifanno al mondo dell’agricoltura e dell’allevamento, dimostrano che il movimento del know-how tecnico-scientifico relativo avveniva, inizialmente, dalla Sardegna in direzione della penisola e non viceversa[13].  Al riguardo, è sicuramente utile fare una considerazione, per analogia, ad uso degli scettici. Anche per il formaggio, appare più probabile un processo simile a quello della diffusione dell’arco edilizio a tutto sesto, detto “arco romano”. Quest’ultimo già faceva parte del repertorio costruttivo di tutte le popolazioni italiche (e non solo di esse), ma il potente e ricco stato romano lo adottò, lo fece suo per praticità e bellezza e lo diffuse in modo intensivo nel mondo, che gliene attribuì l’invenzione.  Similmente avviene per il cosiddetto “coppo romano”, per niente romano in origine. Quest’ultimo, anzi, fu poi introdotto in Nord-America dagli Spagnoli, che lo usarono per le loro famose missioni cattoliche. Perciò è conosciuto laggiù con il termine inglese “spanish tile”, cioè coppo spagnolo, proseguendo la catena delle errate attribuzioni. Ma c’è di più. E’ perlomeno curioso il fatto che, accanto a verbi latini, quali intellego o intelligo (intendere) e sentio (avvedersi), esista il verbo latino sardare (sardo, -as, are. Intrans, usato da Nevio e altri), con il significato di comprendere, forse comprendere rapidamente. Si è ipotizzato che si tratti di un vocabolo coniato in seguito all’osservazione della grande propensione dei sardi per la lingua dei conquistatori latini. M. Pittau, per motivi di precedenza temporale e predominanza culturale, spiega la cosa con il fatto che il Latino abbia molto ricevuto dall’Etrusco. Sostiene inoltre che Etrusco e Paleosardo fossero lingue imparentate tra loro e che, pertanto, la lingua dei conquistatori dovesse essere di facile apprendimento per i Sardi[14]. Con la sardonia, o sardonica, entriamo nel vivo del discorso sul mito: si tratta forse di un’erba delle ranuncolacee, (Ranunculus sceleratus, ranuncolo palustre, apiu burdu, erba de ranas) dai fiori piccoli e gialli, velenosissima e non esclusivamente sarda, bensì panmediterranea. Le sue proprietà erano già note in tempi antichi da Romani e Greci. Il nome deriva dal latino sardonia, che viene dal greco sardònion. Sembra indiscutibile l’antico e stretto rapporto tra il nome del popolo e quello della pianta, forse rintraccibile nell’etimologia[15]. E’ ovvio che il pensiero corra al vocabolo sardonico, attribuito al riso amaro e di scherno, che conferisce al volto un’espressione cattiva e beffarda, offensiva e provocatoria. Fazio degli Uberti, nel suo Dittamondo, descrisse così in terzine quello che si riteneva fosse l’effetto singolare e malefico dell’erba sardonia:

Un’erba v’è, spiacevole e villana:            Che in forma propria d’un uom quando ride
Questa, gustata, senza fallo uccide;            Gli cambia il volto e gli dispone i denti:
E, s’ella è rea, è ancora molto strana        Siffatto mostro giammai non si vide.”

Un medico senese del XVI secolo, Pietro Andrea Mattioli, racconta che in Sardegna si ricorreva ad una

 varietà di ranuncolo (Apio rustico o Apium Risum), mescolata a cicuta, per uccidere gli anziani: Si crede che ridendo muoiono coloro che se lo mangiano…Mangiato questo Apio di Sardegna, fa ritirare tutti i nervi e però in tal modo fa slargare et distendere la bocca, che morendosine chi ne mangia si rassembra nell’aspetto a uno che ride”. La Medicina s’appropriò il famigerato termine “riso sardonico”, per meglio descrivere quella contrattura spasmodica che l’infezione tetanica può determinare già nei suoi primi stadi, più propriamente detta “trisma” tetanico[16]. Il termine è ripreso dal Vittorini e dal Manzoni, ma già s’incontra in Omero[17] e solo in seguito fu messo in relazione con l’herba sardonia. Il riso sardonico è stato associato a riti di geronticidio praticati - per necessità, forse - nell’antichità. L’ipotesi è che esso rappresentasse l’espressione (obbligata, o generata da orrore spontaneo) durante il rito e che i progenitori dei Sardi lo avessero adottato, impressionando gli osservatori greci con i quali furono a contatto nell’Egeo[18].  Si dà lo stesso nome di erba sardonia ad una pianta delle ombrellifere simile al sedano selvatico (Oenanthe Crocata, in sardo: apiu areste, fenugu de acqua, turgusone, lua), anch’essa velenosa e d’origine esclusivamente sardo-corsa[19]. Nella realtà, però, non sappiamo come stessero le cose. Chi rideva del riso sardanio? I vecchi padri sardi, in sprezzo del proprio morire? I figli mentre li uccidevano, precipitandoli con raccapriccio rituale dalle rupi? I bimbi sardo-cartaginesi, immolati nel fuoco del fantomatico e probabilmente inesistente Molk? Il 
Rappresentazione di Talo su una Dracma d'argento (Festo, Creta, 300 a.C.)


gigante di bronzo, Talo, nel bruciare le proprie vittime appena sbarcate a Creta? Le vittime di Talo, ustionate dal suo corpo bronzeo arroventato? L’incertezza è aggravata dai confusi e velleitari tentativi di spiegazione degli scoliasti[20], che – globalmente – riescono soltanto a dimostrare di non avere già più alcuna precisa memoria dell’origine del mito. Ciononostante, essi hanno avuto buon giuoco cercando connessioni credibili tra il verbo sairein e la forma perfettiva seserenai ed il vocabolo sardanion, tra i Sardi e Creta, tra i Sardi ed i Cartaginesi. La Farmacopea Popolare sarda è da sempre piuttosto ricca: molti sardi sono in grado tuttora di riconoscere l’euforbia (sa lua), l’urginea maritima (scilla, Sqruidda, chipudda marina), la digitalis purpurea ed altre erbe o arbusti con attività tossiche, o mediche, o alimentari. Il riso sardonico, però, forse non ha mai avuto – in origine, almeno – alcun vero rapporto con i Sardi e la Sardegna. Lo dimostrerebbero anche altre espressioni meno note, ma molto simili.
Il termine “lino sardonico” è riferito alla lavorazione del lino della Colchide, simile a quella egiziana[21]. E’ in ogni modo evidente che non si può attribuire di diritto alla Sardegna ogni vocabolo apparentemente corradicale. Per coincidenza, però, altre omonimie si trovano nella stessa zona: ad esempio, l’Olbia del Mar Nero[22]. Gli scoliasti non hanno cercato una correlazione convincente tra Lino Sardonico e Sardegna, anche perché l’argomento è di gran lunga meno interessante del riso terribile e mortifero. Che i Nuragici fossero circoncisi si potrebbe forse crederlo[23], anche per il grande numero di reperti che attestano la presenza di un culto fallico sardo. Che producessero lino egiziano in un’Olbia sul Mar Nero e fossero addirittura negri, invece, è davvero troppo. Si può aggiungere, per completezza, che il termine “sardonica” definisce una varietà d’agata, pietra preziosa che presenta un’alternanza di zone chiare ad altre, scure, usata come gemma; deriva dal latino Sardonyx, a sua volta dal greco “Onice di Sardi”, riferendosi però – in questo caso - all’antica città Lidia, non all’isola del Mediterraneo. Infine, la Sarda è anche un’altra pietra preziosa Lidia, usata anticamente per sigilli, che consiste in un calcedonio marrone rossastro, che si rinviene associata alla corniola.
Dell’origine dei Sardi e della loro lingua già si è detto per esteso[24] in precedenza. Tra le numerose ipotesi vecchie e nuove, alcune semplicistiche e fantasiose, sembra più verosimile quella che ricostruisce a ritroso il percorso degli antichi Sardi fino al mare Egeo, all’isola di Creta e all’odierna Turchia[25], i cui attuali abitanti nulla hanno in comune con quelli antichissimi (né i tratti genetici, né la lingua, che ha la sua culla in una zona centro asiatica). Qualche ipotesi più azzardata si spinge fino a considerare le zone sud Caucasiche, forte anche delle numerose similitudini – su base culturale popolare - tuttora vigenti tra questa zona e l’isola sarda[26]. Gli eventi che hanno portato i Sardi ad essere quelli che vediamo, non sono di facile lettura. I Sardi antichi non uscirono dalla loro ‘culla originaria’ già identici ai Sardi d’oggi, è evidente: nè avevano coscienza di essere sardi o di essere destinati a diventarlo. In realtà, poi, vi furono più verosimilmente diverse ondate successive, in epoche differenti. Di alcune non è rimasto alcunché, a parte qualche resto osseo archeologico. Una di queste ondate fu più importante, perché dette inizio ad un processo economico, demico e sociale fondamentale, che caratterizza tuttora l’isola. Era composta di un gruppo d’agricoltori e pastori, che possedeva alcuni tratti culturali e genetici (non ancora unici, allora), riconducibili a zone precise. Questo equivale a dire che allora i Sardi erano quasi in tutto simili alle popolazioni dalle quali si erano separati, partendo per il loro destino; non avevano ancora alcunché d’unico e distintivo, salvo forse la volontà ed il coraggio d’intraprendere il viaggio. Giunti che furono sull’isola, andarono incontro a quegli eventi geografici, biologici e storici che li trasformarono in quelli che oggi chiamiamo, impropriamente, i Nuragici. 
Oltre a non essere pienamente dimostrata, questa tesi si presta a qualche critica metodologica. Tra le conseguenze delle continue tensioni e guerre in Turchia, Cecenia, Georgia, Iraq ed Afghanistan vi è, infatti, (oltre a tutto il resto) la chiusura delle frontiere ad ogni tipo di studio e di ricerca sul campo. L’interesse elettivo internazionale si è conseguentemente focalizzato da anni sulla Siria, come nuovo provvisorio paradiso di ricerca archeologica, paleoantropologia, genetica e storica. Non è quindi un caso che i più recenti risultati, in tutti quei campi specialistici di ricerca provengano in misura preponderante da una zona ristretta, non sufficientemente rappresentativa del quadro totale. Inoltre, le vicende delle popolazioni e dell’ambiente di tutta una vasta area mediorientale sono state così perversamente complesse, da costituire ormai un rebus irrisolvibile.

Alcuni descrivono i sardi, dopo la conquista straniera, come un popolo spezzato. Tale affermazione, d’indubbio effetto, deve essere rifiutata, per molti motivi. È vero che la conquista mise fine alla storia ed allo sviluppo indipendente dell’isola, così come sarebbe potuta essere e come noi non sapremo mai. Ma è altrettanto vero che i sardo-nuragici furono autori di un singolare miracolo, in una terra che, pur essendo molto diversa da come la vediamo oggi, non offriva quasi nulla. E’ noto che alcune regioni forniscono più materiale, con cui far partire (e condizioni più favorevoli, con cui continuare) il processo agricoltura - tecnologia - ricchezza - scrittura - armi - conquista - sviluppo. In alcune zone del mondo, non si sono mai raggiunti i traguardi dei Nuragici. Ne è un esempio la Nuova Guinea, che è estesa come Francia ed Italia insieme, offre molto di più della Sardegna ed è stata popolata molto prima. Infatti, in Guinea approdarono i primi uomini che inventarono, nel mondo, le barche: essi v’introdussero la ceramica, l’allevamento d’animali da cortile e la manifattura dei metalli, ma il progresso, semplicemente, non s’innescò. Analogamente, si può dire di molte altre zone e dei loro popoli, alcuni dei quali furono sterminati, pur vivendo in terre più ricche e fortunate dei Nuragici. A volte, le fortune d’intere popolazioni sono determinate dal capriccio dei pochi che sono al comando, come avvenne per la Cina[27], oppure per il Giappone[28]. Scelte sbagliate possono derivare da motivi religiosi, tradizioni radicate, oppure semplici errori. 
I sardi furono sconfitti, è vero, ma unicamente dal tempo, o per meglio dire, dalla mancanza di esso (Zeitnot), in relazione alla lentezza di sviluppo che l’isolamento e l’ambiente imponevano. 

Resta loro, comunque, un merito solido e pratico, che è al contempo un primato indiscusso: essi dettero inizio alla prima, Grande Civiltà dell'Occidente Mediterraneo, o della Tirrenia Antica, definita da qualche tempo e con merito come “la Perla dell’Occidente Mediterraneo[29]”. 

Un’isola mitica, appunto, in un mare di simboli…


[1] Il Great Zimbabwe sembra un nuraghe, fatto con piccole pietre di granito, ma è stato costruito attorno al 1300 d.C.
[2] Specialmente nell’Inglese, morfologicamente più povero di Francese ed Italiano: forse perciò il mito dei folletti ha attecchito tra popolazioni che parlano Inglese.
[3] È il Dinotherium Gigantisimum, risalente a 7 milioni d’anni fa, rinvenuto anche in Turchia e a Creta: era un quadrupede più basso di un metro e mezzo, probabilmente erbivoro, si suppone capace di nuotare.
[4] Il tossicologo dott. A. Varcari, di Cagliari.
[5] Nel 1867, lo Spano giunse persino ad offrire (inutilmente) la somma di 1000 lire a chiunque gli portasse uno di questi enormi teschi, di cui anche in Sardegna si parlava e di cui anche G.A Masala scrisse (1803). Da Sard Antica N° 9, 1996: “Il mito dei giganti e il nuragico”, di G. Manca.
[6] M. Pittau, CSSO,1990; SN, 1988; LELN 1984; OPSE, 1994.
[7] Storia della Sardegna, 1971, Ed. Mursia.
[8] Inoltre, il Greco sardones si riferisce a reti da caccia; il francese sardun a reti da pesca (Pittau, OPSE, 1995, Delfino).
[9] Secondo Pausania e Solino, Norace avrebbe fondato in Sardegna Nora, provenendo da Tartesso in Iberia. Era figlio d’Erizia, nata da Gerione. S’interseca curiosamente con il mito dell’Occidente mitico e di Eracle, che avrebbe rubato le famose mandrie del re iberico e, in un’altra impresa, mirato ai pomi dorati custoditi dalle Esperidi, una delle quali aveva nome Erizia (“La Rossa”).
[10] L’uso più diffuso nella Sardegna barocca sembra essere stato quello di derivazione dal diritto canonico Spagnolo, che dava al marito la proprietà della dote della moglie. L’uso sardo era più sicuro, in caso di fallimento del marito e dava grande importanza alla donna (da Michele Carta, lettura sul periodo barocco nella Baronia, Orosei, 2003).
[11] Il Sardegnolo è comparso per la prima volta in “Pinocchio”: è molto vivace, di piccola taglia, dal dorso grigio e con ventre chiaro, molto diverso, pertanto, dall’asino albino con occhi azzurri dell’isola di Caprera, a maggior rischio d’estinzione.
[12] Richard Evershed, biochimico dell’Università di Bristol, 2001.
[13] Ad es.: da “camu” – il bastoncino/museruola usato per svezzare gli agnelli, deriva “camuso”, per l’aspetto più tozzo che assume il musetto dell’animale. Il Lat. Asinus deriva (attraverso l’Etrusco) da Ainu, etc.
[14] Insomma, il Neosardo sarebbe il risultato della romanzizzazione di una lingua Paleosarda che, almeno in alcune sue parti, attraverso l’Etrusco, aveva precedentemente contribuito a formare, o almeno influenzato, il Latino stesso.
[15] Specialmente l’antichità di questo legame sembra legittimare quelle connessioni della Sardegna con l’Egeo e Creta, con il mito di Talo, con il racconto Erodoteo della migrazione, con le vicissitudini dei misteriosi Pelasgi, etc. più autorevolmente descritte in dettaglio altrove (Pittau, SN, op. cit.).
[16] Si tratta di una contrattura spasmodica dei muscoli masticatori (masseteri, temporali e pterigoidei), con impossibilità di aprire la bocca. Il tetano, o rigor nervorum è una malattia tossinfettiva causata dalla tossina del clostridium tetani, generalmente in seguito a contaminazione di ferite lacero-contuse. La malattia è oggi rara, ma di prognosi tuttora gravissima.
[17] Odissea, XX, 302. Omero, in verità, non fa mai menzione alla Sardegna. È vero che, in seguito, parla di Feaci e della loro terra, la Scherìa, (Od. VI, 204, 270; VII, 36, 81-102,108,328; VIII, 120,247, 253, 262, 380, 390), ma il Mediterraneo offre varie località che possono identificarsi con i luoghi omerici.
[18] M. Pittau: “Origine e parentela dei Sardi e degli Etruschi” Delfino Ed. 1995. Vi sono illustrati gli stretti rapporti tra Kronos, (cui sacrificavano i Sardi), Saturno (i Romani), Satre (gli Etruschi) e la corrispondenza con santu Sadurru.
[19] Come Erba Sardonia, pertanto, è maggiormente indiziata della prima, che è relativamente rara in Sardegna.
[20] Una schiera disomogenea di chiosatori di testi antichi e famosi, alcuni dei quali perduti in originale. Gli “scolii” risalgono ad un lungo periodo che va dal I sec d. C. al XV secolo. Contengono errori degli amanuensi, omissioni, interpretazioni personali, etc.
[21] Storie, II, 105. Erodoto descrive i Colchi come probabili discendenti di militari egiziani, di pelle scura e con capelli crespi, rimasti in quelle terre dopo la conquista di Sesostri, dando per scontato che ne hanno conservato nel tempo memoria, usi e costumi, tra cui la pratica della circoncisione.
[22] Ne esiste anche una in Gallia, fondata dai coloni greci Massalioti. Olbìa, significa in greco: “ la Felice”. Un nome d’uso comune per un fondaco greco, come adesso “la bella Napoli” per una pizzeria.
[23] La circoncisione ebbe una grande diffusione rituale religiosa, come patto d’alleanza tra l’elemento fertile dell’uomo e divinità, nel lontano passato. In seguito, fu sostituita da altre cerimonie religiose non mutilanti (ad esempio, il battesimo): oggi è limitata ad ebrei e musulmani e, nella medicina, ai casi clinici che la richiedono (fimosi prepuziale, frenulo breve etc).
[24] Vedi S.A. # 18 e 19. “Orizines”.
[25] In cui si trovava l’antica Lidia, con capitale Sardi. La cui pronuncia, però, (sfard) non era omofona con Sardegna.
[26] Alcune sono state descritte in “Orizines”, molte altre sono direttamente note a chi abbia visitato il nord dell’Iran. Le abitudini alimentari, in specie il pane, molto simile al “caresatu”, ma anche la presenza d’altre specialità (formaggi, dolciumi), che non possono essere frutto di mera e semplice improvvisazione, ad es.: “sa corda”, del cui passaggio in Grecia il “cocorezzi” costituisce una prova.
[27] Motivi di potere interni interruppero la navigazione della marineria allora più avanzata nel mondo. Distrutta la flotta, anche il commercio e lo sviluppo della società intera ne soffrirono enormemente. Fu un terribile “salto indietro”.
[28] La distruzione di tutte le armi da fuoco, voluta per motivi di prestigio personale dagli spadaccini Sho-gun, durò fino a quando gli eventi costrinsero alla loro reintroduzione, per evitare alla nazione di soccombere.
[29] G. Patroni, La preistoria, 1951.